emergenza immigrati: incontro o scontro?

Giuliano Vettorato

 

Dalla pubblicazione del censimento del 1981 si è sviluppato in Italia un dibattito sulla nuova collocazione del paese nel mercato internazionale del lavoro. In particolare si è diffusa la convinzione che l’Italia aveva radicalmente mutato il suo ruolo: da paese di emigrazione a paese di immigrazione.

Di questo nuovo ruolo si era cominciato a parlare già fin dagli anni Settanta, da quando i saldi migratori (differenza tra immigrati ed emigrati) erano diventati, sia pur leggermente positivi, a causa di una prevalenza di ritorni sulle partenze di emigrati dall’Italia. Si trattava di un fatto assolutamente inedito, che apriva una fase nuova e abbastanza imprevista, nella storia dell’Italia.

La pubblicazione dei dati del censimento del 1981 sembrò confermare dal punto di vista demografico questa tendenza. Per la prima volta in Italia l’incremento demografico non dipendeva solo dalle nascite, ma anche al saldo migratorio positivo. L’Italia passava nel giro di un decennio da paese di emigranti a paese di immigrazione. Questo mutamento ha colto di sorpresa gli italiani ed ha evidenziato problemi di tipo economico, politico, sociale e culturale. E’ su questi ultimi che vorremmo fermarci, pur senza dimenticare gli altri.

La violenza xenofoba

La prima sensazione è stata certamente di sorpresa e di meraviglia, ma quando il fenomeno ha preso consistenza non ha mancato di creare disagi e reazioni negative che nel giro di poco più di un decennio sono diventate vere manifestazioni di xenofobia. Già nell’88 Giorgio Bocca in un suo saggio si chiedeva se“gli italiani sono razzisti?”. Erano i primi sintomi del malessere di fronte alle avvisaglie dell’ondata migratoria. E si scoprivano con stupore segni di razzismo: la difficoltà a coabitare nello stesso condiminio con i marocchini, il terrore che la figlia si innamorasse del negro, il fastidio per i “vu’ cumpra” di colore, per i lavavetri polacchi...

Ed ora ci si trova di fronte alle scene di violenza xenofoba di questi giorni: quartieri in rivolta contro gli immigrati, squadre di giovani scatenati contro negri e marocchini, simboli nazisti e violenza squadrista... E la stampa che ci dà dentro con titoli allarmistici: “Romeni stupratori”, “Albanesi nel mirino”,  “L’invasione degli africani”, “Ecce bomba”, “Tanti. Troppi?”... Sembra che il numero di stranieri che l’Italia può contenere sia giunto a saturazione, non se ne può più! Ed il leghismo riprende quota. Stiamo diventando razzisti? Le città italiane come Rostock e Sölingen?

Di per sè ricerche serie tenderebbero ad escludere che l’Italiano sia razzista, cioè che discrimini per un carattere anatomico (pelle, occhi, capelli...). Se questo ci può confortare, non è sufficiente a risolvere il problema. Le stesse ricerche dicono che ciò che caratterizza l’italiano è il pregiudizio culturale e sociale. Cioè discriminiamo perché la gente non si comporta come noi, perché la pensa diversamente, oppure perché è povera. Infatti anni fa c’era stata una sollevazione contro una ditta che aveva assunto 7 impiegati negri: poi si è scoperto che i negri venivano dall’America e allora tutto è rientrato.

Da questi comportamenti evidenziata la miopia culturale ed il provincialismo dell’italiano, che deve ancora sbarazzarsi di secoli di particolarismo: i comuni, i campanili, il regionalismo.

Il disagio del... capitalismo

E’ vero che l’immigrazione comporta dei disagi, a volte molto forti. Ma non possiamo neppure ignorare che per anni nei paesi occidentali è stata perseguita un’idea di progresso che portava inevitabilmente a questo risultato. Il modello di sviluppo dell’occidente è il primo responsabile di tali disagi, perché, invece di creare ricchezza per tutti ma incrementato le disuguaglianze: infatti la prosperità dell’occidente è basata sullo sfruttamento sistematico del Sud del mondo. In questi ultimi anni abbiamo cominciato a vederne i frutti: in una parte del mondo c’è una situazione di elevato benessere e di diminuzione della popolazione (per effetto della denatalità), dall’altra miseria, fame, malattie, persecuzioni politiche uniti ad un elevato indice di incremento demografico. Ciò crea una situazione di instabilità (come quando nell’atmosfera si crea una zona di bassa pressione, che attira le correnti da una zona di alta pressione), e determina lo spostamento di moltitudini, spinte dalla necessità a cercare un miglior tenore di vita (o almeno di sopravvivere).

Se non si cambia modello di sviluppo, saremo sempre più assediati da masse di poveri che fuggono da una morte certa. Pensare di asserragliarci nel nostro mondo dorato come in una fortezza che resista agli assalti degli invasori è pura fantascienza (anche se qualcuno ci sta già pensando).

Questa pretesa è assurda perché non si può pensare che i problemi dell’immigrazione siano solo di una certa parte della popolazione (degli extra-comunitari, come infelicemente abbiamo imparato tutti a dire). In realtà ci troviamo in un unico sistema planetario in cui i rapporti sono interdipendenti e gli effetti di un’azione compiuta in una parte del mondo si rispercuotono nell’altra senza soluzione di continuità. Pensare perciò di isolare i problemi di una parte del mondo senza che l’altra ne venga contagiata è pura illusione e non ha alcuna probabilità di riuscita.

Inoltre il problema immigrati è impossibile da risolvere da solo perché profondamente correlato con le esigenze ed i problemi del nostro sistema economico e sociale. Cercheremo di evidenziarne alcuni più evidenti.

Le contraddizioni del mondo occidentale

Anche senza prendere in considerazione tutta la vasta problematica connessa con il commercio Nord-Sud, la sola questione dell’immigrazione rivela una serie di contraddizioni tipica delle società occidentali, che nel loro vertiginoso sviluppo non riescono a produrre dei mutamenti culturali pari alla velocità dei mutamenti strutturali. Le principali contraddizioni del nostro mondo che l’immigrazione mette al vivo sono le seguenti:

- il sistema liberistico invoca la libera circolazione delle merci, dei capitali e dei lavoratori ma poi sorgono continuamente delle barriere a proteggere l’economia di una nazione o di un’area (e la UE ne è una conferma!);

- nei paesi occidentali c’è necessità di manodopera per lavori di bassa manovalanza (che più nessuno vuole fare), ma ci sono quote crescenti di popolazione che rimane disoccupata e si ritiene defraudata del posto dagli immigrati stranieri;

- la produzione post-industriale richiede un’alto grado di flessibilità mentre il mercato del lavoro è diventato assai rigido: la manodopera immigrata extra-comunitaria offre, soprattuto in regime di clandestinità, quella flessibilità che è vitale per qualsiasi economia moderna. Gli imprenditori inoltre pescano volentieri tra la manodopera clandestina perché senza oneri sociali e a completa discrezione del padrone;

- abbiamo raggiunto un alto livello di garanzie sociali, sindacali, previdenziali ma non siamo disposti a riconoscerle anche ai lavoratori extra-comunitari perchè costano troppo alla collettività (crisi del welfare state).

 

Anche dal punto di vista culturale la questione immigrati evidenzia delle aporie, di cui le principali sembrano essere:

- è stata sostenuta, dall’illuminismo in poi, una ideologia di uguaglianza, fraternità universale, solidarietà, condivisione con i più poveri, ma in realtà la nostra cultura è rimasta profondamente eurocentrica;

- l’Europa ha sviluppato una notevole propensione alla tolleranza ed al pluralismo in questi ultimi anni ma non sembra molto disposta a lasciarsi mettere in questione quando sono in gioco le le categorie del pensare e i principi filosofico-politico-religiosi su cui si regge il suo sistema socio-culturale (vedi per es. la questione del fondamentalismo islamico, agitata soprattutto come spauracchio);

- la religione cristiana ha nel nucleo del suo messaggio una spiccata tendenza universalistica, ma di fatto per la maggior parte della sua storia si è identificata con il pensiero occidentale ed ha elaborato le forme del pensare e dell’esprimere la fede in categorie tipiche del pensiero occidentale: le riesce difficile uscire da questo schema ed incontra difficoltà ad inculturarsi in altre culture.

 

Queste alcune della contraddizioni più evidenti che la questione immigrati fa balzare agli occhi perché scatena delle aree di conflitto su questioni irrisolte del nostro sistema. Non è quindi pensabile di risolvere il problema chiudendo le frontiere.

Le inadempienze della politica

D’altra parte manca in Italia, come in tutti i principali paesi europei, una valida politica di accoglienza, di integrazione ed eventualmente di contenimento degli immigrati. I governi continuano a sviluppare una politica da struzzi o si accontentano di leggi tampone ma non intervengono in maniera organica e sistematica sulla questione. I partiti sfruttano il malcontento a fini elettorali o si limitano alla ideologica enunciazione di generiche proposizioni di principio. Le amministrazioni oscillano tra la tolleranza miope e le retate improvvise. Mancano piani di presa di coscienza della importanza degli immigrati per l’economia dei nostri paesi: manodopera che, tra l’altro, costa molto di meno di quella locale non solo per i più bassi salari (illegali), ma anche perché la formazione di questi lavoratori grava totalmente (o quasi) sulle spalle dei paesi d’origine.

Così la mancata presa di coscienza della inevitabilità (e della sostanziale bontà) dell’immigrazione, unita alla mancanza di una reale e lungimirante politica al riguardo fa sì che una situazione già tesa esploda in conflitto. Tuttavia addossare la colpa di ciò agli immigrati è ingiusto e infondato.

Non si può certo addossare loro la colpa della povertà. Non se la son cercata, non è colpa loro se le materie che essi producono sono andate sempre diminuendo di valore, mentre quelle che produciamo noi sono sempre andate aumentando: i prezzi li impongono gli occidentali! E spero che nessuno consideri una colpa quello di cercare di sfuggire alla fame e alla persecuzioni per trovare da vivere!

E’ evidente che quelli che vengono nel nostro paese per trovare da vivere non possiedono niente, altrimenti sarebbero rimasti al loro paese. Quel poco che avevano sovente lo hanno speso per pagare il trasporto. Arrivati qui, non trovano lavoro: è giocoforza che mendichino il pane. Ho conosciuto degli africani che stavano giorni interi senza mangiare e si rassegnavano a chiedere qualcosa solo quando non ce la facevano proprio più. Chi riesce a comprendere l’infinita sofferenza di chi abbandona casa, famiglia, amici, patria, lingua e si trova straniero, in una terra ostile, senza un soldo, una casa, un lavoro, una famiglia, un posto dove andare ed essere accolto? Bisognerebbe provarle certe situazioni per capire...

Non c’è da stupire se qualcuno si lascia prendere dalla tentazione della scorciatoia del furto o della delinquenza. Ma sono una minoranza: la maggior parte si mette alla ricerca di un lavoro, che rimane in genere di tipo precario o avventizio. Sovente si sposta in cerca di condizioni migliori, di lavori stagionali, o nel tentativo di riparare all’estero.

Una parola a parte merita la situazione delinquenziale in cui si trovano invischiati alcuni immigrati. Questa situazione nasce già bacata all’inizio, in quanto la delinquenza di casa nostra

- organizza gli sbarchi degli immigrati in Italia,

- fornisce la copertura a questi immigrati in modo che riescano a radicarsi nel territorio nazionale,

- avvia i clandestini alla delinquenza organizzata (prostituzione, spaccio di droga, lavoro nero, falsificazione documenti, ricettazione merce, vendita di auto-rubate, ecc.).

Quindi la responsabilità di questo disagio ricade più sulla disorganizzazione-illegalità del nostro paese che su di loro.

Si può capire che a queste situazioni si potrebbe mettere rimedio con una politica, che provveda ad accogliere ed inserire adeguatamente gli immigrati nel tessuto sociale, che renda meno precaria la loro condizione (anche dal punto di vista burocratico), che li sottragga alla delinquenza locale e all’illegalità (dei padroni e dei proprietari), che controlli maggiormente gli abusi e le situazioni di delinquenza strisciante.

Invece la politica italiana è stata per anni latitante su questo. Ciò ha prodotto una situazione di illegalità diffusa perché le immigrazioni potevano avvenire solo clandestinamente. La “legge Martelli” (n. 39 del 1990) ha promosso una “sanatoria” per l’esistente, ma, per quanto più benevola della precedente, si risolve sempre con un provvedimento di chiusura di fronte all’immigrazione da paesi poveri. Essa è contraddittoria (tra principi enunciati diritti effettivamente riconosciuti) ed inapplicabile. Così la sua applicazione diventa impossibile e affidata alla discrezione dei tutori della legge.

Ora si stanno proponendo altri provvedimenti di chiusura. Per quanto possano sembrare risolutive queste proposte, son inevitabilmente destinate al fallimento se non si tiene conto anche dei diritti e delle esigenze delle persone che dovrebbero essere colpite da questi provvedimenti. L’esperienza internazionale insegna che norme solamente restrittive non solo non ottengono gli effetti desiderati, ma favoriscono gli ingressi clandestini con conseguente aumento dell’illegalità.

La chance culturale

Forse per noi è pure difficile comprendere il disagio culturale in cui si trova l’immigrato che viene nel nostro paese. Ha abbandonato la sua cultura d’origine e può avvertire in sè addirittura un oscuro senso di tradimento. Sovente ha sviluppato degli atteggiamenti da socializzazione anticipatoria, per cui si sente, nei confronti dei suoi compatrioti, più europeo di loro: vive una sorta di pluralismo esistenziale, si trova conteso tra due culture, è un “uomo di frontiera”. Ma una volta entrato in uno dei paesi sviluppati, non si sente accettato dalla cultura del paese ospitante, che ha chiesto braccia ma non vuole persone. L’immigrato è dunque costretto a vivere, culturalmente, in una terra di nessuno, uomo marginale, privo di punti di riferimento che lo aiutino a costruirsi una sicura identità come lavoratore e cittadino. Esso si trova in un grave disagio socio-psicologico, vive uno stato di grande incertezza interiore. Questa condizione è drammatica, più grave di quella della mancanza di una casa, del lavoro.

Ma questo fatto rivela il perdurare di un pregiudizio eurocentrico che scorge nella cultura occidentale la sola vera cultura, mentre le altre sarebbero solo pre-culture, in-culture o, per così dire, culture abusive, in attesa di venir promosse al rango di culture tecnicamente progredite e socialmente rispettabili. Questo pregiudizio sembra profondamente radicato nell’occidentale e gode del sostegno di prestigiose firme. Oltre ad una mentalità radicata a livello diffuso, contribuisce a questo la stessa formazione scolastica e l’atteggiamento dei mass-media.

Lo stesso pregiudizio può rivelarsi a livello religioso.

In realtà l’immigrazione non è solo un problema. E’ anche una grande occasione. Essa offre la chance forse unica, di un discorso dialogico vero, storicamente importante, fra culture diverse che finalmente si incontrano al di fuori dello schema irrigidito dei rapporti di forza o delle eleganti finzioni dei rapporti diplomatici. In particolare l’Italia, inserita profondamente nel Mediterraneo, può svolgere una funzione di ponte tra la cultura arabo-mussulmana e quella occidentale-cristiana. Il Mediterraneo è stato una culla della civiltà grazie alla sua configurazione fisica che lo faceva un mare tra le terre, un insieme di mari e quindi una via di comunicazione e di incontro tra popoli e culture diverse. Rinunciare a questa funzione di ponte vuol dire farlo morire, impedire lo sviluppo della civiltà tra le sue sponde.

Inoltre il momento storico che stiamo vivendo ci proietta ad un livello planetario o addirittura interplanetario. La radio, televisione, il computer, le reti telematica e telefonica, i satelliti ci hanno introdotto nella dimensione planetaria delle comunicazioni di massa. Al vecchio eurocentrismo si sta sostituendo, nel bene e nel male, uno spirito interculturale e multietnico. Abbiamo visto stabilirsi anche inItalia, ed essere accettate, forme culturali e religiose tipiche dell’oriente come lo yoga, il mantra, gli ashrams... La società si va facendo sempre meno compatta ed omogenea, e si struttura in forma globale, articolata, multi-culturale.

A livello religioso si afferma sempre di più lo spirito ecumenico: agli anatemi subentra il dialogo.

E’ giocoforza riconoscere, in questo mutato quadro sociale e culturale, la comune umanità degli essere umani, come punto di partenza di ogni discorso etico e normativo. Ogni uomo deve vedere riconosciuta la sua dignità ed il suo valore, indipendentemente dalla sua appartenenza (qualsiasi tipo di appartenenza). La planetarizzazione attuale costringe i vari sistemi a comunicare tra loro. E’ finita l’epoca in cui una cultura si affermava “contro” le altre. Ogni cultura dimostra il suo valore nella misura in cui dà un reale apporto alla crescita dell’umanità. La sola alternativa al riconoscmimento teorico-pratico dell’alterità degli altri consiste nella loro distruzione. Il dilemma per il 2000 è semplice: o collaborare o perire. Il diverso non può più essere percepito come una minaccia.

Come si diventa razzisti

In mancanza di una effettiva politica dell’immigrazione, le differenze culturali, che potrebbero costituire il vero elemento di arricchimento reciproco, diventano invece uno dei fattori di maggior disagio dei residenti e fanno sì che il problema esploda in tragedia.

Inevitabilmento lo spostamento di milioni di persone da aree geografiche e culturali così diverse non può non creare disagi, per tutti. In particolare, è facile che si crei una situazione di conflitto tra residenti che tendono a perpetuare la conservazione di propri privilegi e “invasori” che arrivano carichi di problemi e attirati dal miraggio di una vita da nababbi. Tuttavia se questi disagi fossero vissuti come incontro di culture e occasione di arricchimento reciproco, non provocherebbero la tensione attuale. Come mai non si vede nei turisti altrettanta minaccia? Non è forse che negli immigrati la differenza culturale è associata all’immagine della miseria e delinquenza? Ma di questi fattori, abbiamo già visto, gli immigrati non sono più colpevoli di noi.

Mancando la capacità culturale di capire e di approfittare della chance dovuta alla presenza nuova di tanti stranieri, ci si lascia prendere da atteggiamenti reattivi e si formano a livello sociale dei pregiudizi attraverso cui si riesce a trasformare un’occasione di incontro in una di scontro. E’ un percorso classico attraverso cui dei pacifici cittadini come gli italiani, tendenzialmente non razzisti, riescono a diventare in breve tempo dei “razzisti” arrabbiati. Questo segue più o meno le seguenti fasi:

- percezione di un disagio legato ad alcune persone (accattonaggio, vagabondaggio, miseria, illegalità, difficoltà comunicative, diversità di usi e costumi);

- associazione di questi fattori di disagio ad alcuni elementi anatomici (pelle, occhi, capelli, statura, conformazione fisica e del viso) e ad alcuni elementi culturali (vestiti, usanze...);

- formazione di stereotipi e pregiudizi sociali (“sono sporchi”, “non lavorano”, “rubano”, “spacciano”...) nei riguardi degli immigrati per creare una barriera tra noi e loro;

- prime manifestazioni di intolleranza: fine della possibilità di incontro e di capire l’altro;

- i mass-media soffiano sul fuoco contribuendo a generalizzare il pregiudizio sociale (ampia eco a episodi di violenza e di illegalità da parte degli immigrati);

- formazione dello stigma: “tutti gli immigrati (qualche popolo particolare) sono ladri, assassini, stupratori, ecc.”;

- rappresentazione sociale dello straniero come minaccia da fronteggiare e respingere;

- diffusione di atteggiamenti xenofobi e di intolleranza sociale;

- gruppi di giovani violenti o comunque in cerca di identità e di conferma sociale interpretano i sentimenti comuni e danno attuazione a raid punitivi, cacce al negro, alle prostitute, ecc. Una specie di pulizia etnica su scala ridotta.

Il ricorso alla violenza non è però una soluzione, soprattutto in uno stato di diritto.

Deve essere attuata una politica di autentica attenzione al problema dell’immigrazione in maniera da evitare nei cittadini questi fenomeni di rigurgito e di formazione di pregiudizi razziali e di occasioni di scontri sociali.

...proposte

E’ evidente però che su questo processo abbiamo precise responsabilità tutti. Non solo lo stato deve muoversi, ma tutti i cittadini, per invertire il trend attuale. Non solo sul piano dell’intervento assistenziale, su cui peraltro ci sono delle encomiabili iniziative, ma su quello culturale. E’ su questo campo che si sta svolgendo la battaglia più importante. Se lasciamo che il malcontento dilaghi, inevitabilmente prevarranno soluzioni violente: l’unico rimedio alla crisi apparirà sempre più ad anpie masse di popolazione il muro contro muro, la difesa ad oltranza dei propri previlegi e l’eliminazione di chi li sta minacciando.

Invece è importante passare dalla contrapposizione al dialogo, dallo scontro al confronto. Solo così riusciremo ad invertire l’attuale tendenza e a fare dell’arrivo di tanti stranieri in Italia un’occasione di arricchimento. Per far questo è necessario che la scuola ed i mass-media ci aiutino a superare il nostro etnocentrismo culturale e ad aprirci ad altre culture. Che ci insegnino a percepire la differenza come elemento di crescita e non come minaccia alla sopravvivenza. Dobbiamo passare dalla conflittualità alla convivialità, dalla difesa dell’identità alla valorizzazione della diversità.

In questo a tutti coloro che lavorano nel campo della cultura, dell’educazione, dell’evangelizzazione si apre un ampio campo di impegno. Va fatto della scuola, degli oratori, delle parrocchie, dei gruppi e delle associazioni un trampolino per partire alla volta del nuovo. Una scuola che superi una visione eurocentrica, una presentazione della storia solo dal punto di vista europeo (o addirittura italiano), ferma sulla sola cultura greco-latina, che ipostatizzi i principi della logica e del pensiero occidentale. Vanno recuperate forme di pensiero e di espressione di altre culture, per noi forse inesplicabili, e che pure hanno dato vita a culture non inferiori alla nostra. Nei gruppi, ma anche nella scuola, è importante promuovere un incontro reale e profondo con gli extra-comunitari. Vanno visti non come oggetti (della meraviglia, del disprezzo o dell’odio) ma come persone, con i loro problemi concreti, con le loro caratteristiche e con i loro valori, va promosso l’incontro-confronto tra culture nel reciproco rispetto.

Gli oratori, le parrocchie e le scuole possono riscoprire di fronte all’emergenza stranieri una missione nuova, che potrebbe consistere nel porsi come luogo dell’ecumenismo e dell’incontro pacifico tra razze e culture diverse. Va superata, in questi ambiente, la visuale un po’ colonialista dell’elemosina, che vedeva nel negretto un’occasione per fare del bene. Non esiste uno che ha tutto ed un altro che non ha niente: entrambi abbiamo qualcosa da dare e da ricevere.

Bisogna porci in una condizione di autentica fraternità e parità: capire che io posso dare qualcosa all’altro e che l’altro può dare qualcosa a me. Dare e ricevere. Questo stabilisce il principio della reciprocità... Se cominciamo ad accettare qualcosa da chi viene in casa nostra, potremo apprezzare di averlo accanto ed insieme trovare una via di soluzione anche ai nostri problemi ed evitare un triste futuro di lotte e di sangue.