Per chi oggi ha più di 40 anni il progresso ha costituito un
punto di riferimento istintivo. Ma dopo dopo Chernobyl è ancora possibile
credere nel progresso? Cosa pensano i giovani del progresso?
L’idea del progresso nasce dalla traduzione laica di un’idea
religiosa. Era stata la religione ebraica a trasformare il riferimento della
religione dalla natura alla storia. Il Dio d’Israele (Jahweh) non era solo più
il dio di un luogo o di un fenomeno naturale (il cielo, il mare, la terra, le
messi, la fecondità...), ma un Dio che si rivelava nella storia (Esodo). Così
le feste ebraiche persero il riferimento ai cicli della natura (transumanza,
mietitura, vendemmia...) per diventare feste dell’intervento di Dio nella
storia (Pasqua = liberazione dall’Egitto, Pentecoste=consegna della legge sul
Sinai, ecc...). Al tempo ciclico,
incentrato sul mito dell’eterno ritorno, tipico delle religioni naturali,
subentra una concezione lineare del tempo, teso tra un inizio (creazione) ed
un(a) fine (giorno di Jahweh o ultimo giorno). Il cammino dell’uomo nel mondo
non è più quello della sottomissione al fato, ma della collaborazione all’opera
di Dio (alleanza). Le feste liturgiche celebrano l’intervento di Dio e favoriscono
l’incontro tra Dio e l’uomo.
E’ l’avvio dell’idea del progresso: un tendere del tempo
verso una meta ed un riscatto dell’uomo dal fatalismo per essere autore del
proprio destino, che si misura nei termini di un protagonismo nella
storia. Il Cristianesimo, con la
discesa di Dio nella storia umana, ribadisce quest’idea e la rende ancora più
evidente.
Ma l’idea cha abbiamo noi ora di progresso non dipende tanto
dalle sue origini religiose, bensì dalla laicizzazione che ne fece
l’illuminismo. Alla fede religiosa
l’illuminismo aveva sostituito la fede laica nel progresso, conservando l’idea
di un tempo irreversibile orientato al futuro, ricco di sempre nuove conquiste.
Tuttavia, mentre la fede religiosa poggiava su un’attesa di compimento
metastorica, trascendente, la fede laica sosituisce quella religiosa
opponendole la possibilità di un compimento visibile della “promessa”. Questa
riposava sulla convinzione che, attraverso la scienza e la tecnica, le
condizioni dell’umanità sarebbero infallibilmente migliorate. E questo per
tutti, quasi una nuova moltiplicazione dei pani e dei pesci su scala mondiale.
Ecco allora lo sviluppo concomitante del concetto di democrazia, con i principi
di uguaglianza, fraternità, libertà, inscindibilmente ad essa connessi.
Questa promessa è stato il “motore” del grande sforzo che ha
portato alla costruzione della società moderna, con le sue conquiste
scientifiche, tecniche e culturali. Sforzo che ha portato a dominare la natura
ed i ritmi del tempo per piegarli ai progetti dell’uomo. Chi è abbastanza
anziano può ricordare l’immane sfrozo prodotto in Italia nel dopoguerra per
uscire fuori dalla miseria, per ricostruire il paese. Ed insieme la grande
passione politica e morale, civile e culturale che animava l’Italia in quegli
anni, che portò a dare forma ad uno stato democratico, ad avviare
l’industrializzazione del paese, a rivitalizzare la cultura.
Chi ha vissuto quel periodo di intenso fervore può essere
indotto a domandarsi dove sono finiti i valori e le virtù di un tempo.
La situazione è notevolmente cambiata da allora. Già la fine
degli anni ‘60 avevano registrato un cambio nell’orizzonte culturale, di cui la
rivoluzione del ‘68 era stata un
segnale. Ma in realtà quella rivoluzione aveva cercato solo di portare a
compimento i principi insiti nell’ideologia del progresso, soprattutto di
estenderli a tutti gli uomini, compresi i più poveri ed emarginati.
Il segnale forte dello scricchiolio di questa fiducia fu la
questione energetica venuta alla ribalta con la crisi petrolifera del 73-74. Il
quella circostanza ci rendemmo conto che non bastava aver soldi e mezzi per
progredire sempre. Lo sviluppo non era illimitato perché le risorse non erano
più sufficienti a soddisfare i bisogni crescenti. Ed in seguito si scoprì che
non c’era nemmeno lavoro per tutti, e questo voleva dire miseria in vista.
Infine nell’85 scoppiò il caso Cherobyl che pose
drammaticamente davanti a tutti la pericolosità dell’energia nucleare. Intanto
la questione ecologica andava prendendo spessore e diventava nel giro di
qualche decennio uno dei motivi di riflessione e di rivendicazione. Per
salvarsi sembrava inevitabile arrestare il progresso e tornare a livelli di
vita pre-industriali.
Alla fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive” subentrò
un po’ alla volta uno stato di incertezza provocato dalla caduta di credibilità
del modello di sviluppo fino ad allora perseguito. Ed insieme è entrato in
crisi il tipo di uomo che di questa società era stato artefice e promotore. Un
uomo contrassegnato dalla fiducia in se stesso e nei suoi mezzi, convinto che
attraverso la sua opera, il suo ingegno, la sua laboriosità avrebbe vinto sulle
forze avverse e contribuito a realizzare un mondo migliore, una società più avanzata
e più democratica di qualsiasi altra del passato.
Cosa sarà della nsotra civiltà costruita sul mito del
progresso?
Il crollo delle certezze su cui si poggiava l’uomo moderno
ha comportato uno stato di generale inquietudine che in qualche caso ha
raggiunto dei livelli patologici. Con il crollo del mito del progresso egli si
è ritovato in frantumi, senza più una motivazione sufficiente per proseguire
nell’impengo che per tanti anni aveva perseguito con fatica, rinunzie e
sacrifici.
Sopravviverà la nostra civiltà a questi mutamenti? Troverà
un nuovo equilibrio con cui motivare la sua sopravvivenza nella storia, oppure
deve avviarsi verso un declino irreversibile?
Vari autori e correnti culturali insistono sul tema del declino
dell’Occidente (=terra del tramonto). Da varie posizioni e per motivi diversi
preannunciano la fine della nsotra civiltà,
prevedono un “medioevo prossimo-venturo”. Segnali di questo declino
emergono ovunque, dall’economia (recessione economica, mancanza di occupazione,
esaurimento delle risorse), alla sociologia (denatalità, povertà crescente,
immani movimenti migratori), ma soprattutto dalla mentalità prevalente (forte
sfiducia nel futuro, nella società, in
se stessi; caduta del valori fondamentali: democrazia, famiglia, lavoro, vita).
D’altra parte ci sono ancora segni di una vigorosa vitalità
del nostro mondo. L’economia, la politica, la cultura sono ancora saldamente in
mano all’Occidente. Gli stessi paese asiatici emergenti a livello economico, lo
fanno sposando l’ideologia occidentale di progresso. Le recessioni economiche
sono fisiologiche nel nostro sistema e non preludono nessuna catastrofe,
piuttosto una ripresa. Perciò vari autori parlano di crisi congiunturale non
strutturale.
Quale sarà pertanto il futuro della nostra civiltà: un
declino inevitabile o una nuova ripresa dopo un periodo di crisi e
rinnovamento?
Per capire questo è importante vedere come si stanno
evolvendo le nuove generazioni. Come si pongono i giovani di fronte a qusti processi?
Quali strade stanno imboccando? Verso dove si dirigono? Verso la dilapidazione
dei rimasugli del patrimonio culturale dell’Occidente o verso la ricostruzione
di un nuovo patrimonio, oimpostato su basi più solide? E’ quello che vedremo
nel prossimo numero.
Giuliano Vettorato