L’EDUCAZIONE: METTERE LE ALI AI BISOGNI DEGLI ADOLESCENTI

Giuliano Vettorato

 

Per la colomba le ali sono un peso e un limite. Però è un peso che le consente di volare”.

Questa celebre immagine del filosofo E. Kant mi è venuta in mente di fronte al titolo del seminario: “il minore alato”. 

Da una parte possiamo considerare il minore “a lato”: uno che viene emarginato dalla società e che, più o meno di buon grado, si adatta a questa situazione e si ritaglia spazi di autonomia in un sistema che lo esclude. Dall’altra possiamo considerare il minore “alato”, cioè dotato di ali, capace di sollevarsi da questa situazione, di fuggire dalla gabbia dorata dove l’ha rinchiuso la società. Un giovane che ha le possibilità di crescere ed affermarsi in questa società, ma di fatto non usa i mezzi che possiede, perché gli pesano (Kant) o perché non sa come utilizzarli o nemmeno sa di averli. A questo punto mi sembra che l’unica via di soluzione sia ancora la via dell’educazione: cioè renderlo consapevole dei mezzi che ha e insegnargli ad usarli. (commento dell’immagine del convegno).

Questa immagine rimanda al significato di educazione secondo l’etimologia: “e-ducere” = condurre fuori. L’educazione come “maieutica”, come aiuto a tirar fuori, a far nascere l’uomo che si cela dentro l’adolescente…

Anche se non si può limitare il significato di educazione a questo, non possiamo ignorarne la suggestività. Soprattutto nell’adolescenza, lì quando si verifica il passaggio dalla dipendenza dal mondo adulto, all’autonomia e alla presa in carico della propria vita.

In questa fase di transizione oggi si gioca molto del futuro della nostra società ed anche della scommessa educativa.

Che fare?

 Oggi però il prolungamento della fase di transizione pesa sulle agenzie educative investite di sempre nuovi e più gravi compiti, di fronte ai quali denunciano tutta la loro inadeguatezza. Molti educatori, di fronte all’enormità dello sforzo e alla scarsa probabilità di successo, sono fortemente tentati di abdicare al loro compito. Ma è giusto lasciare che il futuro dei nostri ragazzi e quindi della società sia deciso solo dai giochi di mercato, dalle manovre di potere, dalle speculazioni sulle disgrazie o disinformazioni altrui?

Per evitare questo c’è solo un mezzo: formare i giovani ad essere protagonisti della loro crescita, artefici del loro futuro, ad essere critici verso le proposte del mercato, a decidere con la loro testa.

Ciò richiede impegno educativo: è essenziale che gli adolescenti imparino a conoscere i loro bisogni e dare la risposta giusta. Ne va del futuro loro personale e di tutta la società.

Educare all’autonomia

Per esempio, il mio predecessore, Vito Orlando, nella sua relazione ha parlato di “desiderio di autonomia e nuove dipendenze”. Cioè, ha messo in rilievo una contraddizione dei nostri giovani: l’incapacità di conseguire quell’autonomia cui anelano e che consentirebbe loro di diventare adulti.

Questo non solo per i limiti strutturali di cui soffre la nostra società, ma anche per evidenti limiti culturali. Ci troviamo di fronte ad una società che, mentre invoca a gran voce la libertà, in realtà non riesce ad insegnare a gestirla.  Non riesce a costruire personalità mature, libere e responsabili, capaci di seguire un progetto, di fare scelte precise, di orientare la propria vita secondo criteri di valore.

Abbiamo giovani che rimangono a carico della famiglia fino ai 30-35 anni, che non riescono a decidere del proprio futuro, che non sanno resistere ad un impulso…

Cosa fare?

Bisogna riprendere in mano l’educazione. Correre il rischio di educare…

E che l’educazione ridiventi capacità progettuale.

Le difficoltà non possono farci rinunciare alla progettazione: che vuol dire stendere un ponte tra il reale e l’ideale, tra il ragazzo concreto e quello che egli sarà, tra l’oggi ed il domani.

Se nel passato c’era il rischio di concentrarsi troppo sull’ideale, oggi si corre quello di limitarsi a soddisfare i desideri e i capricci del ragazzo senza chiedergli qualcosa in più. Riprendere a progettare vuol dire coniugare insieme esigenze reali del ragazzo con esigenze obiettive di sviluppo. Se prendessimo a prestito dall’edilizia l’idea di progetto, capiremmo subito che sarebbe illogico pensare che per fare la casa bastino le idee del proprietario o di un artista fantasioso. E’ necessario che queste siano tradotte in atto da un ingegnere o architetto che conosce le leggi della fisica e le applica, trovando il giusto equilibrio tra esigenze soggettive ed esigenze strutturali.

Così deve diventare anche dell’educazione.

Oggi si parla molto di soddisfare i bisogni. Cosa si cela dietro a questa parola? Sovente essa viene intesa in senso commerciale: dare il prodotto richiesto dal cliente. Questo lo si vede, per esempio, in molte famiglie che preferiscono dare al ragazzo quello che chiede senza chiedergli un corrispondente impegno che lo faccia crescere. Così pure molti interventi degli amministratori pubblici si limitano a dare una risposta al bisogno immediato, ma senza preoccuparsi di attivare le risorse del ragazzo.

In campo educativo non valgono le leggi del mercato, funzionano meglio quelle dell’edilizia: tener presente sia le esigenze soggettive che quelle oggettive, mediare tra le une e le altre. Per far questo bisogna avere un progetto e seguirlo attraverso gli anni e le fasi della crescita, adattandolo ai mutamenti personali e sociali. Un progetto calibrato sul ragazzo, e non sull’istituzione, ma un progetto che preveda che il ragazzo diventi uomo e non rimanga un “eterno adolescente”. Un progetto che utilizzi tutti gli strumenti che le moderne scienze dell’uomo mettono a disposizione dell’educazione, ma che contenga anche una certa idea di uomo

Certamente oggi la questione è complicata dalla molteplicità dei saperi, dalla varietà dei progetti e dalla proliferazione di idee di uomo e di visioni del mondo. Cosicché non si sa per quale progetto battersi. Tuttavia la pluralità non deve essere a danno dell’efficienza, al contrario, offrire percorsi diversificati e molteplici per attuare l’intervento.

Forse quello che manca veramente è la capacità di fare sintesi, di dare unità alla molteplicità delle informazioni, a fare della propria persona un educatore che testimonia ciò che dice e non si limita a dare delle informazioni.

Don Bosco e il Borgo

Nella impossibilità di procedere secondo un criterio univoco e condiviso da tutti, preferisco rifarmi ad un modello concreto, che a nostro avviso ha realizzato quest’unità testimoniante.

Ci troviamo in un luogo dove è stata sperimentata una formula educativa vincente. Nel dopoguerra qui avvenne un miracolo: ragazzi ridotti sulla strada per mancanza di famiglia, di cibo, di occupazione, di istruzione … - gli scuscià – trovarono, attraverso le attenzioni dei salesiani, una via per invertire la loro sorte e riappropriarsi di ciò che la guerra aveva loro tolto. La frase del direttore di allora, Don Biavati, “chi ridona il sorriso ad un fanciullo, accende una stella in cielo” risuona tra noi ancora oggi e apre prospettive nuove. E’ una frase che rimette in moto la speranza, facendo balenare in una possibilità di riscatto per chi è stato tagliato fuori dalla vita, e chiama a raccolta tutte le energie positive della società attorno ad un progetto.

Qualche giorno fa è stato presentato un libro che celebra quei momenti. Ed è stata annunciato l’avvio di una ricerca storica sui primi 15 anni del Borgo ad opera di un professore universitario. Non voglio anticipare nulla né invadere il campo di altri. Però l’opera  compiuta da quei salesiani trovava ispirazione nell’opera di un grande prete educatore del secolo scorso: Don Bosco.

Mi piacerebbe far notare come l’azione educativa di don Bosco rappresenti una risposta anche alle domande di educazione sollevate oggi, come lo è stato per gli sciuscià di cinquant’anni fa.

Egli ha condensato la sua proposta educativa (il sistema preventivo) in 3 parole: ragione, religione, amorevolezza.

Lasciamoci suggestionare da queste parole per ritrovare anche noi la voglia ed il coraggio di educare.

Religione

Cosa vuol dire religione?

Dare un Padre a chi l’ha perduto. Ieri agli sciuscià o agli orfanelli di Torino, oggi agli orfani di questa società “senza padri”. Un società senza “il Padre”. Un società che ha emarginato Dio dal suo orizzonte, che l’ha cancellato dai cieli. Ma è possibile eliminare Dio dall’orizzonte dell’uomo?

Eliminando Dio abbiamo perso il punto di riferimento, siamo rimasti soli in quest’universo, abbandonati a noi stessi, alla mercé dei potenti, del disordine e dell’inganno.

Prometeo, ha strappato il fuoco agli dei e l’ha posto nelle mani degli uomini. La cupola è stata spalancata e l’uomo, nuovo Ulisse, si è avventurato alla scoperta dell’Universo. Ne ha ottenuto maggiori conoscenze, vantaggi di ogni genere, ma anche inquietudine e disorientamento.

Come dice Nietzsche: “Noi stiamo precipitando ininterrottamente. Indietro, avanti, a lato, in ogni direzione…

C’è ancora un Sopra e un Sotto? Non andiamo errando come attraverso un nulla infinito?”

Questo disorientamento lo vediamo soprattutto nei giovani tentati dal suicidio o dal ricorso alla droga e dai tanti altri surrogati che danno una risposta temporanea al dolore e all’angoscia.

Don Bosco è riuscito a coniugare scienza e pietà, ha dato ai suoi ragazzi un Padre nei cieli e pane sulla terra, li ha fatti studiare e pregare. Non avremmo bisogno anche oggi di qualcuno che ci aiuti a mettere insieme il progresso e Dio? Che ci faccia trovare un equilibrio tra esigenze di sviluppo scientifico con quelle di sviluppo morale? Che ci riporti ad una sapienza autentica che si fa carico di tutto l’uomo e non solo di una parte?

Don Bosco c’è riuscito, per i suoi tempi; ci riusciremo noi nei nostri?

Amorevolezza

Non basta un Padre nei cieli: chi è orfano ha bisogno anche di un padre sulla terra. Don Bosco lo è stato per i suoi ragazzi, orfani o comunque lontani da casa. Ha coniato il termine “amorevolezza” per descrivere l’atteggiamento amoroso di chi si china sul piccolo, sul bisognoso. L’amorevolezza è capacità di comprendere i bisogni, le necessità e nello stesso tempo di spronare verso mete più alte. Di questo ne ha fatto la caratteristica delle sue case, che voleva fossero delle famiglie per quelli che non avevano famiglia.

Elemento che ha anche una valenza religiosa: infatti per lui non c’era distinzione, come atteggiamento, tra pietà verso Dio e pietà verso il ragazzo povero e bisognoso. E i suoi ragazzi scoprivano l’amore di Dio attraverso le sue attenzioni.

Ma non si è limitato a dire di amare, ha tenuto in considerazione anche la percezione del ragazzo, la sua soggettività. “Non basta che siano amati, è importante che sappiano di essere amati”, ha detto. Questo ha rappresentato un punto di svolta in tutta la pedagogia, per cui era un dovere, anche in ambito familiare, non manifestare i propri sentimenti ai ragazzi. Don Bosco invece fa di questa, che ora viene chiamata la “relazione educativa”, il caposaldo della sua impostazione pedagogica.

Oggi il tema della relazione educativa sta in testa ai trattati di pedagogia: segno che la lezione ha sortito il suo effetto. Ma quanto viene attuata, sia in famiglia che nella scuola ?

Quanti sono ancora i padri e le madri assenti? Abbiamo dei ragazzi rimpinzati di cose, come polli di allevamento, ma non cresciuti armonicamente. E poi ci si stupisce se ad una certa età non vogliono più aver rapporti con i genitori: ma ce li hanno avuti prima? Abbiamo saputo dare amore autentico nella giusta proporzione? O abbiamo dato solo cose? Abbiamo saputo sviluppare in loro anche la capacità di autonomia e di responsabilità? Li abbiamo stimolati a crescere, a imparare a gestirsi, a relazionarsi autenticamente? O li abbiamo solo “allevati”?

Così anche nella scuola o i altri ambiti di educazione collettiva, dove ci si limita a dare dei contenuti cognitivi, nozionistici, dimenticando che il ragazzo cerca soprattutto delle persone con cui relazionarsi, dei testimoni viventi più che delle enciclopedie.

Don Bosco ci insegna che questa è la chiave di volta dell’educazione, ciò che fa percepire all’allievo che l’educatore è dalla sua parte, che vuole il suo bene e che, quindi, anche ciò che gli chiede di difficile e di ostico, è per il suo bene. Se si realizza questa convergenza d’intenti, tutto l’impianto dell’educazione tiene. Se no, tutto lo sforzo educativo crolla, perché ogni cosa trasmessa viene percepita come un’imposizione di cui liberarsi al più presto. Così la ricerca dell’autonomia, invece di tradursi in capacità di governare se stessi, diventa solo liberazione dai vincoli della minor età. Ne consegue una generazione “lontana dai padri”, ma anche terribilmente sola.

Ragione

Il terzo caposaldo del sistema educativo di Don Bosco era costituito dalla ragione. Per lui voleva dire sia la capacità di dare ragione delle norme e degli obiettivi dell’educazione, sia anche sviluppo della dimensione razionale della vita. Sviluppo assicurato soprattutto dalla frequenza scolastica o dai corsi professionali.

Ma è stato soprattutto con l’attenzione ai processi di appropriazione delle ragioni di vita e dei motivi per una scelta che ha elaborato un atteggiamento “nuovo” nell’educazione. Non nuovo in senso assoluto, perché già nel Rinascimento e ancor di più nell’Illuminismo erano state poste le basi per lo sviluppo della ragione. Ma questo elemento non era ancor praticato dalla pedagogia spicciola, dove prevaleva molto di più il principio di autorità.

Don Bosco invece pone questo principio a fondamento della costruzione della persona.

A sentire quello che ho sostenuto nel punto precedente, sull’amorevolezza, sembrava che don Bosco avesse fatto consistere tutta l’educazione nel rapporto affettivo che riusciva a stabilire con il ragazzo. Certo, questa è stata la chiave di volta del suo successo, ma utilizzare solo quella avrebbe comportato il rischio della manipolazione. Don Bosco non ha coltivato il suo successo personale, ma ha utilizzato questo grimaldello per spingere il ragazzo a prendere in mano lui stesso il suo sviluppo, a crescere come persona adulta e matura, capace di rispondere di persona ai compiti e alle sfide della vita: “onesti cittadini e buoni cristiani”.  Fare dell’uomo un cittadino, capace di agire in modo autonomo perché ha introiettato e fatte proprie le norme che regolano la società. Un uomo, che, proprio perché capace di ragionare con la sua testa e di agire di conseguenza, è veramente se stesso, ossia autonomo e nello stesso tempo inserito a pieno titolo nella società.

Di queste ragioni siamo più convinti oggi che ieri. Ed abbiamo più conoscenza e maggiori strumenti che ci permettono di modificare l’esistenza, di incidere efficacemente sull’ambiente, sulla storia, sul futuro.

Ma c’è da chiedersi: tutte queste conoscenze che senso hanno? Che serve poter modificare la nostra esistenza se non sappiamo dove andare?

 Noi consegniamo ai nostri ragazzi un cumulo di saperi, ma se non insegniamo a governare questo sapere, non indichiamo dove dovrebbe andare, a cosa serve?

Questa è una grossa responsabilità che sta in capo innanzitutto alla comunità scientifica, ma anche a tutta la società, politici, amministratori ed educatori in particolare.

Un altro elemento della razionalità che turba oggi è la mancanza di una coscienza civile, di solidarietà e coesione sociale.

E’ grave tra i giovani il senso di estraniazione, marginalità e disagio verso la società, con tentativi di ritagliarsi spazi personali dove vivere e relazionarsi agli altri in modo diretto (i mondi vitali) e avulso dal mondo dei grandi.

Cosa non ha funzionato nei processi di socializzazione?

Certamente molte responsabilità vanno imputate al sistema sociale e alla classe politica che hanno proceduto per vie autoreferenziali, aumentando il distacco dal paese reale.

Ma anche il sistema educativo ha le sue responsabilità: quanto gli educatori, da quelli istituzionali a quelli naturali, si è posto l’obiettivo di educare alla cittadinanza attiva? Non è stato alimentato un po’ in tutti gli ambienti il sentimento di disinteresse ed estraneità alla cosa pubblica? Non è stata presentata la politica solo come una cosa sporca? Anche l’insistenza su “mani pulite” non ha favorito quest’atteggiamento, senza considerare che è proprio dal disinteresse per la politica che discende la mancanza di controllo sulla sua gestione? 

Quante volte si è pensato allo stato solo come alla “mucca da mungere”? E’ stata alimentata la coscienza dei propri diritti e non quella dei corrispondenti doveri?

Don Bosco insegnava a diventare “onesti cittadini”, ad agire in base a convinzioni personali, a rispettare le regole e le leggi per convinzione propria e a contribuire, soprattutto attraverso la preparazione professionale, ma anche con la dirittura morale e l’impegno, alla costruzione della società. Non formava i suoi ragazzi solo alla coscienza dei propri diritti, cosa che curava molto, fino a far firmare dei contratti di lavoro in loro favore; ma anche alla consapevolezza dei propri doveri, e allo spirito di sacrificio che ciò comporta.

Oggi viviamo in una società certamente più democratica ed evoluta di quella del 1800. Ma se non riprendiamo in mano i fili della formazione della coscienza, difficilmente otterremo quei livelli di autocontrollo e di convinta partecipazione di cui una società avanzata ha bisogno.  

Conclusione

Perciò, terminando questo intervento, mi sembra che possiamo rintracciare in don Bosco stimoli adeguati per ripensare l’intervento educativo oggi e soprattutto per rimettere la questione educativa al centro dell’interesse collettivo.

E’ bello poter dire questo in un contesto come l’attuale, di avvio di una ricerca sui bisogni formativi degli adolescenti in queste due circoscrizioni e davanti a tanti amministratori, educatori, persone sensibili e interessate a questi problemi. Ma non vorrei che il tutto si fermi qui. Questo è la prima pietra di una costruzione a cui dobbiamo dare tutti il nostro contributo, ognuno per la sua parte: istituzioni pubbliche e private, collettività e singoli cittadini. Perché su questa barca ci siamo tutti: ci si salva o si va a fondo tutti insieme. Vorrei quindi rinnovare l’appello ad una vasta convergenza di intenti e di forze sul tema dell’educazione, perché si riprenda il coraggio e la voglia di educare.

 

Con don Bosco ripetiamo: “volete fare opera meritoria, educate la gioventù. Volete fare opere altamente meritoria, educate la gioventù. Volete fare opera ancora più meritoria, educate la gioventù”.

Attraverso l’opera educativa si decide il futuro di una società e quindi della qualità di vita dei prossimi anni.