E con le parolacce come la mettiamo...?

IL LINGUAGGIO GIOVANILE NELLE ULTIME RICERCHE IN ITALIA

Giuliano Vettorato

 

Il linguaggio giovanile risulta ordinariamente infarcito di espressioni volgari, di termini coprolalici o legati alla sessualità: le cosiddette “parolacce”. Questo dato, sotto gli occhi di tutti, viene ora confermato anche da una ricerca condotta su un campione di 20 centri giovanili dell’Emilia Romagna, frequentati da giovani tra gli undici e i venti/ventidue anni[1]. L’indagine è stata effettuata registrando il parlato giovanile a insaputa dei giovani, con il sistema candid tape. Questa ricerca copre una lacuna a livello informativo sul linguaggio giovanile in Italia. L’unico precedente a nostra conoscenza era stata un’indagine a Trento, Milano e Genova sulla conoscenza ed uso dei linguaggi giovanili[2].

Queste ricerche confermano molte delle intuizioni di coloro che vivono abitualmente a contatto con i giovani, ma permettono di fare alcune osservazioni più precise anche ai fini di un intervento educativo.

 

CARATTERISTICHE DEL LINGUAGGIO GIOVANILE VERBALE

 

Ad una prima osservazione dalla ricerca risulta che, dopo i termini generici più comuni (“cosa”, “cosare”, “dire”, “fare”, “molto”, “bene”, “niente”, “cioè”...), i lemmi che appaiono con più frequenza nel linguaggio giovanile sono di genere sessuale, coprolalico e blasfemo. Tuttavia questi termini, nell’uso che ne fanno i giovani, hanno perso gran parte del loro significato originario: nel contesto dei loro discorsi essi hanno prevalentemente funzione rafforzativa o sono usati come semplice intercalare.

Ma altre indicazioni sul linguaggio giovanile emergono da queste ricerche.

Una di queste è la massiccia presenza di figure retoriche e sintattiche come la metafora, l’iperbole (“ci mette una vita” = impiega moltissimo tempo), l’ellissi (“numero” = situazione buffa o caotica), l’aferesi (‘sto = questo), la sineddoche (“andar bene a scuola” = ottener buoni risultati scolastici), il traslato (“forte” = bravo), ecc... Queste, come gli intercalari e le parolacce, servono a dare forza al discorso, lo enfatizzano, lo rendono più plastico, più immediato.

C’è una forte tendenza alla visualizzazione della parola e del discorso. Sovente c’è l’associazione suono-parola (onomatopea), mutuato in genere dai fumetti o dal linguaggio televisivo.

Il lessico è molto povero. I lemmi che arrivano o superano le 16 occorrenze sono in tutto circa trecento. Ma questo linguaggio è volutamente ridotto perché in realtà i lemmi usati almeno una volta superano il migliaio. C’è dunque una discreta conoscenza di varietà terminologiche (data sopratutto dalla scuola), ma di essa si preferisce non avvalersi nei discorsi con gli amici.

Ciò che invece appare rivoluzionata è la struttura linguistica. La sintassi è ridotta e molto labile: compaiono molti anacoluti ed altri errori (solecismi). Il periodare appare estremamente semplificato: prevalgono sostantivi e verbi; i verbi sono in genere all’indicativo, mancano le subordinate, ci son solo le coordinate (paratassi). Il discorso è velocizzato, privato di paludamenti superflui. Si preferisce la funzionalità e l’immediatezza espressiva, più efficace per il rapporto faccia-a-faccia.

Prevalgono inoltre termini riferiti ai momenti del tempo libero e del divertimento, mentre mancano quasi del tutto i riferimenti “altri” (scuola, famiglia, lavoro), o più elevati (religione, politica, cultura...). Sembra quasi che nei riguardi di questi settori agisca una specie di rimozione.

Ciò che prevale è l’immediatezza e la presentarietà: il tentativo di limitare i discorsi a ciò che è direttamente gestibile, alla vita del momento.

I termini usati dai giovani non divergono sostanzialmente da quelli in uso nel linguaggio comune. Non c’è quindi una grande inventiva nel coniare neologismi, non ci sono termini criptici o esoterici. Ciò che varia è l’attualità di certi termini. Si è notata una forte mortalità dei lemmi più in uso, condizionati dal passaggio delle mode (basta pensare alla rapida fortuna del “paninarese” e all’altrettanto rapida sua scomparsa).

Ma è soprattutto sulla variazione di significato e di tono che i giovani costruiscono la “diversità” dei loro discorsi. Le parole non sono più legate ad un significato oggettivo, condiviso, sancito dalla tradizione. Esse acquistano un significato in base al momento storico, alla situazione in cui sono state pronunciate, e risultano incomprensibili al di fuori del contesto in cui sono stati usate e dei gesti e della mimica (prossemica) che li hanno accompagnati.

Questo conferma la tendenza alla perdita delle radici, della memoria storica anche per il linguaggio. Il valore della parola non è più data dal suo significato etimologico, storico, bensì da quello del momento. Ecco allora il cambio di significato delle parole (vedi per esempio le parole “paranoia” o “bestiale”!), il cui significato è determinato dal valore d’uso e non dalla tradizione. Questa simbolizzazione gratuita ed autoreferenziale pone problemi di comprensione reciproca, soprattutto tra generazioni ed aumenta il livello di frammentazione sociale.

In conclusione si evince che nel linguaggio giovanile attuale:

- conta più il tono che il contenuto, la narrativa che la narrazione;

- l’intento è più dichiarativo e narrativo che argomentativo;

- predomina la dimensione connotativa a scapito di quella denotativa;

- è impossibile capire il senso delle parole se decontestualizzate, senza gli appoggi “prossemici” che le hanno accompagnate.

 

FUNZIONI DEL LINGUAGGIO GIOVANILE ATTUALE

 

Queste forme di linguaggio giovanile potrebbero avere, a detta dei ricercatori che le hanno studiate, le seguenti funzioni.

Funzione comunicativo-emotiva

Contro l’eccessiva razionalizzazione del linguaggio contemporaneo i giovani starebbero riscoprendo il versante della comunicazione emotiva propria del linguaggio. Questo trova riscontro nel frequente uso di espressioni onomatopeiche, di figure retoriche, di mimica e riferimenti spaziali che accompagnano molte delle espressioni giovanili. Ma trova ancora maggior conferma nel frequente uso del linguaggio non verbale da parte dei giovani, cosa non controllata in queste ricerche, ma sotto gli occhi di tutti. La corporeità, il gesto, la mimica, la musica, la danza, l’abbigliamento, il look, i graffiti, gli slogan sono elementi altrettanto importanti del linguaggio giovanile.

Essi stanno dicendoci che il linguaggio non serve solo per comunicare delle proposizioni grammaticalmente corrette, ma anche per esprimere sentimenti, emozioni, stati d’animo.

Questa accentuazione rende evidente quello che Marshall McLuhan aveva preventivato già da anni: la fine del linguaggio razionale, dell’uso prevalente della parte destra del cervello (linguaggio numerico), della cultura del libro (Galassia Gutemberg) e prevalenza del linguaggio simbolico-analogico, dell’immagine (Galassia Marconi) con uso prevalente della parte sinistra del cervello. Questi ragazzi, cresciuti a televisione e canzonette dimostrano d’essere ormai entrati definitivamente nella Galassia Marconi.

Funzione socializzatrice

Il gusto per le espressioni gergali, per i significati reconditi e soprattutto per la coprolalia, la parolaccia, che caratterizza il linguaggio dell’adolescente maschio, diventa un mezzo socializzante. Esso funge da “parola d’ordine” all’interno del gruppo, dell’ambiente. L’impiego del turpiloquio in particolare agisce sulla socializzazione del gruppo, contribuendo a formare un atteggiamento di consenso tra i partecipanti: con la parolaccia detta ed accettata in comune viene esaltata la forza del gruppo e i singoli elementi si liberano da eventuali complessi di colpa che la dissacrazione di tabù sociali o sessuali comporta. Ma il turpiloquio cementa il gruppo anche quando viene usato contro elementi esterni al gruppo stesso: la donna, l’omosessuale, l’handicappato, che assumono la funzione di capro espiatorio. La stessa funzione che aveva durante il regime fascista il turpiloquio (tra cui il ben noto “me ne frego”) e la violenza (verbale e non) contro bersagli gratuiti.

Identificazione e conferma dell’identità

La parolaccia ha quindi una funzione socializzatrice, fa da collante del gruppo. L’uso di essa rappresenta un tentativo di differenziazione dal mondo adulto e dell’infanzia. Rappresenta un segno di rottura dal clima di dipendenza e ossequio finora vissuto. Perciò essa è funzionale anche alla formazione dell’identità del singolo, che trova nelle espressioni tipiche del gruppo gli strumenti per definire la propria identità. L’adolescente apprende nel gruppo quelle regole del linguaggio che conserverà anche al di là dell’influenza diretta del gruppo. Tenderà perciò a riprodurre-ripetere le stesse forme verbali anche al di fuori della stretta cerchia del gruppo.

Funzione catartica della “parolaccia”

L’uso della parolaccia rappresenta inoltre una liberazione da un tabù, da una interpretazione magica della parola, quasi che il nominarla contagiasse. L’adolescente, nel suo cammino di esplorazione della realtà e appropriazione di significati, prova a nominare quella parola e s’accorge che essa non produce nessun accadimento. Perciò il rifiuto dell’oggettività della parola sta ad indicare la presa di possesso del linguaggio, l’affrancamento dalla dipendenza genitoriale, la gestione in proprio (sganciata dalla tradizione) delle parole e dei suoi significati.

Secondo alcuni psicanalisti, l’uso della parolaccia o dei discorsi a contenuto sessuale, rivela anche il tentativo di dominare, verbalizzandoli, i complessi processi intrapsichici in cui l’adolescente si trova immerso, afferenti sovente la sfera sessuale.

 

SUBCULTURA, BILINGUISMO E SILENZIO DEI GIOVANI

 

Dalla ricerca citata e da altri apporti risulta inoltre che il linguaggio giovanile avrebbe anche altre caratteristiche, tra cui:

- Dipendenza ed autonomia rispetto alla lingua standard. Il linguaggio giovanile non costruisce un linguaggio a parte rispetto alla cultura e alla lingua dominante, ma è un tentativo di rielaborazione particolare di materiali socialmente disponibili. Si confermerebbe anche per la lingua la stessa tesi che non riconosce alla cultura giovanile uno status autonomo rispetto alla cultura dominante, ma sostanzialmente subalterno, anche se parzialmente diversa (sub-cultura).

            La ricerca di Banfi e Sobrero ha inoltre evidenziato la prevalenza di certi lemmi su base territoriale o per gruppo sociale. Il che dimostra che questo linguaggio ha una base comune di termini su scala nazionale, su cui viene operata una selezione per gruppi e strati sociali che fanno dell’uso più frequente di alcuni termini l’elemento di identificazione (gergo). Tuttavia esiste una frequente contaminazione di termini da un gruppo all’altro. Sovente dipende solo dal periodo storico la prevalenza di certi termini in un gruppo piuttosto che in un altro.

- E’ stata evidenziata inoltre una forte presenza di linguaggi settoriali (computer, musica, “droghese”...) e una relativa influenza di linguaggi trasmessi dai mass-media (soprattutto TV).

- Sostanzialmente si può affermare che ci si trova di fronte ad un nuovo fenomeno di “bilinguismo” giovanile. Questo non si manifesterebbe tanto come nel passato nella capacità di passare dal dialetto alla lingua italiana, bensì in quella di usare alternativamente sia dei linguaggi “alti” o colti, come pure un linguaggio modesto, povero. A seconda degli ambienti si dimostrano capaci di parlare linguaggi diversi: quello più adatto all’ambiente in cui ci si trova. Perciò anche nel linguaggio manifesterebbero le stesse caratteristiche riscontrate in altre ricerche, cioè la capacità di convivere con la complessità, la capacità di flessibilità, di adattamento alle esigenze dell’ambiente con la conseguente formazione di identità polimorfiche, strutturate come un mosaico.

- E’ stato rilevato da più parti la cosiddetta “afasia” o silenzio dei giovani. Come stiano anche ore ed ore assieme senza parlare. Questa afasia si manifesta ancor di più nei confronti degli adulti ed è un elemento di turbamento per molti genitori ed educatori. Questa tendenza sembra in assoluto contrasto con la mania dei giovani di parlare continuamente, fittamente insieme come avessero un sacco di cose da dirsi. In realtà entrambi le manifestazioni sono rivelative di un modo di appropriarsi della realtà da parte dei giovani. Da una parte reagiscono rivendicando uno spazio di appropriazione della parola contro l’invadenza esterna. Rivelano soprattutto un meccanismo di difesa contro una atteggiamento tipico della generazione dei padri: dopo l’autoritarismo del passato è spuntato un nuovo tipo di autoritarismo più subdolo che vorrebbe costruire i rapporti sul “dirsi tutto”. I giovani percepiscono l’invadenza di questa pretesa e reagiscono con il silenzio. Hanno bisogno di un tempo loro di “incubazione della parola”. Questa non può darsi immediatamente, soprattutto finchè non è riuscita a rielaborare personalmente l’intensità dei sentimenti e delle emozioni.

In compenso si può osservare che tra di loro sembrano avere un bisogno incoercibile di dirsi tutto. Questo parlare fitto fitto obbedisce in fondo alle stesse leggi della comunicazione emotiva e figurativa; il dirsi tutto, il raccontare fin nei minimi particolari ogni cosa risponde al bisogno di comunicare il vissuto, così come è stato percepito, senza la mediazione mentale sull’accaduto. E’ come se si volesse cercare insieme un significato a quanto è stato vissuto.

Purtroppo sovente l’ascoltare da parte dei coetanei offre solo un appoggio emotivo, ma non aiuta a riflettere realmente sul vissuto, a rielaborarlo e farne lezione di vita. Così i giovani sovente non parlano con gli adulti, da cui pensano di non venir ascoltati, e parlano tra di loro, ma senza lo stimolo a crescere. Viene così dilapidata una valida occasione di maturazione e sovente il chiacchierare fitto ingenera soltanto una sconfortante impressione di solitudine.

 

CONCLUSIONI

L’animazione culturale fa della parola uno degli strumenti previlegiati del suo intervento educativo-formativo. I risultati di queste ricerche pongono all’animazione delle sfide che la interpellano e la costringono a rielaborare i suoi interventi sulla base delle manifestazioni della realtà giovanile in campo linguistico. Intuitivamente si può dire che essa dovrà rispondere tenendo conto sia dell’esigenza di accoglienza-comprensione che il linguaggio giovanile sembra invocare dal mondo adulto, sia dell’mportanza di educare ad un corretto uso della parola, con conoscenza anche delle sue radici storiche ed etimologiche.

 

Bibliografia minima

Banfi E., Sobrero A. A. (a cura di), Il linguaggio giovanile degli anni novanta, Laterza, Roma-Bari 1992

Frabboni F., Genovesi G., Magri P., Vertecchi B. (a cura di), Giovani oggi tra realtà ed utopia, Angeli, Milano 1994.

Milanesi G., I giovani nella società complessa, Elle di Ci, Torino 1989

Montesperelli P., Il vissuto giovanile ed i suo8i linguaggi in “NPG” 6/1994 (XXVIII), pp.7-11

Pollo M., Comunicazione e linguaggio, ovvero l’incontro con la realtà negata della cultura giovanile in Ferrarotti et alii, “Ipotesi sui giovani”, Borla, Roma 1986

Trisciuzzi L., Un caprone fuggito dal gregge: retorica e turpiloquio nel linguaggio giovanile, Emme Edizioni, Milano 1982



[1]Frabboni F., Genovesi G., Magri P., Vertecchi B. (a cura di), Giovani oggi tra realtà ed utopia, Angeli, Milano 1994.

[2]Banfi E., Sobrero A. A. (a cura di), Il linguaggio giovanile degli anni novanta, Laterza, Roma-Bari 1992.