L'amianto e le torri gemelle

Il divieto di utilizzare l’amianto nell’edificazione delle Torri gemelle ha provocato la perdita di vite umane? Questo interrogativo ha cominciato a circolare sulla stampa statunitense all’indomani dell’attacco terroristico che ha sconvolto la città di New York. Ma attenzione: non si tratta di una domanda disinteressata.

Dietro al quesito si nasconde infatti una lobby industriale che non ha perso l’occasione di fare l’apologia della fibra che uccide e gettare discredito su chi è preposto a introdurre misure di tutela della salute pubblica.

Approfittando della preoccupazione dei newyorkesi per la dispersione di fibre di amianto causata dal crollo del World Trade Center, Steven Milloy, editore del sito Junkscience.com, ha cominciato a far circolare un testo in cui si dichiara che l’allarme sollevato dai media sulla questione dell’amianto è del tutto infondato e che la pericolosità di questa sostanza non è né così accentuata, né così certa come si vuole far credere. "L’amianto è il miglior isolante che abbiamo" scrive Milloy. "Proibirne l’uso per ragioni di salute pubblica dettate da isteria collettiva è una decisione assurda". E continua affermando che il divieto di usare questo materiale nelle costruzioni edili, emanato dalle autorità di New York nel 1971, potrebbe essere addirittura stato alla base del crollo "precoce" delle torri gemelle e avere così accresciuto il numero delle vittime.

Milloy non arriva a sostenere che la presenza dell’amianto avrebbe impedito il crollo dei due edifici, ma avanza l’ipotesi che avrebbero potuto rimanere in piedi un po’ più a lungo, permettendo a un numero maggiore di persone di mettersi in salvo. Insomma, l’intervento dell’amministrazione pubblica teso a difendere la salute dei lavoratori e della collettività dall’esposizione a una fibra cancerogena viene presentato come causa della perdita di vite innocenti.

La stessa tesi viene ripresa, a distanza di qualche giorno e in modo del tutto acritico, dal Times di Londra. In contemporanea anche il New York Times decide di discutere della questione. Alla fine degli anni sessanta, si legge su quest’ultima testata, i costruttori dei due edifici avevano previsto di ricoprire tutte le strutture portanti con un impasto di amianto (20 per cento), lana di roccia e cemento per evitare che, in caso di incendio, l’acciaio raggiungesse la temperatura critica che porta alla deformazione delle strutture e al crollo. Ma proprio in quegli anni si stavano accumulando le prove della nocività dell’amianto per i lavoratori esposti e per coloro che risiedevano nelle vicinanze dei siti di estrazione e lavorazione della fibra minerale. Così, già nel 1969 le autorità hanno sostituito il materiale cancerogeno (e va ricordato che l’applicazione a spruzzo, prevista nella costruzione del WTC, è tra le più pericolose) con un sostituto equivalente.

La prima torre, quindi, è stata coibentata con amianto solo fino al quarantesimo piano, mentre la seconda è stata protetta interamente con materiali sostitutivi. E questi ultimi, assicura la Port Authority, responsabile della costruzione del WTC, sono stati sottoposti a tutti i possibili test di efficacia allora previsti. I giornalisti del New York Times, dimostrando un briciolo di equilibrio in più rispetto ai colleghi britannici, concludono il loro articolo con le parole incontestabili di Philip Landrigan, della Mount Sinai School of Medicine: "Gli studi di Irving Selikoff (l’epidemiologo che ha dimostrato la cancerogenicità dell’amianto, ndr) hanno dimostrato che centinaia di migliaia di persone sono morte a causa dell’esposizione all’amianto. Il prezzo pagato nel mondo per l’esposizione a questa fibra è stato altissimo. L’unica differenza" ha aggiunto "è che le vittime dell’amianto sono morte una alla volta".

Ciò che entrambe le testate hanno però mancato di dire è che Steven Milloy, l’autore dell’articolo originario al quale entrambi si sono ispirati (e di cui hanno ripreso le tesi), è un noto professionista pagato dall’industria per creare controversie ad hoc sui temi scelti di volta in volta dai committenti. Alla fine degli anni novanta, per esempio, è stato scelto dalla Phillip Morris per dirigere la Advancement of sound science coalition, un’organizzazione creata per sollevare dubbi e diffondere scetticismo tra l’opinione pubblica al fine di minimizzare gli effetti della pubblicazione dei dati dell’EPA (Environmental Protection Agency, l’ente per la protezione ambientale d’oltreoceano) e dello IARC (International Agency for Research on Cancer, l’agenzia per la ricerca sul cancro dell’OMS che ha sede a Lione) sulla nocività del fumo passivo.

Attualmente dirige un sito che ha l’obiettivo di denunciare all’opinione pubblica la scienza-spazzatura (junk science) o, meglio, che lui identifica con "la cattiva scienza di cui si servono i gruppi di ambientalisti e le associazioni dei consumatori per sostenere le loro campagne allarmistiche"; tradotto in termini più comprensibili, ogni risultato scientifico che possa in qualche modo portare a una regolamentazione delle attività industriali. Lo scopo di un’iniziativa editoriale come la sua è insinuare il dubbio nel pubblico generale. Non intende certo dimostrare che l’amianto non è cancerogeno per l’uomo.Il gioco è molto più sofisticato: mette in dubbio che metterlo al bando sia stata una buona idea (e, per estensione, che tutte le regolamentazioni siano da guardare con sospetto).

Vista la risonanza data dalla stampa all’ipotesi sostenuta da Milloy, l’industria può dire di aver raggiunto il suo obiettivo.

Maria Luisa Clementi



HOME PAGE