N.B.: volendo il lettore può leggere in seguito questa nota e saltare dove c’è l’inizio del racconto con titolo in inglese "PYRENEAN LYON", che in latino risulta "LUGDUNUM PYRENAEUM". Entrambi i titoli piacciono all’autore, anche se preferisce il secondo perché il suono sembra più ricco di mistero.

 

NOTA DI PRESENTAZIONE

Non è senza incertezze che mi sono deciso a proporre all'edizione un racconto la cui tesi finale sottintesa, ma senz'altro ben esplicita, è quella di prospettare che il Personaggio Messianico degli scritti neotestamentari possa essere, alla luce di un certo numero di ipotesi che potrebbero avere un certo fondamento storico, una costruzione essenzialmente immaginaria, ossia non abbia mai avuto una propria esistenza storica.

All'interno della vastissima letteratura cosiddetta "cristologica", che, a partire da circa la metà dell'ottocento, può contare di una serie di libri che facilmente si può supporre superi il numero delle migliaia, questa tesi non è affatto nuova e quindi anche questa presente mia non è affatto una novità.

Tuttavia, la novità che penso inerente questa mia tesi, penso stia nella prospettiva che ricerca, a sostegno della tesi, una, seppur in parte ipotetica, contestualità storica. Cioè, all'interno del racconto, il sorgere dell'idea e dell'immagine del personaggio messianico è collegato a riferimenti storici, in gran parte supponibili sì, ma molto circostanziati.

In ogni caso, vorrei precisare, al contrario di ciò che forse potrebbe sembrare, che il mio racconto non è dettato, come si potrebbe facilmente anche credere, da uno spirito iconoclastico di "crociata atea", tendente a dimostrare che gli argomenti religiosi non sono altro che "chiacchere infondate per ingenui", infatti, personalmente, mi ritengo un credente: diciamo, tuttavia, in breve, per essere chiari, che comunque credo in Dio, ma non nelle religioni.

Tra l'altro, mi sono posto anche il problema se il mio scritto non possa venire a disturbare la sensibilità di chi creda non solo in Dio o in qualche forma di Entità Divina, ma anche in credi di ordine religioso.

Non è quindi, come ho già detto all'inizio, senza presenza di dubbio, che mi sono deciso a proporre questo scritto all’attenzione editoriale per una eventuale sua pubblicazione.

Ma che devo dire: si potrebbe appellarsi ad un famoso detto del grandissimo Aristotele: "Amicus Plato, sed magis amica Veritas".

E, infatti, anche se da tempo non più cattolico, ho sempre avuto, pur essendo credente solo in Dio, grande stima per il Messia Evangelico, che ho sempre stimato come un Grande ed Eroico Profeta della Divinità, senza mai dubitare seriamente della Sua storicità, anche se non concordavo e non concordo nello stimarLo Figlio della Divinità.

Qualche volta mi ero chiesto se gli Scritti Evangelici avessero potuto aver origine da un'opera di invenzione scritta da un qualche intellettuale contemporaneo, come ad esempio poteva essere Filone l'Ebreo, ma, leggendo i suoi scritti, non ne venivo a precisa convinzione.

Chi altro allora? Non saprei, non mi risultavano risposte positive e, salvo questo minimo dubbio, era per me ormai confermato che non dovevano esserci dubbi circa l'esistenza storica del Personaggio Messianico Evangelico.

In ogni caso, anche circa questo racconto, vorrei comunque chiarire che, da parte mia, non pretendo affatto di aver dimostrato la non esistenza del Cristo storico, anzi continuo a pensare, come molto più storicamente probabile, una sua effettiva esistenza.

Ho anche in seguito pensato se l'eventuale conferma dell'ipotesi di non esistenza del Messia Evangelico sia, in assoluto, un'ipotesi negativa.

Potrebbe non esserlo del tutto: infatti, stranamente, potrebbe derivare proprio dalla dimostrazione della non-esistenza storica, l'affermarsi del VERO VOLTO DI CRISTO.

Il personaggio di Cristo potrebbe proporsi allora lo stesso come un GRANDE IDEALE TRASCENDENTALE (e non più "TRASCENDENTE") per l'UMANITA' (usando parole junghiane, il personaggio messianico evangelico potrebbe rivelarsi come un importante "archètipo").

In questi termini, il CRISTO potrebbe diventare finalmente CRISTO IN SE’ PER SE’: nessun cristianesimo particolare potrebbe più accampare il monopolio di un personaggio che, in pratica, non è mai esistito.

Ma è proprio in questa maniera che l'ARCHETIPO verrebbe a rivelare tutto il fascino e tutta l'immensa ricchezza della personalità inerente alla figura del CRISTO.

Come dire, ad esempio: è molto storicamente chiaro che i PROMESSI SPOSI del romanzo manzoniano non sono altro che personaggi puramente immaginari. Tuttavia che importa: essi rimangono simboli, se non archètipi, degli sposi intraprendenti e fedeli: sono due personaggi ormai vivi nell'immaginario popolare e oggi si possono persino visitare i luoghi dove sarebbero vissuti!

Ma uguale sorte è spettata, ad esempio, a GIULIETTA e ROMEO: nati dall'immaginazione di SHEAKESPEARE, oggi sono come personaggi reali, capaci di far piangere le platee per le loro complesse vicende.

Un personaggio-archètipo può essere più reale che se sia, mai, esistito realmente. Al limite, anche per i personaggi storici, la loro immagine può sovrastare di molto la loro realtà: in fondo, si potrebbe affermare che, per chi diventa, in qualche modo, GRANDE PERSONAGGIO, la sua contingente esistenza storica, sia praticamente irrilevante: ci si può sentir lo stesso dei "NAPOLEONI", senza aver mai letto nulla di questo personaggio.

Di qui l'idea che il possibile riconoscimento della non-storicità del Personaggio del Cristo, renda in qualche modo "finalmente" (starei per dire, "escatologicamente"!) questo Personaggio ancora più grande: soprattutto, liberato dalle pretese monopolistiche dei vari cristianesimi, il CRISTO diventerebbe finalmente e veramente il CRISTO DI TUTTI, il CRISTO DI OGNI UOMO, esattamente come ogni coppia innamorata è in qualche modo ROMEO e GIULIETTA ed ogni coppia di sposi desidera essere i PROMESSI SPOSI, fedeli, assennati, intraprendenti, dediti al positivo lavoro per un benessere della propria nuova famiglia.

Io, personalmente, credo in Dio ed espressamente penso che Dio sia in qualche modo non solo un MOTORE IMMOBILE STATICO, ma anche QUALCOSA DI DINAMICO: un Qualcosa capace di creare, man mano, anche nuove realtà: e realmente può essere capace di accondiscendere a nuovi desideri del CREATO, come pure dell'UOMO.

Non esiste il PARADISO? Non esisteva: ora che l'UOMO lo desidera, Dio lo crea realmente. Non esiste il CRISTO? Ora, se l'UOMO lo desidera, lo crea realmente: in tal caso non avremmo la realtà di un Cristo storico, ma la realtà di un Cristo escatologico. Ogni uomo aspira ad essere CRISTO? Ogni uomo, per Dio, potrà diventare come CRISTO.

Convinto da queste argomentazioni, propongo con più tranquillità ad una possibile edizione questo scritto.

Una cosa potrebbe anche essere positiva: il fatto che, nel bene o nel male, di questo argomento, se ne parli: è noto il concetto come all'affermazione di un qualcosa serva anche la pubblicità negativa.

In fondo, al di là delle possibili contestazioni sull'esattezza della data, dal punto di vista ufficiale, si sta per lo meno per celebrare (se non anche "festeggiare") il bimillenario della nascita del Messia Evangelico: ove anche questo scritto ne contribuisse, in questa circostanza del bimillenario, a parlare e discutere, anche per effetto di una pubblicità negativa, in qualche modo, servirebbe comunque a parlare un po' di più di un argomento che, senz'altro, ha una sua certa importanza, vanificando, ove vi siano, eventuali ispirazioni di "ordine diabolico" e dando in qualche modo ragione alle grandi intenzioni del Vero Cristo, del Vero Messia!

DOMINUS NOBISCUM!

l’autore

RENATO TURRA

 

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**** RACCONTO IN BOZZA DI REDAZIONE ****

**** (POSSIBILMENTE NON MOLTO PIU' AMPIA) ****

**** (a carattere ancora in parte sintetico) ****

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* RENATO TURRA *

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* PYRENEAN LYON *

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PETRA, tarda primavera del 32 EV.

Non era riuscita a mettersi il cuore in pace e, dal suo palazzo sulle rupi di Petra, la ripudiata regina Aretìade, figlia di Areta IV -che, ormai da più di vent’anni, era re dei Nabatei- continuava a informarsi sulle mosse del suo ex-marito Erode Antipa III, ormai più che sessantenne, e della bellissima divorziata Erodìade, che il re si era portata via da Roma, due anni prima -nella tarda primavera del 30 EV-, laddove era stata moglie del fratellastro Erode Filippo, che, di buon grado, si era finalmente liberato di quella ragazza o, solo anagraficamente, donna, dimostratasi, nel tempo, come troppo frivola e ambiziosa e comunque senz'altro dispendiosa, affiancata a sé, più che altro, per rispettare una volontà di casato, più favorevole a nozze all'interno del parentado (pur di evitare, anche a Roma, nozze con donne straniere). Infatti, Erodìade era figlia di un fratellastro, che la rendeva, sia nipote del primo marito, come del nuovo marito (sempre per parte di quel comune fratellastro): ora, finalmente, da parte sua, Erode Filippo, avendo favorito il fratellastro, aveva potuto ufficializzare l'unione con una donna straniera, conosciuta da tempo, di origine romana, ma molto più assennata e risparmiosa, che avrebbe atteso piuttosto alla conservazione del suo patrimonio, che alla dissipazione del medesimo.

L' ex-regina Aretìade era dunque seduta sulla terrazza della reggia paterna a Petra. Un messo entra con un dispaccio da Tiberiade, ove si trova la bellissima reggia sul Lago di Gennezaret, reggia che Erode Antipa aveva costruito per allietare proprio il loro amore e che aveva dedicato all'imperatore romano Tiberio -suo carissimo amico-, chiamando Tiberiade la nuova cittadina dove tale splendido palazzo era sorto in concomitanza, appunto, con la fondazione della nuova città (21 EV), che si affacciava sul Mare di Galilea, poi detto, dalla città medesima, "Lago di Tiberiade".

Ora, là, nella reggia, c'è un'altra. Legge il dispaccio: non un'altra,... altre: il dispaccio mandato da un famiglio rimastogli fedele conteneva -riferita come indiscrezione troppo a lungo risparmiatale- la descrizione di un banchetto, avvenuto circa due mesi prima, ove Erodìade, forse insicura dei favori del re, aveva mandato anche in campo la giovane figlia Salomè (sua e di Erode Filippo) segretamente fatta venire da Roma (poco prima dell'inizio della primavera del 32 EV), che si esibiva, durante un banchetto in onore del compleanno del re, tenuto circa un mese dopo il suo arrivo a Tiberiade, in una vorticosa danza tutta velata, anche se non proprio quella dei sette veli: niente proprio di male né spregiudicata ricerca di immoralità, tuttavia: era solo un gioco di Erodìade per riattizzare l'affetto del re (forse per non farlo regredire da decisioni precedentemente prese riguardo al suo futuro status di regina) e mettere soprattutto in mostra la giovane figlia, magari qualche governatore o notabile presente al banchetto la adocchiasse come moglie (tra i quali era presente, appunto, il futuro sposo di Salomè, Filippo, Tetrarca dell'Iturea e della Traconitide e, comunque, già imparentato con Erode, di cui era, esso pure, fratellastro e che verrà a mancare nel 34 EV, rimanendo sposato con Salomè per solo circa, più o meno, un anno): ma, alla cinquantenne ex-regina Aretìade (che aveva lasciato la reggia di Erode in tarda estate del 30 EV), il racconto portò senz'alto, invece, come un riattizzamento di una gelosia che malamente, ancor dopo circa un anno e mezzo dal suo volontario allontanamento dalla reggia, sapeva o cercava di assopire.

Pensò, comunque, a come era cambiato negli ultimi anni il Re, diventato fatuo e incostante: molto differente dallo schietto e intelligente giovane incontrato a Damasco, quando, più che trent'anni prima (2 EV), aveva conosciuto -lei giovane principessa di Petra- il giovane Erode, trentenne e già da qualche anno re, alla scuola di sacra scrittura del "Rabbino", ossia "Maestro", Manaèn, compagno di prima giovinezza del re a Roma, dove aveva ricevuto la migliore educazione romana e da dove, con il re, si era allontanato per stabilirsi a Damasco e dedicare il resto della vita allo studio delle tradizioni della sua gente e soprattutto della Legge.

Il giovane Erode, anche una volta diventato re, volle continuare a rivedere Manaèn, presso il quale andava seguendo gli insegnamenti scritturali: con un tale maestro, egli, benché figlio di un re idumeo che gli ebrei consideravano quasi come uno straniero, ora, lui, poteva succedere molto degnamente a suo padre di fronte al popolo che governava, in quanto ottimamente istruito nelle Sacre Scritture degli Ebrei. Non era più un indotto e inosservante straniero di Edom.

Lei, ivi, nella scuola di Manaèn, che ormai il re Erode già frequentava da una quindicina d'anni, era stata pure mandata dal padre Areta per affiancare, alla religione dei padri nabatei da essa sempre devotamente seguita, un'istruzione aggiuntiva sulle Scritture Ebraiche. A quella scuola, aveva potuto conoscere e ammirare il giovane Antipa, stupire di fronte alla sua memoria nel citare a mente i passi scritturali e rimanere come incantata dalla sua straordinaria capacità interpretativa nel commentare, di fronte a Rabbi Manaèn, le sacre scritture, che devotamente e animosamente aveva continuato a studiare per tutto il tempo che era stata, in seguito (da circa il 22 EV), anche giovane e devota sposa alla reggia di Tiberiade, dopo che il loro amore, non solo frutto di opportunità politiche, ma anche di una qualche forma di affinità elettiva, era giunto a coronamento (12 EV), recandosi a Damasco, di tanto in tanto, dove sempre era attesa dal dottissimo e affabilissimo Rabbi Manaèn, dopo che aveva appunto sposato, lei trentenne, il quarantenne re, uomo forte, saggio e maturo, in cui lei riponeva ogni senso di fiducia e sicurezza (12 EV).

Tutto "liscio", per ben vent'anni circa, un matrimonio che, seguito a quasi dieci anni di fidanzamento (3-12 EV), sembrava perfetto e d'una felicità quasi da fare invidia: unione a lungo meditata tra due persone intelligenti, istruite, raffinate, ma anche pie e istruite nella Legge, fino... al colpo di fulmine di due anni prima (primavera del 29 EV): pensava, dalle prime notizie di un viaggio di lui a Roma, viaggio che lei non si era sentita di condividere (Erode era partito nel tardo inverno del 29 EV), che il tutto fosse qualcosa di passeggero, ma poi, notizie più nette da Roma, confermarono una cosa più duratura per il maturo coniuge ormai sessantenne: Erodìade, splendida e giovane sposa del fratellastro Erode Filippo, poi divorziatasi, aveva saputo far prigioniero il cuore del re, che non sapeva pensare altro che a quel suo nuovo e imprevedibile amore, tanto che, nella tarda primavera del 30, non aveva esitato a portare apertamente a corte, in Tiberiade, la giovane amante, Erodìade, ormai divorziata dal fratellastro, e render così pubblico, in patria, il suo nuovo amore.

Pensò allora, nella tarda estate del 30 EV, dopo aver inutilmente pazientato nella reggia qualche mese, ormai in attesa delle fin troppo prevedibili carte di ripudio, di ritirarsi nella sua reggia di Petra, scartando l'idea di andare a stabilirsi, magari presso il fido Manaèn, a Damasco, e preferendo chiudersi in un luogo dove poter vivere in disparte, pregando e meditando sulle Scritture: sentì irrefrenabile come un bisogno di solitudine e di risentire solo i lamenti e le carezze del natìo vento del deserto, sulle terrazze della reggia paterna, dove era nata, nella selvaggia Petra.

Selvaggia, si fa per dire, per il luogo dove era sita, in quanto Petra era, da qualche secolo, una città bellissima, quanto civilissima e abitata da ricchissimi mercanti che si erano costruiti, attorno alla cittadella imprendibile sulla "ROCCIA" -in greco "PETRA"-, una serie di monumenti raffinatissimi scolpiti direttamente nella pietra. Entro tali cenotafi rupestri, dove erano spesso previsti i "biclinia", si tenevano, appunto entro le stanze dei medesimi, banchetti funerari, cui usavano partecipare associazioni di 13 persone rallegrate da due giovani cantanti o altre cerimonie in onore degli antenati: il popolo di Petra era molto religioso e legato ai suoi riti e tradizioni, quando non fosse dedito ai commerci di oro, spezie, mirra e incenso o in altre occupazioni necessarie al vivere.

Il vento della prima sera che sulla terrazza le lambiva dolcemente il viso e i capelli attenuò, dopo un po', i suoi moti e fuochi di gelosia: lo stesso dispaccio lasciato sul tavolino era stato portato inavvertitamente lontano da un soffio di vento del deserto: inutile tentare di rincorrerlo: lo vide sparire galleggiando nell'aria oltre i monti che circondavano la reggia. Era ritornata, per il momento, serena e aprì, quasi senza rendersi conto, un rotolo delle Scritture, prelevandolo a caso da un cesto formato di sottili tavole di legno intarsiato, che teneva sempre a portata di mano, con dentro quasi tutti i papiri delle Sante Scritture, quelle che aveva studiato a Damasco da Rabbi Manaèn e che conosceva ormai praticamente a memoria.

Aprì il rotolo e scorreva con gli occhi, quasi automaticamente le parole: "yinshaoq.einiy, min neshiyqowt piy.huw...", "mi potrebbe baciare, coi baci della sua bocca...", "heebhiych.aniy hal maelaek kheadaoraoy.w...", "mi introduca il re nelle sue stanze...".

Già, proprio il rotolo del Cantico dei Cantici: la sposa... chissà chi era, forse la regina di Saba..., una regina certo come lei: schietta, entusiasta di imparare su tutto e anche, sull'amore, non meno che la volontà di Dio: dirigere ogni uomo ad un comportamento migliore, come i migliori figli di Abramo: ma nessun dubbio: lei aveva cercato di conformarsi e nello stesso tempo di interpretare, in modo vivo, la Legge, secondo quello che era da sempre il carattere schietto dei figli del deserto! Il Re, purtroppo, non quello del Cantico, invece, non aveva più, per lei, quella nobiltà che essa aveva sempre pensato, per lui, come cosa sua naturale: ora, si era come allontanato dalla Legge, fissatosi piuttosto negli usi dei gentili: raffinattezze, sofismi, ambiguità di amicizie e di atteggiamenti, affiancatosi a quella che sarebbe stata la nuova regina, dedita solo al culto di sé stessa e della propria bellezza, senza nessun amore per la Legge: solo frivolezze in cui coinvolgeva anche la figlia, anche se, a tutte due, istruzione non certo mancava: ma non c'era amore per gli usi schietti di quei padri che avevano cercato di udire nel deserto la voce di Dio!

Si rendeva conto che forse tali pensieri erano pensieri un po' rudi e drastici, appunto di una figlia del deserto. Che ci poteva fare: il suo carattere era così: aspro e schietto. Meglio le mollezze dei gentili?

Che gran re doveva essere, comunque, Salomone, l'autore del Cantico: giustamente le ragazze lo amavano, per la sua saggezza e nobiltà... Altri tempi: Erode Antipa II, il rozzo padre del suo ex-marito, aveva perseguitato tutta la sua propria famiglia e ci si ostinava ancora a chiamarlo "Erode il Grande": quel vecchio rimbambito e rozzo Idumeo che, a mala pena, conosceva i dieci comandamenti, anche se di fatto ne seguiva solo alcuni, -dicasi, al massimo, uno o forse due o non molto di più-: solo la sua caratteristica insensatezza e la poca conoscenza della Legge poteva giustificarlo!

Tutti uguali questi rozzi idumei: ex-allevatori di capre e basta, degni discendenti del grezzo Esaù!

Ma subito si rese conto che stava ripagando i suoi ex-parenti della loro stessa moneta: non poteva fare come suo padre Areta che, pure egli impulsivo figlio del deserto, stava già meditando di fare una feroce guerra, non appena fossero giunte le carte che ufficializzassero e rendessero pubblico il ripudio, per ristabilire i diritti della figlia o, comunque, riprendersi le zone di influenza che il nuovo matrimonio di Erode Antipa gli aveva tolto: se quel dissennato era stato in piedi fino a quel momento, l'aveva dovuto e lo doveva a lui e non se ne rendeva conto!

Questo, più o meno, soleva ripetere Areta, ogni tanto, vedendo la figlia addolorata sulla terrazza, ormai convinta, dopo tali notizie appena apprese, che l'arrivo delle carte di ripudio sarebbe seguito di lì a pochi mesi (e, infatti, arrivarono, in un certo senso, in ritardo nel tardo inverno del 33 EV, in quanto, evidentemente, Erode voleva, in qualche modo, tentare di ammansire l’ex-suocero Areta o comunque prepararsi meglio a riceverne le ostilità).

Chissà perché tutti questi re o uomini -andava pensando Aretìade- sanno solo perdere la testa solo che mettano mani su una spada, o occhi su una donna!

Già, come potrebbe essere ed esistere un re, un uomo nobile che mira solo alla pace, solo alla parola data. Un re insomma che sappia vincere con la pace: be'... forse appunto come "Salomone", il saggio re il cui nome significa "pacifico": potesse ritornare a vivere in questo mondo un altro figlio di Davide, che come Salomone, potesse essere vincitore nell'amore e difendere schiettamente il diritto di chi, in fin dei conti, vale, a volte, meno anche di un povero di un misero, quello delle donne costrette sempre a subire e a dire di sì. La sposa del Cantico non era così: aveva il coraggio di dire cosa provava, soffrendo per il suo amore.

Insomma, vincere, riscattare in positivo il proprio ruolo di donna: una guerra dell'amore: ma sì... una reincarnazione di Salomone, come pensano i sacerdoti che amministrano i culti qui a Petra: forse un po' pagani: ma se fosse possibile... evocarla...

Forse evocare non uno, ma due re: uno, rude e passionale come Davide, ma allo stesso tempo capace di perdono, e uno saggio e gentile come Salomone: o forse due fratelli: o due cugini, di cui uno, intransigente come quei sacerdoti un po' rozzi di Petra che, vestiti di rozze pelli, predicavano la mondazione dei peccati, immergendo gli abitanti del luogo nelle piscine: sistema un po' rozzo, ma eloquente: certo perché la legge ebraica, che pur aveva con scrupolo studiata, era un po' troppo intellettuale! Lei, come figlia del deserto, lo aveva capito e solo un Rabbino paziente come Manaèn aveva potuto sopportare le sue frequenti obiezioni. Ma lei, le cose le sentiva così e, per lei, il mondo sarebbe stato meglio guidato dai miseri e dalle donne, ossia da coloro che devono dire sempre di sì: se fosse stata più decisa con Erode ora, le cose, certo non sarebbero andate così!

Già, parole di conforto per sé e per i miseri... Nella mente di Aretìade, si andava invece profilando come delineare come un'incarnazione di un re: avrebbe scritto qualcosa in una lettera di sfogo a Manaèn: oppure, perché no, forse meglio, più dignitoso, senza angustiare Manaèn, che da sempre era stato amico di Erode Atipa: una sacra rappresentazione da inscenare su quel teatro che si vedeva giù nella valle e che serviva per raccontare, soprattutto, le vicende delle divinità della città con sacre rappresentazioni. Rappresentare, quindi, la vita e i pensieri di un vero re, finalmente nobile, come una reincarnazione di Salomone, un Principe della Pace, un vero figlio del nobile e fiero Davide, un nobile e fiero figlio deserto, non come quel rammollito di Erode, ormai capace solo di mangiare e di distrarsi alle barzellette della folle e vana Erodìade!

Un re vero, figlio schietto della sua gente...

Lasciò aperto il papiro del Cantico e, presone un'altro parzialmente scritto che usava per appunti, cominciò a scrivere il dramma. Prese dal cesto il papiro primo delle Cronache, che del resto sapeva a memoria: Adamo generò Set, Set generò Enos... Abramo generò Isacco... Giacobbe generò... il padre del Re di pace: come lo chiamo il padre?... be' Giuseppe... il nome mi piace! In mezzo alla scena del teatro apparirà un angelo che solennemente enuncerà la genealogia... certo gli angeli sono cosa rara per Rabbi Manaèn, ma, da noi, nel nostro paese, sono credenza comune: ci sono angeli dappertutto...: si deve capire che il Re è discendente di Davide e Salomone, perché non una reincarnazione... un re che Dio stesso vuole pensare, concepire: certo un re così non può esser figlio di nessun uomo: deve essere concepito direttamente da Dio: voluto da Dio: non una persona non comune che metterà, a capo di tutto, i diritti di donne e miserabili!

Un angelo appare in una stanza ad una ragazza ancora quasi bambina: figlia di mercanti: una ragazza fiera come da noi, in una casa da figlia del deserto... qui a Petra...: no, vicino a Tiberiade: dovrà tutto avvenire molto vicino laddove Erode vive, a Tiberiade: nasce... a... Gennezaret... bene, dico, no... a Nazaret, appena dietro, sui monti sopra il lago e, dopo, maturata in un ambiente meditativo e schietto la sua gioventù passata serenamente in famiglia, verrà a predicare lungo le spiagge del lago di Tiberiade: prima sarà ammaestrato da uno di questi nostri rozzi sacerdoti: vero sono un po' pagani, ma mi hanno insegnato una religione del cuore: non lo ho mai detto compiutamente a Manaèn, ma la Legge che lui insegna talora è perfetta, ma, a volte, un po' fredda ed assurda: Dio parla al cuore: il sacerdote del cuore lava i peccati come fa un nostro sacerdote: un rito che nella Legge non c'è: forse ne accenna Davide: asperge me hyssopo: il sacerdote, diventerà, per conformarsi alla legge, un profeta, che dico, meglio, un nazireo, ma un nazireo che battezza come da noi e con l'acqua toglie i peccati, insomma, severo, ma misericordioso: lo si potrebbe chiamare "Dio benigno", ossia YEHUW-GHANAN, GIOVANNI.

Il re di pace va da lui: egli diventerà un re non temprato dall'olio, ma dall'azione più pura dell'acqua e perché no... più forte: sarà questa purezza d'acqua a temprare e a rendere d'acciaio il suo amore per la pace, la generosità: per un regno eterno, terso come i cieli del deserto e non un regno di questo mondo, avvilito da meschinità e interessi.

Un agelo annuncia... già dicevo… ad una ragazzina...: come la chiamo...: be'... come Mariamne, la moglie barbaramente uccisa da quel suo rozzo e sconsiderato padre di Erode, mio marito...: non riesco a sentirlo ancora come ex-marito... lo sento sempre vicino a me: quella lo prende solo in giro per i suoi interessi...: insomma, la ragazza si chiama... Miriam...

Vedo già nel teatro la giovinetta in lettura della legge presso il suo banco: un angelo appare...: la giovinetta fiera: accetta l'annuncio con parola netta: se è Dio che vuole... Ma poco spazio a prepotenza d'uomo e poi Dio è stato gentile: le ha mandato uno degli angeli suoi più belli... certo qui Manaèn si arrabbierebbe: troppi angeli: ma lui non capisce le ragioni del cuore...

Così, per tre giorni (siamo nella tarda primavera del 32 EV), Aretìade scrisse il suo dramma e terminava con il trionfo del Figlio di Davide, il novello Salomone, o DIO-SALVA, YEHU-SHOAH, come volle chiamarlo con un nome molto comune in Galilea.

Si avrebbe avuto in scena una grande festa di lode con tripudio di popolo, donne, poveri e miseri che portavano in trionfo, per un'immaginabile Gerusalemme ricostruita in piccolo come quinta, un vero nobile Re per le genti d'Israele: il vero e premuroso Pastore disceso dai monti del Libano in soccorso del suo popolo.

La regina aveva formato il suo dramma ispirandosi, qua e là, a brani dei Salmi, del Cantico dei Cantici e, ovviamente, in genere pensando ad altri passi scritturali che essa conosceva saldamente a memoria: solo vuole che il dramma fosse recitato in aramaico lingua più nota al popolo di Petra.

Il Re Salvatore, generosamente, avrebbe preso le difese del Battezzatore che sarebbe stato un fustigatore dei libertinaggi del marito Erode e di Erodìade e che, dopo essere stato da loro arrestato, sarebbe stato tuttavia, alla fine, liberato da Erode, Erodìade e Salomè pentiti: un angelo, tuttavia, avrebbe portato direttamente il Battista in cielo, appena dopo la liberazione dalla reggia, dopo una trasfigurazione sul Monte Ermon, dove parve ai discepoli dileguarsi in una nube in presenza dei profeti Mosè ed Elia, per andare ad assidersi, sopra e oltre le nuvole, presso il trono dell'Altissimo.

Lei, intanto, forse, avrebbe potuto essere la sposa del nuovo Re, il nuovo figlio reincarnato di Davide: sarebbe stata nella scena una donna qualsiasi del popolo cui lui perdonava i peccati: glieli scioglieva: era lui un uomo nobile: non un uomo comune, come tutti gli altri: figlio non degli uomini, ma dell'Uomo, ossia di quell'uomo che solo quando nobile può dirsi pari a Dio.

In questo senso, vede, questa reincarnazione di Salomone, quasi anche come figlio di Dio, quando cioè Dio si riflette nell'Uomo, dicasi l'uomo che tende alla perfezione: ossia l'uomo che è da Dio, ossia figlio della Luce.

Ebbene, anche su questi concetti, Manaèn avrebbe avuto molto da ridire, ma lei sentiva così e una figlia del deserto, con la forza del cuore, sentiva così di dover seguire la Legge.

Nel dramma che aveva scritto, il Salvatore, arrivato all'altare del tempio, si gettava, in uno slancio di generosità come in sacrificio di olocausto a Dio, ma Dio non permetteva ciò: mandava i suoi angeli che rapivano il Re e lo portavano, come il Battista, in cielo e, da quel momento, il Re Salvatore sarebbe comunque riapparso sulla Terra a chiunque, con grande fede, l'avesse invocato e sarebbe apparso vivente specialmente a conforto di chi è più solo e misero.

La primavera del 33, questo dramma scritto dalla Regina Aretìade, venne rappresentato nel teatro di Petra da una compagnia di attori formata, per espressa volontà di Aretìade, tutta da una ventina circa di popolani di varia età (tra cui alcune donne), scelti discretamente e appositamente tra la gente più pia della sinagoghe dei paesi che si affacciavano sul lago di Tiberiade e che accettarono l'incarico, come un servizio religoso da fare alla Legge e alle scritture, rispondendo volentieri all'invito della regina Aretìade, notoriamente ritenuta, presso il popolo di Galilea, donna molto osservante e timorata.

La rappresentazione ebbe grande successo presso il popolo di Petra e questa fu, in un certo senso, la risposta della regina alle carte relative al suo divorzio, che, di lì a pochi giorni prima della rappresentazione, erano state portate da un messo al palazzo di Petra.

La lungimiranza e longanimità del dramma rappresentato, non fece comunque desistere i propositi di guerra del re Areta, padre di Aretìade, il quale sentiva in qualche modo la necessità di operare una vendetta, diciamo "tradizionale", nei riguardi della figlia, intraprendendo una serie di ostilità che, nel giro di quasi quattro anni (33-36 EV), portarono le milizie di Erode Antipa alla sconfitta, mentre il soccorso delle truppe del legato romano di Siria, Vitellio, furono inefficaci in quanto si interruppe a met del 37 EV, a seguito della morte di Tiberio e del cambiamento di politica del suo successore Caligola, più preoccupato di impiegare quelle truppe contro i Parti che si erano fatti, proprio in quei mesi, piuttosto turbolenti, mettendo in crisi i commerci mesopotamici locali diretti verso la Cina.

In ogni caso, in quella primavera del 33 EV, alcuni mercanti diretti a Damasco, colpiti dalla bellezza del dramma visto nel teatro di Petra, ne stesero per iscritto, durante il viaggio, delle copie a senso e, giunti a Damasco, ne diffusero il racconto per la città, forse guadagnando anche qualche moneta sulle copie dei papiri che andavano rilasciando: il popolo ascoltò con attenzione la lettura di quei papiri (in lingua aramaica) che, in cambio di qualche moneta, andavano facendo, per le strade, degli alfabetizzati che li avevano acquistati e ne fu suggestionato a tal punto che gente semplice diceva alla fine di aver veramente visto il Salvatore vagare per i deserti vicino a Damasco e per la Galilea e che non mancava chi diceva di essere stato guarito da qualche malattia più o meno grave, semplicemente invocando il nome del Re Salvatore. Ne fu colpito anche un rabbino di nome Saulo, che dapprima si era messo a perseguitare questi visionari, ma poi, letti gli scritti che circolavano, andava capendo, nell'animo suo, la superiorità di una tale rivelazione: finché un giorno sembrò, anche a lui, a seguito di un incidente con la sua cavalcatura, di vedere il Salvatore, che si presentava a soccorso suo e della sua fede. Insomma, la suggestione indotta da quegli scritti fu grande: anche gli stessi mercanti che avevano visto il dramma al teatro di Petra pensarono, alla fine, che, in qualche modo, la regina Aretìade fosse stata oggetto di una qualche rivelazione e, ben presto, non si ebbe più esatta nozione della reale consistenza dell'opera originaria: le voci correvano: la gente si riuniva in folla per i monti della Galilea desiderando assistere ad un'apparizione pubblica del Salvatore, magari davanti alla folla portato dal cielo dagli angeli. Ma, intanto, si moltiplicavono invece le notizie di apparizioni del Salvatore presso singoli individui.

La suggestione giocò non poco anche sui già componenti della pia compagnia teatrale di popolani dei paesi attorno al Lago di Tiberiade: pensarono di riunirsi in preghiera nella casa di uno di loro presso la Sinagoga di Cafarnao. Si interrogarono anche loro se la regina Aretìade non fosse stata in qualche modo oggetto di rivelazioni divine: un certo dubbio correva in loro: si era diffusa voce che essi sapessero qualcosa più degli altri circa la persona del Salvatore. Decisero alla fine di ritrovarsi di tanto in tanto in preghiera invocando da Lui una rivelazione e di raccontarne, riunendosi in varie parti della Palestina ove il Salvatore si sarebbe manifestato, rivolgendosi alle folle che avidamente richiedevano di sentir predicati episodi della vita del Salvatore Davidico, in base al ricordo che avevano della rappresentazione che ne avevano fatta a Petra.

Furono, in seguito, anche contattati, tre anni dopo la rappresentazione del dramma a Petra, ossia circa nel 36 EV, da un uomo di Damasco che diceva di aver avuto certa apparizione del Salvatore: gli sembrava che il Salvatore gli avesse ordinato, in un'ulteriore apparizione, di portare la Legge ai Gentili. Idea un po' strana, ma alla fine, la sua fede sembrava tale che il capo riconosciuto come più autorevole nella compagnia di ex-attori ("sacri") espresse la possibilità della cosa, non senza qualche perplessità: infatti essi pensavano invece che, soprattutto, l'opera del Salvatore fosse indirizzata in special modo a riportare il popolo ebraico di Palestina all'osservanza delle Legge, con un'interpretazione, solo, più viva di essa e più attenta ai bisogni dei poveri, come avevano spesso detto i Profeti. Decisero perciò, con parte delle elemosine che ricevevano per le loro predicazioni, di aprire un centro permanente di preghiera e studio della Legge a Gerusalemme, in memoria del Salvatore, dove permanentemente si sarebbero succeduti parte di loro.

La suggestione giocò a tal punto tra la gente, in quegli anni dopo il 33 EV, che in una notte, che poteva essere sempre attorno al 36 EV, fu la stessa Salomè ad avere un'apparizione del Salvatore medesimo in sogno: la cosa fu comunicata ad Erodìade e ad Erode: rimasero un po' preoccupati, ma essi sapevano che non avevano mai perseguitato profeti per dar libero corso al proprio amore: certo Erode sentì un certo dispiacimento nei confronti della moglie ripudiata, che per tanti anni le era stata tanto attenta e fedele compagna.

Certo, ora, l'opinione pubblica gli era contraria, ma che importa: sarebbero state ormai le armi a decidere: il padre della sua ex-moglie, non era, a quanto pare, lungimirante come la figlia (donna di grande nobiltà, bisognava riconoscerlo): il padtre voleva e, in un certo senso, giustamente in qualche modo vendetta.

Del resto, a volte, è difficile dettar ragioni al cuore e lui, Erode, non aveva saputo, stranamente, in matura età, dir di no alla sua passione per la bellissima e giovane Erodìade, nata in un momento di distrazione a Roma: la patria e Tiberiade, in quei momenti, sembravano così lontane: la primavera Romana, la vivacità di Erodìade avevano come riportato nuovamente giovenizza alla maturità un po’ compassata del Re e i sentimenti di Erodìade, insinuatasi come per incanto nella sua vita romana, sembravano così avvolgenti e decisi.

A Tiberiade, arrivavano notizie di una tale spensieratezza del re, ma Aretìade pensò dapprima ad un'avventura, comunque non solita in quel suo consorte: infatti, nel complesso Erode era stato generalmente fedele alla moglie ed anzi era stato restio anche ad ammettere preso di sé il solito harem, che era normale segno di prestigio presso i sovrani orientali e aveva disposto di assegnare queste compagne, come consorti, ai liberti di corte giustificando ciò con una sua più stretta osservanza della Legge: ma, alla fine, i meriti antecendenti furono inutili: la passione per Erodìade si trasformò, alla fine, in desiderio di un nuovo rapporto.

Purtroppo, tornado a tempi posteriori meno sereni, ossia nel 37 EV, le armi gli furono tuttavia sfavorevoli: la guerriglia in atto con re Areta lo vide sfavorito: dopo quattro anni di guerriglia, si ritrovò sconfitto, non solo in campo militare, ma anche a seguito della morte dell'imperatore Tiberio, che era stato sempre a lui favorevole, mentre non sembrava pari l'atteggiamento del nuovo imperatore Caligola, il quale non solo aveva gratificato, un altro parente, Erode Agrippa I, del titolo di re sui possessi della Giudea, ma voleva conferire a quello anche i possessi lasciati da Erode Filippo il Tetrarca dell'Iturea e della Traconite, regioni vicine a Damasco.

Era dunque necessario recarsi ancora una volta a Roma, per ritrovare fiducia presso il nuovo imperatore. Pensò tuttavia, prima, di ricollocare in sposa Salomè, vedova del tetrarca Filippo, dandola in isposa al cugino di Filippo, Aristobulo, da cui avrà tre figli. Fu un nuovo duro distacco: ora, la ragazzina di qualche anno prima era diventata una giovane assennata, ma il re la ricordava appunto come ancora ragazzina, così vivace, simpatica e un po' impertinente, molto differente dalla sua ambiziosa e stizzosa madre: era pronta spesso ad ascoltarlo e fargli domande, mentre passeggiava per i giardini della reggia di Tiberiade, magari apparendogli davanti di sorpresa, nei mesi che stette a palazzo, prima di andare, giovanissima (come era d'uso spesso in Palestina), in isposa al primo marito Filippo.

Soddisfatta quell'incombenza (siamo nel 39 EV), Erode ed Erodìade potevano finalmete andare a Roma per difendere e perorare presso CESARE la propria difficile posizione: non erano infatti per il momento che due regnanti impopolari e sconfitti.

A Roma, tuttavia, le cose andarono male: il mandato di reggere la Galilea e la Giudea fu affidato definitivamente da Caligola ad Erode Agrippa I (che era tra l'altro fratello di Erodìade e che era stato favorito dall'imperatore Caligola fin dal momento della sua elezione -37 EV- in quanto suo amico famigliare) ed anzi, profittando di accuse di varia natura, l'imperatore condannò il Tetrarca Erode all'esilio in Gallia (39 EV), destituendolo di fatto anche dalla stessa funzione di Tetrarca.

 

A questo punto, la regina Erodìade si ritrova sconsolata nella villa di Lugudunum (LIONE) sui Pirenei.

Che strano, quel paesaggio aveva qualcosa di simile alla sua terra, anche se tanto lontana.

Siede sulla terrazza nord della villa che guarda sulle pendici dei Pirenei lungo la valle della Garonna che si spinge fin verso l'Oceano, un mare oltre il quale c'è il nulla, come il vuoto del loro esilio in quella strana terra.

E' il primo pomeriggio di un giorno di prima estate del 39 EV, ma sulla terrazza a nord c’è fresco e ombra: un fresco tuttavia molto più umido di quello di Tiberiade!

Un messo giunge portando un plico da Cesarea di Filippo vicino a Damasco: un plico della figlia Salomè. La regina apre e trova una lunga lettera: saluti, considerazioni sul nuovo matrimonio, avvenimenti vari della loro terra e poi indicazioni su un libro scritto in aramaico: vi si narrano le informazioni inerenti quella che era l'esatta copia che uno stenografo era riuscito a prendere durante la rappresentazione del dramma al teatro di Petra.

Erodìade si sedette sulla terrazza e cominciò a leggere il libro e finalmente riuscì a capire più esattamente il contenuto delle voci che correvano da qualche anno in Galilea.

S'appassionò alla storia: la lesse e la rilesse nei giorni seguenti e pensò di tradurla dall'aramaico in greco, lingua in cui era stata ovviamente ben istruita a Roma e che conosceva bene o forse meglio del latino che pure parlava correntemente.

Traducendo, volle tuttavia apportare alcune modifiche alla storia narrata: gli sembrava che la vicenda fosse troppo poco realistica: troppo piena di miracoli e di angeli: volle renderla più vera: a ciò forse la portava lo stato melanconico di quei primi duri giorni d'esilio: volle, in un certo senso, punire sé stessa facendo morire crudelmente il selvatico profeta imprigionato e, nello stesso tempo, non volle accettare facilmente il trionfo del re nobile e salvatore: anch'egli avrebbe sofferto, come ora stava soffrendo Re Erode, ormai sconfortato, vecchio e malato e addolorato per l'esilio e inoltre volle accusare in questo modo gli amici, solo apparenti, di Gerusalemme: giudei, capi sacerdotali, procuratori romani, pronti solo a servire i potenti del momento: solo Erode, in quella nuova versione più drammatica della vicenda, avrebbe regalato al Re Salvatore una tunica: il meno ipocrita fra i tanti!

Ma il Re Salvatore avrebbe, in un certo senso, subito il medesimo "calvario" di Erode, tradito dagli amici del suo stesso paese. Il Salvatore, è misero, come ora, Erode ed Erode, in un certo senso, è obbligato ora a seguire le stesse sofferenze di quel Salvatore.

Nello stesso tempo il dramma, la vicenda, sarebbe diventata la molla di riscatto di ogni persona misera e, per giunta, addolorata, come, in quel momento, miseri e addolorati erano loro, esuli dalla propria terra, in un paese straniero, anche se l'imperatore, non li aveva privati proprio di tutto e aveva loro concesso il lusso di quella magnifica villa sulle pendici nord dei Pireni.

Erodìade intuiva, forse, come Aretìade, che questo, per così dire, nuovo libro avrebbe potuto essere la più potente arma contro chi crede troppo facilmente di poter spadroneggiare a lungo, a scapito di chi si trova misero e sprovveduto.

Rimandò tale nuova copia in greco a Salomè, con notificata la decisione che tutti i beni che gli rimanevano avrebbero dovuto essere devoluti alla diffusione di tale buon messaggio per le genti tutte, a partire dai miseri del suo popolo: lei facesse come si sentisse: comunicasse comunque parole di pentimento anche alla Regina Aretìade e il dono di tre talenti, per lei, da parte sua, che avrebbe spedito tramite operatori di cambio. Il messaggio e i talenti giunsero alla regina Aretìade: secondo la volontà di Erodìade, usasse i talenti per diffondere presso chi volesse quel buon messaggio, anche nelle sue terre. Al tutto, inoltre, Erodìade allegò un biglietto di accompagnamento, una specie di enigmatico augurio, usando -sibillinamente, in motto forse quasi di spirito, magari a farsi perdonare passate ruggini- una frase leggermente modificata che aveva incluso ex-novo nella sua traduzione: "Tu es Petra et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam". Aretìade, usati in seguito due dei tre talenti come Erodìade aveva disposto, pensò subito di mandare uno di quei talenti a Manaèn, con la nuova copia del libro in greco tradotto e rivisto dalla regina esule. Rabbi Manaèn lesse la copia e finalmente accettò lo scritto di cui aveva avuto qualche conoscenza più generica e adoperare quel talento per ricopiare e diffondere quell'eccellente scrittura che ebbe potere di produrre una sua adesione allo spirito di essa, nonché energica opera sua di proselito.

Dei rimanenti due talenti, uno lo tenne per future eventualità e il terzo lo mandò alla compagnia teatrale che anni prima aveva rappresentato il suo dramma a Petra, accompagnando l'elargizione con l'esortazione di andare a prendere una copia del libro da Manaèn e di diffonderne attivamente il contenuto, dato che aveva saputo delle loro attenzione al messaggio espresso nei suoi scritti: anch'essa pensava che tali azioni giovassero ad una maggior comprensione della Legge presso il popolo, specialmente quello ebraico, anche se non era contraria a che i suoi messaggi di attenzione alla Legge fossero diffusi anche tra i Gentili. Tale elargizione, permise ai popolani membri della ex-compagnia di aprire, accanto al piccolo locale che già ivi avevano, una specie di scuola, di cenacolo, appunto a Gerusalemme, dove ogni tanto continuavano a recarsi alcuni dei già componenti della famosa compagnia teatrale, con una certa prudenza perché on sempre avevano buona accoglienza presso gli ebrei più osservanti e poteva esserci qualche problema con le autorità (specie dopo l'insediamento in Palestina di Erode Agrippa).

Il cenacolo gerosolomitano andava diffondendo una predicazione della legge di tipo "drammatico", cercando di illustrare anche, con qualche tipo di rappresentazione comunitaria, la lettura dei detti del Salvatore e le sue schiette interpretazioni della Legge: si tenevano vivi i suoi sentimenti, la sua persona e piaceva molto il testo dei suoi detti quale riportato da Manaèn, per la profondità e la drammaticità del racconto. Mentre invece la predicazione del discepolo di Damasco insisteva piuttosto sulla lettura dei detti del Salvatore e sulla solidarietà comunitaria attorno alla sua figura, vista in senso, a volte, quasi simbolico e non pi realistico come era presso i fedeli gerosolomitani.

Proseguivano invece, pi popolari tra il popolo, specialmente della Galilea, amplificazioni e variazioni di narrazioni inerenti la vita del Salvatore, nella figurazione angelica, gioiosa e gentile quale era stata delineata dalla regina Aretìade nella prima rappresentazione teatrale, divulgata poi dai papiri dei mercanti siriaci.

Erode Antipa passò gli ultimi mesi in Spagna: più che del fresco dei Pirenei, aveva bisogno di medici e le notizie storiche non specificano se riuscì a vedere l'anno 41 EV.

Sta di fatto che, nei primi mesi del 40 EV, giunse a Damasco a Manaèn lo stesso libro in greco di Erode, mandato questa volta da Erode accompagnato dall'enorme cifra di cento talenti, sempre con la medesima funzione: diffondere il buon messaggio in esso contenuto.

Di Erodìade più nulla si seppe oltre: forse raggiunse la figlia Salomè vicino a Damasco, oppure, sempre con la figlia, si spostò a Roma, se è possibile che quell'Aristobulo che sposò Salomè poteva identificarsi con quel principe ebreo della famiglia degli Erodi, fratello o nipote di Erode Agrippa, che viveva o finì per vivere a Roma, ai servi del quale Paolo mandò dei saluti come convertiti al cristianesimo.

Forse, da Roma o da Damasco, altra volta, ritornò in quei luoghi pirenaici, che gli ricordavano gli ultimi tempi passati in compagnia del re.

Forse, parte del suo inquieto spirito è come rimasto per sempre legato a quelle nuove e straniere terre che le avevano comunque dato dolore, ma anche in qualche modo fede e illuminazione e dove, forse, più di una volta, nei secoli, è apparsa, signora, in tutta la sua fulgida bellezza, a giovinette del popolo: sogno dei re della terra o mistica compagna del Re, Signore del Mondo e, comunque inquieta entità ectoplastica, spirito tanto forte da accumulare quel quantum di energia che gli permette di riapparire di tanto in tanto nel tempo?

Supposizione molto poetica, ma, si potrebbe dire, forse troppo suggestiva, anche se la forza degli archètipi può giungere a dare anche come un senso visivo della loro esistenza. In ogni modo, era così, da quel momento, iniziato il mondo visto e palesato anche dalle donne, anche se già, la Legge, aveva iniziato, da qualche secolo, a parificare l'uomo a Dio e la donna all'uomo: cosa non facile per le idee che correvano a quei tempi.

A Roma, sede del potere e degli intrighi degli uomini, poteva subentrare una finalmente una nuova Roma paladina di giustizia e delle ragioni conculcate dei miseri e diseredati e fin anche delle donne?

Ai posteri l'ardua sentenza!

In ogni caso, una cosa era nata certamente, anche se di primo acchito la cosa potrebbe sfuggire, in qualche modo una società che, giusta o ingiusta che sia, veniva ad autoreggersi non più sulla stirpe, ma sull'energia dell'uomo da intendersi come individuo e sul misterioso e ambiguo potere del denaro: di fronte alla potenza di questa nuova fucina energetica, il primo potere ad andare in crisi fu quello di Roma, ma non fu che il primo di molti altri.

RENATO TURRA

 

 

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* APPENDICE STORICA *

* E *

* GLOSSARIO *

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à PYRENEAN LYON

E’ il titolo del racconto che ho voluto porre in inglese e vuol dire "LIONE PIRENAICA" per distinguere questa località, che oggi ha nome Montrjeau e si trova sulla Garonna a 60 km molto circa da Lourdes, dalla LIONE di PROVEWNZA. La parola LIONE non centra niente con il feroce felino, ma deriva da LUGDUNUM = villaggio di LUGUS dio dei Celti paragonabile a Giove. Il nome della città di LONDRA è pure da un LUGDUNUM.

In latino, la località era detta LUGDUNUM PYRENAEUM.

à ARETÌADE

Non mi dato per ora sapere, all'interno delle fonti bibliografiche di cui dispongo, come si chiamasse la figlia di Areta IV Filometore che regnò a Petra (ARABIA PETREIA) dal 9 PEV al 40 EV. Areta IV aveva avuto libero assenso da parte dei Romani per regnare su la NABATEA e su DAMASCO. Nel 33/35 l'apostolo Paolo riuscì a fuggire da Damasco eludendo il rischio di una prigionia per ordine di Areta IV. Per brevità e solo convenzionalmente la figlia di Areta stata chiamata "Aretìade".

 

à ERODE ANTIPA III

Erode Antipa non era affatto il sovrano indotto che noi possiamo pensare, ubriacone tutto dedito a banchetti di tipo orientale, mentre tra vino e bagordi danzano velate odalische.

Era stato educato a Roma, non meno della moglie della giovinezza figlia del re nabateo Areta IV. Qui si suppone che tutti e due fossero stati istruiti, nel loro sapere nazionale, a Damasco e quindi dovevano parlare e scrivere perfettamente la lingua siriaca o aramaico che dicasi. Non meno colta doveva essere la giovane figlia di Erodìade Salomè, oltre che essere brava nella danza.

Pure la bella Erodìade doveva essere molto istruita.

Erode Antipa III, figlio di Erode il Grande, regnò nella Galilea e Perea dal 4 PEV al 39 EV. Fu educato a Roma assieme al fratello Archelao. In seguito sposò la figlia di Areta re d'Arabia, la cui capitale era Petra.

Durante uno dei suoi viaggi a Roma, Antipa III fece visita al fratellastro Filippo, figlio di Erode il Grande e di Mariamne II; durante la visita, si invaghì della moglie di Filippo, Erodìade, donna molto ambiziosa. Egli la portò con sé in Galilea e la sposò, dopo aver divorziato dalla figlia di Areta e averla rimandata a casa. Questo insulto scatenò una guerra. Areta invase il dominio di Antipa e gli inflisse gravissime perdite, tanto da riuscire quasi a spodestarlo. Antipa si salvò appellandosi a Roma e ottenendo che l'imperatore ordinasse ad Areta di sospendere le ostilità.

Antipa godette di grandi favori presso Tiberio, successore di Augusto. Costruttore al pari del padre, anche se su scala molto più limitata, Antipa edificò una città sul lago di Gennezaret (il Mar di Galilea o di Tiberiade) e la chiamò Tiberiade in onore dell'imperatore. Chiamò un'altra città Giulia in onore della moglie di Augusto, Giulia (meglio nota come Livia). Costruì anche fortificazioni, palazzi e teatri.

à RAPPRESENTAZIONE TEATRALE DI PETRA

La data di questa rappresentazione, pensata tuttavia solo come ipotesi, è stata fatta coincidere con la data tradizionale della passione cristologica fissata di solito per la primavera del 33 EV.

Per tale avvenimento evangelico, i critici e filologi biblici fissano anche altre date vicine: c'è, ad esempio, chi parla della primavera del 30 EV.

à DANZA DI SALOME'

L'episodio di Erodìade e Salomè viene qui supposto nella primavera del 32 EV, seguendo più o meno la tradizione più comune di datazione. Salomè figlia di Erode Filippo.

à EV

EV = era volgare. Terminologia più laica che non "d.Cr.". Mi è sembrata più consona al contenuto del racconto.

à PEV

PEV = prima dell'era volgare. Terminologia più laica che non "a.Cr.". Mi è sembrata più consona al contenuto del racconto.

à ERODÌADE

La data del divorzio di Erodìade dal fratellastro di Erode Antipa, Erode Filippo, potrebbe essere posta a 30 EV. Questa data potrebbe tuttavia non coincidere con la data del ripudio della regina figlia di Areta IV: infatti, le legislazioni che regolavano le due procedure erano di ambito completamente diverso. Nel racconto quindi si immagina che il "libello di ripudio" giunga alla regina figlia di Areta IV nel tardo inverno del 33 EV.

Areta IV sconfigge Erode Antipa poco prima del 36/37 EV.

à MANAEN

Educatore di Erode Antipa. Manaèn forma greca del nome ebraico Menakheim = "confortatore". Nelle scritture neotestamentarie, Manaèn è uno dei profeti e maestri della congregazione cristiana di Antiochia fondata da Paolo. Manaèn era stato compagno di studi a Roma del tetrarca Erode Antipa III. La scuola rabbinica di Damasco in cui "Aretìade" ed Erode avrebbero studiato le sacre scritture è una pura supposizione del racconto qui proposto.

In particolare, negli atti degli Apostoli è menzionato un cristiano Manaèn, che era stato educato unsieme a Erode il tetrarca. Poiché Antipa era stato allevato a Roma insieme a un privato cittadino, le parole della Bibbia potrebbero indicare che anche Manaèn era stato educato a Roma.

à ERODE IL GRANDE

Data della fine del regno di Erode il Grande: 4/5 PEV, oppure 1 PEV, oppure 1 EV. Tale data influisce sulla fissazione della data di nascita del Messia Evangelico, dato che la nascita del Messia viene fatta più o meno coincidere con gli ultimi avvenimenti del suo regno.

 

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N.B.: la forma del racconto romanzesco è stata dall’autore scelta per evitare, al momento, una saggistica che penso possa essere, per ora, piuttosto noiosa. Nella forma di questo racconto, l’autore ha voluto esporre parecchie tesi e problematiche implicite che si potrebbero sviluppare in seguito e non solo di ordine religioso, ma anche, più in genere, storico-antropologiche, nonché legate a problemi inerenti gli archètipi in relazione all’immaginario collettivo.

Ne espongo qui sinteticamente e brevemente solo qualcuna: passaggio della società umana da un’autoconcezione gentilizio-tribale ad una autoconcezione individuale; autoaffermazione dell’uomo come individuo e così pure della donna; società di individui come presupposto del sorgere di una società moderna basata sulla significanza del denaro ("capitalismo" per dire); si può vedere nel sorgere di una società cristiana il sorgere di un’effettiva società moderna: in tal caso, la nascita di alcuni fenomeni considerati come propri della società moderna andrebbe retrodata di più secoli; il mutare dell’immaginario collettivo è premessa di mutamenti di ordine economico; la messa in comunione del denaro come uno dei caratteri della società cristiana ha avuto molta importanza nell’imporre nuove possibilità di strutturazione dell’economia?

 

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