Se per simbolo intendiamo realtà, oggetti, caratteristiche che evocano
o rappresentano, per convenzione o naturale associazione di idee, concetti
astratti o situazioni proprie di una persona o di un gruppo di persone, possiamo
senza dubbio definire simbolico il ruolo svolto dall’architettura come
mezzo per celebrare personaggi, ideali, nazionalismi e tradizionalismi, fino
al momento della transizione tra età industriale ed età industrial-informatica.
Ma senza dubbio simbolico è stato anche il ruolo svolto dall’architettura
a partire dalla classicità greco-romana, con le città imperniate
attorno ai poli del potere e del controllo religioso, politico e amministrativo,
e altrettanto lo è stato nel Rinascimento, quando l’arte del
rappresentare in prospettiva aveva lo specifico compito di celebrare casate,
gerarchie politiche, religiose e l’ordine del reale, attraverso il legame
tra spazio e idealismo platonico, basato sulla geometria euclidea, piegata
a strumento attraverso cui aspirare ad un mondo superiore.
Nell’età industriale il simbolo è stato l’oggetto,
divenuto icona dell’auto-celebrazione di chi lo deteneva e status symbol
per intere categorie di individui.
Ma tutto ciò, finalmente, oggi cade, insieme agli autoritarismi: l’architettura
è divenuta la piazza vissuta dai più e il “successo”
del luogo non discende dall’alto, ma si consolida per la ricerca di
una piacevole fruizione, anche culturale, e per l’interazione tra genti
glocali.
Questo è notevolmente lontano anche dalla recente architettura post-moderna,
che segnava sì il distacco dal modernismo, ma sicuramente deludente
nei risultati: si pensi alle piazze di Aldo Rossi, che parlano senz’altro
il linguaggio di uno stile e comunicano la riconoscibilità di una griffe,
ma che sono rimaste vuote e desolate come i quadri di De Chirico. Senz’altro
di diverso contenuto sono state invece le poche opere realizzate da Venturi,
dalle quali traspira un’innegabile ironia: seppure ridotte ad un saccheggio
di parole dal punto di vista puramente architettonico, restano indubbiamente
valide da quello teorico, incarnando la via di fuga dal funzionalismo. Nella
confusione tipica di un’età di transizione, tra genialità
e ripensamenti, va sicuramente collocata l’opera di Ph. Johnson, che
si dibatte tra due estremi segnati, tanto per citare due opposti picchi, dalla
Glass House e l’edificio AT & T.
Oggi non si pensa a negare o celebrare il portato delle precedenti architetture:
gli addetti ai lavori sono troppo impegnati nel metabolizzare le infinite
possibilità implicate dal magma della materia informatica, dove, ancora
una volta, un’invenzione diviene la prospettiva attraverso la quale
guardare e progettare il mondo.
a/m