La poesia taumaturgica di Antonella Anedda
(di Biagio Salmeri)
In una dedica ad Antonella Anedda, affermavo, mesi or sono, che il suo primo libro di versi "Residenze Invernali" (Crocetti editore) era uno dei pochi che avrei portato con me fuggendo da una casa in rovina. Perché, scampando alla morte e al crollo delle certezze, è necessario un viatico, un lasciapassare fra le pattuglie del dolore.
L'immagine della sofferenza ( "i malati dormono gli uni / vicini agli altri posati / su letti uguali") viene toccata da virtù lenitive e riparatrici, una taumaturgia dell'animo, come un brodo caldo che, nei rigori dell'inverno, appaga più del ventre il cuore. In una discesa agli inferi dolente e dimessa, non eroica e memoriale, come quella di Ulisse ( "con quali silenziosi inchini / s'incontrano i pensieri dei morti" ). Sottovoce, come il bisbiglio che s'ode di notte nelle corsie, senza l'enfasi al mattino della coda di camici ai letti ( "noi siamo morti / in questa mattina di dicembre / con la semplicità del cucchiaio / che scava una minestra leggera").
Una poesia che non appartiene né al regime diurno né a quello notturno dell'immagine, bensì ad una "lichtung" heideggeriana, una penombra dell'essere non disperante e, altresì, scevra da illuminazioni. Ove la coscienza del dolore addiviene all'unica possibilità che è data all'uomo di fronteggiarlo: prendersene cura.
Da allora ho prudentemente posto l'uno accanto all'altro tutti i libri della Anedda che ho potuto leggere ed amare. Per afferrarli, di fretta, al volo insieme.
Perché, alfine, si rimane soli con se stessi e con la propria fugace consapevolezza: "Non ho nessuno tra queste tombe, nessuno / da chiamare per nome, perciò mi chino / sterro una radice, ricordo / che i miei morti dormono / battezzati ed ebrei / resi uguali dal fuoco / in astucci di sassi, di candele" (Notti di pace occidentale, Donzelli editore).
Ma proprio nel momento i cui tutto è destinato sbiadire nell'oblio e nell'indeterminato, insorge un ulteriore senso dell'esistenza: "Forse noi non esistiamo che per imparare l'alfabeto dei morti e per raggiungerli non appena saremo in grado di parlare la loro lingua" (Cosa sono gli anni, Fazi editore).
Da "La luce delle cose" (Ed. Feltrinelli)
La luna cade sui piatti, sui libri chiusi, sul pavimento. Cade piena, senza ombra, come se per un momento fermasse la necessità e l'orrore del mutamento e il bianco assorbisse nel suo cerchio l'oscurità degli addii, la sosta nell'angustia degli spazi e il lacerarsi che ci rende vivi. Ora è l'unica luce sulla ninnananna che canto alla bambina ricordando le parole senza mai pronunciarle. A bocca chiusa, a occhi chiusi, ascoltando il suono dell'acqua che si muove e impercettibilmente sale, più forte del mutamento degli addii, del sonno che ci confonde:
Siamo venuti a dormire, siamo venuti a sognare.
Non è vero, non è vero che siamo venuti
A vivere sulla terra…