I sogni degli Shiela
Era tutto buio anche lì, nella sala centrale di Tar
Azyl, sotto la volta a sesto acuto da cui pendevano arazzi che avevano sempre in
qualche modo inquietato Queyar. Nessuna attività adulta aveva luogo quella
notte, cose da cui lei non era esclusa, ma che le erano estranee, cose da
soldati, cose da say. La notte era quieta e fredda nel cuore cieco della
fortezza. Queyar si era imbozzolata nella coperta di pelo di sfinge che copriva
il suo letto, ma non si era preoccupata di infilarsi un paio di pantofole e ora
se ne era pentita: il gelo del pavimento le bruciava le piante dei piedi e lei
doveva saltellare da una gamba all'altra, attenta a non fare rumore per non
svegliare quelli che dormivano nelle camerate comuni sotto il pavimento della
sala grande.
Da quando suo padre Shai era morto - tre anni e più, ormai
- Queyar sentiva che qualcosa era cambiato in lei, qualcosa che non aveva niente
a che fare con il suo dolore e il suo risentimento, il dolore per aver perso suo
padre e il risentimento che provava per quelli che lo avevano ucciso e anche per
lui, Shai, per averla lasciata sola tanto tempo prima di morire e anche per
essersi fatto sconfiggere, catturare e uccidere come un eroe stupido. Queyar non
era l'unica a provare dolore e nemmeno l'unica a provare risentimento per questa
gente che si prendeva cura di lei e la teneva prigioniera, la sua famiglia, i
carnefici di suo padre. C'era anche suo fratello Hayderad. E benché il
risentimento di Queyar fosse esplicito, e quello di suo fratello no, le sembrava
che il suo dolore potesse impallidire e sciogliersi e bruciare di fronte al
dolore di Hayderad, all'odio di Hayderad per la sua famiglia, tanto più
terribile quanto più nascosto, sottratto perfino alle sua stessa coscienza. Un
giorno, l'odio sarebbe venuto fuori di nuovo, e Queyar aveva paura di quel
giorno.
Ma non era questo. No, Queyar soffriva, e Queyar odiava il Clan
Shiela, e Queyar era preoccupata per suo fratello, ma quello che la turbava era
altro. Sospirò nel buio, sentendosi un pochino più sollevata ora che non era nel
suo letto a girarsi e rigirarsi. Qui, nella sala grande, sentiva più silenzio...
Ma perchè "più silenzio"? La camera sua e di Hay era silenziosa, tranne che per
il respiro di suo fratello, a cui lei era abituata dalla nascita. E allora,
cos'era che l'aveva disturbata? Cos'era che qui era più lontano, in questa
grande stanza fredda senza finestre?
Queyar sbuffò e accantonò il
problema. La luce fioca che veniva dalle guardiole era sufficente per vedere
dove mettere i piedi. Passò, sempre saltellando sulle punte dei piedi, accanto
all'altare centrale da cui il Kilyanna parlava al Clan, indifferente alla greve
sagoma massiccia in pietra nera. Passò sui marmi policromi del pavimento,
calpestando senza rimorsi le scene di battaglia e i ritratti degli Imperatori
che il Clan aveva dato all'Universo - o che si erano presi l'Universo per conto
del Clan. Aveva fame: andava in cucina a rubare qualcosa.
Queyar era
testarda. A cena, aveva voltato la testa di fronte al piatto di gagok preparato
cerimonialmente per l'Anniversario della Vittoria, e nè le lusinghe nè le
prediche nè le minacce erano bastate a piegarla. Il gagok lei non l'avrebbe
mangiato nè quest'anno nè in nessuno degli anni a venire. Avrebbero pensato che
era capricciosa? Che lo pensassero. Queyar non aveva rifiutato il gagok perchè
non le piacesse - benché in effetti il gagok non le piacesse - ma perché
non aveva alcuna intenzione di festeggiare la sconfitta della Rivoluzione di cui
suo padre aveva fatto parte. Oh, Queyar poteva essere risentita con lui, ma non
tanto da tradirlo in questo modo. Potevano averlo fatto fare a suo fratello, ma
suo fratello era in loro potere: era un soldato del Clan, un membro della casta
guerriera, say, un suddito del Kilyanna. Lei no. Lei, per quanto la guardassero
di storto e pensassero che c'era qualcosa che non andava in lei, era al di sopra
di tutti loro, e poteva disprezzarli e anche odiarli con una certa, relativa,
sicurezza: lei era un medico, addestrata da quando aveva cinque anni, e di
medici il pianeta aveva bisogno. Avevano bisogno di lei. Le radiazioni li
avrebbero spazzati via da tanto tempo senza di loro, facendo nascere i loro
figli morti, morenti o inutili. I loro occhi sarebbero tornati color bruno e la
loro pelle sarebbe tornata nera, e avrebbe fabbricato inutile melanina, invece
degli enzimi che consentivano loro di sopravvivere sulla Cirte, senza le
sottilissime dita chimiche di Queyar e dei suoi colleghi che rimettevano a posto
i loro geni ad ogni generazione. I raccolti già scarsi avrebbero finito per
soccombere. I batteri che consentivano loro di mangiare le erbe e i frutti di
questo pianeta avaro, che ormai era loro da innumerevoli generazioni eppure era
così estraneo, piano piano sarebbero morti nei loro stomaci e addio vitamine,
addio aminoacidi essenziali. Queyar pensava a tutto questo con un che di
maliziosa soddisfazione. Quando da piccola aveva scelto la medicina non l'aveva
fatto per i vantaggi che le sarebbero derivati, e di cui ora era grata. Tutto
quello che allora l'aveva spinta era un vago fantasma di avversione: non voleva
imparare ad uccidere bene, e non voleva imparare a fare del male alla gente come
faceva suo fratello.
Così avevano piegato suo fratello: perchè sapevano
come fare del male alla gente ed essendo cresciuti nell'onore e nel rispetto
della Cirte, forti della sua verità, non esitavano nemmeno se la gente era un
bambino. Così avevano piegato suo fratello, quando lui gliene aveva data
l'occasione: con la frusta. Queyar sentiva ancora la cieca arida spietata furia
che aveva provato a vederglielo fare, a non poterlo impedire. Ma dal'altra
parte, suo fratello lo avevano potuto fregare perché era più debole di lei, ed
era più debole perchè aveva amato disperatamente suo padre fino alla fine: a
Queyar, questo era stato risparmiato. Lei era riuscita a tenere dentro di sè,
sicura e protetta, la sua rabbia, e loro non avevano potuto incastrarla. Suo
fratello invece li aveva insultati e aveva gridato che erano degli assassini e
poi era andato nella Piccola Stanza e aveva attaccato con un bastone gli
strumenti delicati. Questo aveva dato a loro la possibilità di punirlo.
Lei non lo aveva potuto proteggere: amava suo fratello - forse era l'unica
persona che amava nella Casa Grande di Tar Azyl - ma non poteva proteggerlo più
di tanto. Era solo una bambina, dopo tutto.
Se soltanto fosse riuscita a
scappare e portarlo via da lì, strapparlo al Clan e alla Cirte, se fosse
riuscita a scappare verso uno qualunque dei pianeti che vedeva ogni tanto nei
notiziari, o di cui leggeva nei libri, dove la disciplina non èl'unica regola
secondo cui vivere, dove non tutto èsottoposto al volere della Cirte, dove
passano completamente inosservate cose che qui, nell'antica casa della sua
nobile famiglia, vengono punite con la tortura - e poi, con la morte della
propria anima... se solo ci fosse riuscita.
Queyar scosse la testa, una
quasi ridicola testina bionda che sbucava fuori dalla coperta di pelo mentre
avanzava silenziosa e piuttosto goffa verso le scale della cucina. Uno dei suoi
atti di ribellione era stato quello di rifiutare di tagliarsi i capelli come una
brava ragazzina Cirtiana avrebbe dovuto. Fra non molto, l'avrebbero costretta
con la forza a farlo, ma per ora, cresciuti di appena qualche centimetro oltre
ciò che era proprio, le cadevano sgraziati e disordinati attorno al viso. Erano
più scuri di quelli biondo cenere di suo fratello, anzi tendevano al miele,
screziati verso le punte di un colore più chiaro, e un giorno sarebbero stati
ammiratissimi - era un colore raro sulla Cirte. Ma per ora, sospesa tra il suo
tredicesimo e quattordicesimo anno, Queyar non era nè bella nè brutta, nè
bambina nè adulta. Il suo viso non aveva ancora assunto quei tratti morbidi che
in seguito avrebbero incantato tanti uomini, la sua figura non era nè snella nè
esile, era proprio solo magra.
Qualcosa la fermò di botto. Ecco, ecco!
Questo era il rumore che l'aveva disturbata. Solo che non c'era nessuno rumore.
Niente. Queyar ascoltò molto attentamente, guardando in su nel buio nella
direzione della guglia, che dall'interno era visibile, anche quando la sala era
illuminata, solo come uno spazio verticale che andava oscurandosi, un pozzo
capovolto con in fondo, sopra le teste del Clan, solo buio. La camera di suo
nonno Evedar, Lo Shiela, era là sopra. Chissà se era sveglio. Evedar era come
tutti loro, beninteso, ma era gentile ed era giusto - non come suo zio Vayles o
la sua guardiana. Il padre di Queyar in fondo era anche suo figlio, e lei sapeva
che gli era dispiaciuto di doverlo uccidere. Sapeva che gli era dispiaciuto di
far punire Hayderad. Lo sapeva, quasi poteva sentire nelle ossa quello che
mangiava Lo Shiela dall'interno; la sua vittoria e la sua gloria, avere
riportato gli Shiela al loro splendore di un tempo mettendosi alla testa della
rivolta contro il governo Rivoluzionario, avere salvato la Cirte e il resto
della Nazione dai sovversivi - tutto ridotto a cenere e polvere e acqua amara e
sterile terra per il prezzo che aveva pagato, per la morte di suo figlio e la
vergogna sul suo Clan.
Oh, dov'erano la grandezza, l'onore degli
Shiela, perché non bastavano a scacciare questo dolore?
Sorpresa, e
scossa, Queyar alzando una mano sentì di avere qualcosa di bagnato sul viso -
lacrime? Lacrime ? Queyar si guardò in giro come per assicurarsi di non
essere stata vista. Ma non c'era nessuno attorno, per fortuna. Si era distratta,
aveva dimenticato di stare all'erta. Non era il suo posto quello, avrebbe dovuto
essere a letto... se l'avessero scoperta, una buona dose di botte non
gliel'avrebbe tolta nessuno. Sospirò, ritirò la testa dentro il suo mantello
improvvisato e proseguì in direzione degli scalini che portavano in cucina.
Oltre la cucina c'era la dipensa con i biscotti e il succo di pietra.
Queyar scivolò giù per la scala e si fermò sugli ultimi gradini. C'era
luce che veniva dalla cucina, maledizione. C'era qualcuno dentro. Sbuffò tra sè.
Niente accesso alla cucina, e nemmeno alla dispensa. Coprì gli ultimi passi in
silenzio, si accucciò vicino alla porta e sbirciò dentro. Ma aveva già
riconosciuto le voci: suo zio Vayles e Mayenna, una magazziniera. Queyar fece
una smorfia a vederli. Così, eh? Vayles l'incorruttibile, il severissimo, il
perfettissimo Vayles. Di notte solo con una donna. Mmm. Lo dirò ad Hay questo,
pensò. Solo che Hay avrebbe reagito solo con un corrugamento della fronte, un
gesto molto adulto, disappunto e incredulità contenuti. Per Hay trovare sollievo
nella derisione dei superiori era inconcepibile. Hay era serio e corretto,
stupito di fronte all'eterodossia altrui, perfino quella di sua sorella. Hay era
un vero say, un vero soldato, disciplinato e obbediente, con gli occhi fissi in
adorazione della sua meta - e quale sarà mai la sua meta, si chiese Queyar con
una punta di acidità. Rimediare all'indisciplina di questo universo disordinato?
Rimettere le cose a posto - cioè sotto il controllo della Cirte? Con quali
parole Hay avrebbe mascherato senza nemmeno rendersene conto la brutale
filosofia della Cirte - siamo noi a decidere quel che èbene per la Galassia?
Hay era un vero soldato.
Queyar si rincantucciò accanto alla
porta, curiosa. Tese l'orecchio.
"...ormai sarei troppo vecchio," stava
dicendo Vayles. "E comunque non ho mai desiderato andare via dal pianeta.
Avevano bisogno di me qui."
"Lo so cosa vuoi dire," rispose la voce
della donna. Era una bella voce, dolce, che a Queyar piaceva. Ma era anche lei
un soldato, e Queyar non lo aveva dimenticato. "Credo che tutti quelli che
partono lo facciano controvoglia, chi può andarsene volentieri sapendo quanto
bisogno di aiuto c'è qui? Ma abbiamo anche bisogno di soldi. E poi un soldato
deve di combattere, e non solo contro la carestia."
Ci fu un breve
silenzio. Poi Queyar sentì Vayles mormorare:
"E' tutto... sempre... così
duro. Pensavo che quando sarebbe finito il blocco, quando sarebbe stata
sconfitta la Rivoluzione... e invece..."
"Le cose stanno andando meglio,
ora," disse la donna, rassicurante. "E miglioreranno ancora. Ci vorrà del tempo:
siamo rimasti isolati per così tanto, il danno che èstato fatto èstato tale...
ci vorrà del tempo. Ma le cose andranno meglio un giorno, vedrai."
Queyar si alzò in piedi, furiosa. Non voleva stare lì un momento di più.
Non era stata colpa della Rivoluzione, se loro avevano sofferto la fame! Erano
stati i say stessi a non voler scendere a compromessi. Niente contributi per lo
Stato Federale! Niente collaborazione! Nessun giuramento di lealtà! E la
dichiarata intenzione di rovesciare il governo rivoluzionario. Allora per forza
che la Federazione aveva imposto il blocco... non era stato nemmeno un vero e
proprio blocco, avevano solo sospeso i sussidi, perchè ne avevano bisogno loro!
E suo padre... non era stato certo lui direttamente a far morire di fame la
Cirte, anche se lo avevano incolpato perché faceva parte del Comitato Direttivo
- ma non per l'Economia, era il Commissario per la Cultura. Forse si era perfino
opposto, lo sapeva di certo quant'era stretto il margine su cui viveva la Cirte,
quanto vicina fosse la carestia. Forse... e forse no. Queyar sapeva che cos'era
la guerra, la rivoluzione, cosa c'era in gioco e quali erano i rischi. Lo aveva
visto da vicino, lo aveva visto succedere ai suoi familiari, lo aveva visto
succedere a suo padre. Sapeva quanto poco era stato concesso alla pietà, e non
solo nei cuori dei soldati della Cirte. Se davvero suo padre aveva taciuto
quando era stata presa la decisione di tagliare i rifornimenti alla Cirte, la
roccaforte della reazione, che allora era tanto minacciosa - Queyar poteva
capirlo. E con un tremito in fondo al cuore per il ricordo della fame e della
morte in quella che era sempre in fondo la sua famiglia - era più difficile
odiarli quando soffrivano tanto - poteva perdonarlo. Sotto sotto, oh molto in
fondo nel suo cuore così complicato e confuso, lei poteva capire anche i say ,
capire la loro ferocia, dopo, quando avevano vinto. Proprio per questo avrebbe
voluto andare via da Tar Azyl e poter dimenticare le ragioni degli Shiela, e
odiarli quanto sentiva di avere bisogno di odiarli.
Queyar si voltò,
abbandonando con rimpianto la prospettiva dei biscotti. Ma era soprappensiero, e
prese lo scalino metallico con un piede. Si sentì un sordo boinng! e Queyar si
immobilizzò, raggelata. Sentì Vayles che diceva: "Ehi! Chi èlà?" e raccogliendo
la coperta di sfinge fuggì su per le scale.
"Ehi!"
Attraversò la
sala grande di corsa, pattinando sulla pietra liscia, con i passi di Vayles
dietro. Vayles aveva intravvisto la sua sagoma quanto bastava per sospettarne
l'identità. A Mayenna, dietro di sè, disse:
"Ecco, ecco qui. Te l'avevo
detto. A tavola fa i capricci e poi di notte ruba in dispensa. Non so più cosa
fare con lei. Bisognava raddrizzarla quando era molto più giovane. Magari
assomigliasse a suo fratello - quello sì che èun bravo ragazzo."
Mayenna
si voltò verso di lui e parlò freddamente.
"Suo fratello dovrà davvero
essere perfetto per far dimenticare suo padre."
Vayles abbassò la testa
bruscamente. "Be', vado a vedere di acchiapparla. Aspettami qui."
Con il
passo svelto e silenzioso dei say - che era stato letale per tanta gente in
guerra - si diresse verso i quartieri della Famiglia Interna. Non gli erano
piaciute le parole di Mayenna. Anche se Queyar non lo avrebbe mai creduto, anche
lui voleva bene a suo nipote Hayderad, come ne aveva voluto a suo fratello Shai,
per traditore che fosse. Si mise a correre seguendo il suono di piedi scalzi
sulle pietre.
Queyar prese un corridoio laterale - non voleva infilarsi
in camera sua, Vayles l'avrebbe scoperta. Corse giù per la rampa a spirale,
voltando la testa freneticamente a destra e a sinistra per decidere quale delle
porte che si aprivano sulla rampa prendere. Alla fine, incapace di decidersi,
giunse al lungo corridoio sotterraneo in cui la rampa sfociava. Queyar sapeva
che era sotterraneo anche se tutta Tar Azyl era chiusa, senza finestre, senza
luce, per via dei venti della Cirte. Era un tunnel largo, molto trafficato di
giorno, che portava al campo d'atterraggio a nord della fortezza, ed era freddo
come lo Spazio Esterno. Ci soffiava una corrente d'aria che originava da chissà
dove. Battendo i denti, Queyar corse disperatamente verso il primo portone che
vide. Esitò un attimo, riconoscendo il posto, ma poi entrò e si chiuse la porta
alle spalle. Si mise in un angolo, più vicino alla porta che potè, stretta nella
coperta, gli occhi chiusi, tremante per il freddo - ma non solo per quello. E
nonostante fosse buio teneva gli occhi serrati con determinazione per non vedere
nemmeno una sagoma un po' più scura del buio. Sapeva dov'era: aveva riconosciuto
la Piccola Stanza anche se, naturalmente, non ci era mai entrata.
Che
razza di follia l'aveva spinta a trovare rifugio lì, di tutti i posti di Tar
Azyl? Vayles l'avrebbe sgridata e picchiata se l'avesse trovata in piedi a
quest'ora, ma non sarebbe stata certo la prima volta. Entrare nella Piccola
Stanza - era tutta un'altra cosa. Queyar quasi quasi avrebbe voluto correre
fuori, rifugiarsi nelle braccia di Vayles, affrontare la punizione, piuttosto
che restare in quel posto. Quasi. Si strinse ancora di più in sè stessa.
Anche con gli occhi chiusi, anche stretta nella coperta, con la coperta
sulla testa, le braccia attorno alle ginocchia, i fantasmi della Piccola Stanza
le venivano addosso, le gridavano nelle orecchie, le gridavano suppliche e
maledizioni, con le loro mani senza unghie, le loro orbite insanguinate, le
indicavano gli strumenti disposti sui banchi, la prendevano per mano e la
tiravano per far sì che vedesse. Queyar si premette le mani sulle orecchie, ma
li sentiva ancora, e sopra tutti loro, la voce di suo padre, e ancora sopra, la
voce di suo fratello. Che voce era, quella? Suo fratello affrontava ogni giorno
questo cuore nero della sua gente. Era la sua voce pacata e severa, più adulta
nel tono che nel timbro, quella dell'Hellea degli Shiela, l'erede del comando
del Clan, il dispensatore di giustizia e disciplina - oppure era quella con la
quale aveva urlato e maledetto i suoi parenti e il suo posto nel Clan, quando
aveva incontrato qui dentro suo padre morente? Quale dei suoi due fratelli,
quale dei due Hayderad aveva lasciato echi ancora udibili fra queste pareti?
Quale sarebbe sopravvissuto, alla fine, quale voce avrebbe continuato a farsi
udire dopo che Tar Azyl fosse stata distrutta, quale delle due voci avrebbe
continuato ad annunciare la sua verità?
Poi un rumorino da nulla fece
sparire tutto, e Queyar si rilassò un poco, tirando fuori la testa dal mucchio
della coperta: Vayles era sbucato nel tunnel, lo aveva visto vuoto, e dopo avere
gridato "Queyar! Vieni subito fuori! Vieni qui immediatamente , se non
vuoi prenderle!" si era arreso, sbuffando. Ma non era tornato indietro. Aveva
fatto qualche passo in avanti e si era fermato davanti alla Piccola Stanza.
Erano i suoi passi che Queyar aveva sentito.
Dopo un attimo, la porta si
aprì con uno scatto pulito e secco, e una lama di luce entrò rapida per
rimbalzare su tutte le altre lame. Queyar vide l'ombra di Vayles ritagliata nel
rettangolo illuminato sul pavimento, e si ritirò addosso al muro, senza nemmeno
respirare - ma non per la paura di essere scoperta. Vayles era fermo, e Queyar
sapeva - in un qualche modo, sapeva - che non la stava cercando. Era
venuto lì per qualche riflessione, per qualche commemorazione, muovendosi
lentamente come nelle stanze di una persona cara da poco scomparsa. Queyar pensò
assurdamente di alzarsi e andare da lui, dirgli ecco sono qui, sono viva.
Sgridami, ma smetti di pensare a qualunque sia la cosa a cui stai pensando e che
ti rende così triste. Non sapeva come, senza vedere altro che una sagoma
d'ombra, poteva sapere che era triste - e non osava nemmeno chiederselo.
Dopo qualche respiro silenzioso, Vayles mormorò, come fra sè: "Tu
sapresti come prenderla. Tu sapevi sempre come prendere la gente. Probabilmente
ti crede un eroe."
Queyar si alzò e Vayles l'avrebbe sentita, se non
fosse stato così lontano col pensiero, così distratto. Queyar aveva voglia di
dirgli, non lo credo un eroe, ma non meritava di morire e tutti noi non
meritiamo di vivere così, mio fratello e tu e tutti voi... e io. Ma lui era
ancora un assassino, impunito, e mai pentito. Perdonarlo non era giusto e,
sopratutto, era qualcosa che Queyar non si poteva permettere se voleva
sopravvivere integra.
Vayles sospirò, come un sospiro di congedo. Prima
di voltarsi e chiudere la porta mormorò: "Ci hai spezzato il cuore."
Queyar scivolò lungo il muro, sentendosi tremare, sentendosi debole e
sudata e in preda a vampe di caldo e di freddo improvviso. Per qualche momento,
le riuscì di non pensare. Ma anche allora, sapeva. Lo aveva saputo prima di
ammetterlo con sè stessa: che pochi minuti prima, mentre guardava la sagoma di
Vayles fatta d'ombra e leggeva il suo viso senza vederlo, aveva avuto il suo
primo, netto, inconfutabile episodio di empatia.
Non era certo la prima
volta che ci pensava. Anche poco prima, mentre sotto la guglia aveva per un
attimo incrociato i suoi pensieri con quelli dello Shiela, prestandogli i suoi
occhi per piangere le lacrime che non sono permesse ad un soldato say, qualche
parte di lei aveva detto timidamente, con una vocina sottile sottile: empatia?
Ma prima ancora che l'ammissione esitante si affacciasse alla sua coscienza, era
stata spinta rudemente giù, come era successo tante altre volte. Non era mai
stato tanto chiaro da forzarla a riconoscere questa cosa in lei.
Queyar
appoggiò la testa indietro, contro la pietra fredda, e stette ferma, cercando di
calmarsi. Non c'era niente di terribile, disse a sè stessa in tono rassicurante.
Centinaia di persone - migliaia di persone vivono come empati per tutta la loro
vita. E' un onore, non èvero? Certo, un soldato deve imparare a controllarsi,
deve rinunciare all'empatia. Ma tu non sei un soldato grazie alla Dea. Non c'è
niente di male. E' un do...dono. Una fortuna. Ti insegneranno a controllarti. E
tu hai sempre saputo che una componente di empatia c'è in tutti i tuoi
conterranei, èqui che èstata inventata, èqui che èstata progettata e sono state
costruite le sequenze DNA necessarie. Ormai ènel patrimonio genetico di quasi
tutti noi, in chi più espresso, in chi meno. Sono stati i tuoi colleghi, i
medici di questo pianeta, a lanciare questo sasso nella mente umana, a darle la
possibilità di sentire i sentimenti, a darle la possibilità di non essere mai
isolata, di potere, finalmente, essere veramente fratelli... E' un dono, un
onore, una fortuna, un dovere, una chiave nei sentimenti altrui, che insegna la
pietà, e ferma la mano di un assassino... E' un bene, Queyar, e tu non dovresti
avere paura, non dovresti piangere, piangere così forte, così forte da far
tremare queste mura nere, non dovresti sentirti così oltraggiata, così furiosa.
Queyar schizzò in piedi e scappò dalla Piccola Stanza, senza più sentire
il freddo dal corridoio, senza nemmeno sentire il freddo sotto le piante dei
piedi, lasciando dietro di sè una scia di piccole chiazze tonde di lacrime, come
macchie di sangue su per la rampa, sui marmi consumati della Sala Grande, tutta
buia.
Ma non più silenziosa. Ora sentiva chiaramente quello che l'aveva
svegliata, perché ormai non era solo nella vulnerabilità del sonno che la sua
mente era ricettiva. Il grumetto di cellule nervose responsabili dell'empatia
era stato attivato dalle fluttuazioni degli ormoni della crescita e Queyar
voltandosi su sè stessa sul marmo freddo sentiva come una serie di brividi sulla
pelle gli echi delle menti addormentate tutto attorno a sè, tutta Tar Azyl che
dormiva e sognava. Queyar piangeva forte, una brutta smorfia sul viso, lacrime
che scendevano giù grosse e abbondanti, qui nel centro della sala grande dove
nessun altro si era mai permesso di piangere, nemmeno nel momento più buio della
notte. Non erano bei sogni. Nessuno di quelli che sentiva era un bel sogno, un
sogno di pace e contentezza. C'era sempre qualcosa di sbagliato e di storto,
come se attorno a lei centinaia di persone il cui volto familiare era
stranamente distorto si aggirassero in cerca di qualcosa, piangendo
sommessamente nel buio, senza vederla e senza sapere che era lì, ma tendendo le
braccia in cerca di aiuto, scontrandosi a caso l'uno con l'altro, incapaci di
toccarsi, incapaci di trovarla. Nel centro della sua casa, Queyar sentiva di
essere più debole di tutti loro: di essere assediata dalle loro infelicità
confuse, di essere vulnerabile ad ogni loro incubo. Non poteva fare niente per
loro, nè dargli quello che volevano, nè regalargli la rassegnazione. Non poteva
nemmeno consolarli. Non poteva guarire le loro anime. Poteva solo provare pietà
per loro, una pietà disperata, una pietà spietata, straziante, per il dolore
nascosto e sotterraneo della sua gente, dei soldati della Cirte, dei difensori
dell'Ordine nell'universo. Per quella gente così severa e fiera nell'attività
diurna, e col cuore così spezzato di notte. E lei non poteva nemmeno sapere
perchè: non leggeva i loro pensieri; solo i moti scomposti delle loro menti, le
loro paure o le loro gioie - ma non c'era gioia quella notte a Tar Azyl, e se
c'era era sommersa e soffocata.
Avrebbero avuto paura di lei per questo,
Queyar lo sapeva: onore e paura vanno sempre assieme sulla Cirte, ma per lei la
paura sarebbe stata più grande dell'onore. Lei vedeva attraverso le loro
uniformi rigide e oltre le loro facce composte, lei conosceva i loro dubbi, i
loro desideri, tutti i loro cuori. Avrebbero avuto paura di lei e lei aveva
sempre desiderato fargli paura, ma non così, questo non sarebbe servito a
niente. Lei non voleva questo. Non voleva essere costretta a vedere quello che
di buono c'era in loro, di giorno e di notte, il loro dolore e il loro coraggio,
non voleva nè pietà nè ammirazione per loro. I suoi colleghi avevano messo
questa cosa dentro di lei per togliere all'universo la ferocia, per disarmare se
non le mani, almeno i cuori degli uomini. Ma non avevano cambiato nulla: tutto
quello che avevano ottenuto era di rendere quelli come lei indifesi. Come
avrebbe potuto sopravvivere, fuggire dalla Cirte e dalla loro mano di ferro?
Come avrebbe potuto lottare, con questa pietà nel cuore?
"Non lo
meritate," disse piano, piangendo, con la faccia rivolta verso l'alto. "Non ve
lo meritate tutto questo! Non vi meritate la pietà di nessuno, siete degli
assassini! Avete depredato la Galassia, messo a ferro e fuoco le case di gente
pacifica per portare dovunque questa notte di ghiaccio così piena di dolore! per
mettere la vostra paura dentro ognuno e dentro ognuno la paura di voi... voi non
meritate pietà, meritate una guerra senza tregua, senza misericordia, senza
fine! Voi meritate l'odio di tutti i giusti! "
Si voltò e scappò
via, giù nella farmacia, compose con mano ferma le combinazioni e aprì con furia
gli sportelli, cercando fra le scatole di vetro quella che conteneva il
repressore. Inghiottì la pastiglia senza acqua, e la pallina ruvida le si fermò
in gola, con un senso di bruciore. Appoggiò la scatolina su un ripiano, con
dolcezza, e si sedette su una sedia. Ricominciò a piangere, ma questa volta
erano lacrime calme e silenziose. Era già pentita di avere preso il repressore.
Sulla scatola c'erano grosse avvertenze severe, e lei sapeva che non avrebbe
potuto tenere a lungo la sua mente oscurata con un farmaco. Avrebbe dovuto
imparare a controllarsi, a chiudere di sua volontà le porte della coscienza
davanti alle urla della vicinanza di molte persone. Ma anche quando non lo
avrebbe avvertito, la sua mente avrebbe ascoltato comunque.
"Ma non
èforse quello che succede a tutti?" mormorò piano piano, fra sè, come per
convincersene meglio. "Anche senza l'empatia fisica, in fondo tutti sappiamo
cosa provano gli altri. Loro lo sanno cosa vuol dire essere picchiati, e
terrorizzati, e uccisi. Fanno solo finta di non sapere."
Il repressore
cominciò a fare effetto, una coltre di nero ottundimento sulla sua mente. Non
era una cosa gradevole. Ora attorno a sè sentiva davvero silenzio, ma era un
silenzio lugubre, come se tutti a Tar Azyl fossero morti. Queyar si alzò e si
accorse di essere gelata. Doveva avere le labbra blu. Cominciò a tremare
violentemente, ma non riusciva a camminare abbastanza in fretta verso la sua
camera e il suo letto. Sono troppo debole, pensò, chiusa nella disperazione. Non
riuscirò a combatterli. Non riuscirò a scappare. Con la compassione prima o poi
arriverà l'amore, ed èquello che tiene qui mio fratello. Perderò la battaglia
come ha fatto lui, e cosa accadrà di me?
Infilandosi dentro la porta,
Queyar sentì il respiro di suo fratello dal letto sopra il suo, il respiro e
nessun altro rumore. Era un respiro calmo e regolare, ma non sapeva se lui
stesse proprio dormendo. Le assi del letto cigolarono quando si distese, per
quanta cautela usasse. Per un attimo seguì il silenzio e Queyar pensò di essere
stata molto brava e silenziosa. Poi la voce di suo fratello, completamente
sveglia, disse dall'alto:
"Dove diavolo sei stata? Sono ore che sei in
giro."
Queyar rilasciò il respiro.
"Avevo fame," riuscì a dire,
ma la gola strozzata fece uscire una voce tremula e piccina.
Suo
fratello non fece domande sul suo tono di voce. Suo fratello non faceva mai
domande di questo tipo, come ti senti, cosa c'è che non va. Queyar chiuse gli
occhi e si rannicchiò cercando di scaldarsi, ma non ci riusciva. Aveva freddo e
fame, si sentiva infelice, la gola le bruciava e ora anche lo stomaco. Il
repressore andava preso a stomaco pieno. Tirò su col naso un'ultima lacrima.
"Non hai preso da mangiare?" chiese Hayderad, calmo. Queyar non sapeva
come faceva a capirlo.
"No," disse. "C'era Vayles in cucina."
Ci
furono movimenti furtivi da sopra di lei. Suo fratello scese senza il minimo
rumore o scricchiolio.
"Aspetta," bisbigliò. Queyar vide per un momento
la sua sagoma nel chiarore quando aprì la porta per scivolare fuori: un ragazzo
alto e robusto, che dimostrava più dei suoi anni. Allungando una mano Queyar
tirò su il tappetino che stava ai piedi del suo letto e se lo tirò addosso, nel
tentativo di trovare un po' di tepore. Suo fratello, riflettè, era più forte di
lei. Era capace di cavarsela meglio di lei - era un soldato, era addestrato a
cavarsela: a tirare avanti e a sopportare, a sopravvivere, qualunque cosa
accadesse. Chissà, forse faceva solo finta di avere assunto i loro abiti, di
avere vestito, dentro e fuori, la loro uniforme. O forse era sincero e la sua
era davvero la strada giusta. Forse sarebbe stato infelice, ma forse no: gli
avrebbero insegnato a non avere rimorsi, e avrebbe dormito tranquillo, anche
dopo avere ucciso. Lui sarebbe sopravvissuto, un assassino, ma vivo. Lei sarebbe
impazzita - lo sapeva che sarebbe successo. Molti empati impazziscono. Molti si
uccidono. Lei avrebbe perso perché non aveva più la capacità di odiarli.
La porta tornò ad aprirsi e a chiudersi. Queyar sentì suo fratello
inginocchiarsi accanto al suo letto, creando un piccolo spostamento d'aria che
avvertì sul viso. Sentì odore di biscotti e di acqua di pietra. Sorrise.
"Mangia senza fare briciole," avvertì suo fratello. "E lecca bene la
scodella, èquella dell'acqua, non si devono accorgere che ci abbiamo messo
qualcos'altro."
"Grazie," disse Queyar con la bocca piena.
Hayderad risalì sul suo letto, e rimase sveglio a lungo ad ascoltare i
piccoli rumori di sua sorella che mangiava, e poi la sentì smettere di muoversi
e il suo respiro cambiare. Lui non riusciva a dormire. La sentiva respirare e si
chiedeva perché avesse pianto. Forse lo faceva ogni notte. Forse stava sveglia a
piangere mentre lui dormiva profondamente perché l'addestramento lo sfiancava,
piangeva di nascosto per non demoralizzarlo. Aveva voglia di tendere una mano e
toccarle i capelli, ma non voleva svegliarla. Sapeva che era infelice, sapeva
che era diversa. Aveva paura per lei e di lei. Ma la conosceva come nessun altro
al mondo e sapeva che era solo lei a tenerlo vivo. Non avrebbe potuto andare
avanti senza la sua forza quando si sentiva così perso e così inadeguato.
La sentiva respirare un po' sibilante, leggera come il vento, e come il
vento invincibile.
23 Aprile - 1 Maggio 1988
©Copyright
Anna Feruglio Dal Dan.