Nauria Dioli era entrato nell’Esercito Imperiale per vocazione e per
necessità.
La necessità e la vocazione scaturivano dalla stessa fonte, se
ci si può permettere questa metafora pradossale - le rovine, lasciate dal fuoco,
della sua casa e dei campi che la circondavano. Nauria Dioli ricordava bene
l’incendio - d’altra parte era stato uno spettacolo difficilmente dimenticabile
- ma non aveva memorie altrettanto precise della sua famiglia e della sua casa
com’erano state prima dei Disordini. Sapeva che la sua non era stata una casa
ricca e nemmeno molto felice. Non la rimpiangeva. Con otto fratelli, la casa e i
campi bruciati, e tutto il generale sconquasso dei Disordini, non aveva avuta
molta scelta: unirsi ai pirati o arruolarsi. I pirati non lo avrebbero preso
comunque - non aveva mai visto un’astronave e quella non era gente che perdeva
tempo nell’addestrare degli apprendisti - ma Dioli d’altra parte non aveva
nemmeno considerato l’opzione.
A volte gli sembrava che il fuoco avesse
cancellato nella sua memoria il volto di sua madre, dei fratelli e sorelle con i
quali di certo aveva giocato e lavorato; la voce aspra di suo padre - tutto
quanto: e avesse lasciato solo il ricordo delle fiamme, della paura, del freddo
e del fango nel fosso dove si erano rifugiati mentre due eserciti, delle cui
ragioni tutti loro erano ignari, si combattevano sulle loro terre. Quando tutto
era finito un gruppetto di soldati in armatura aveva scoperto la famiglia nel
fosso e il loro capitano, che forse aveva lui stesso una famiglia da qualche
parte persa nei Disordini, li aveva fatti venire fuori, sfamati con razioni
militari e rincuorati con una fiaschetta di liquore Correlliano, azzurro
brillante e dall’esplosivo potere confortante. I soldati che erano sembrati
formiche meccaniche con i loro elmetti addosso si rivelarono normali esseri
umani una volta toltili, in possesso di oggetti magici come comlink che
raggiungevano le navi Imperiali in orbita, e fulminatori per tenere a bada i
lothias quando si avvicinarono nelle tenebre, e, appunto, fiaschette di liquore.
Il capitano aveva una bella voce, profonda e salda, e occhi amichevoli, e non
gridava mai, eppure i suoi uomini saltavano in piedi quando lui dava un ordine.
Dopo la battaglia e il fuoco e il terrore Dioli scoprì l’efficenza e la
disciplina che danno un ordine al mondo, e un tipo di autorità diverso da quello
di suo padre. Niente gli aveva dato l’impressione che ci fosse qualcosa di
oscuro o di malvagio dietro, o sopra, od oltre quelle armature
bianche.
Ora oltre vent’anni erano passati dai Disordini e Dioli non li
aveva mai chiamati in modo diverso. Aveva trentatré anni, ma ne dimostrava di
più. Aveva dei comuni occhi castani e degli altrettanto comuni capelli, un
pochino ingrigiti, e un bel sorriso, quando sorrideva. Non sapeva di stare
combattendo la stessa guerra di allora. Non sapeva che il nemico era lo stesso.
Non sapeva nemmeno chi era il nemico. Li chiamava ribelli e questo li definiva:
non sapeva niente della Repubblica. In perfetto candore, non sarebbe mai
riuscito a immaginare le loro ragioni, la loro storia, i loro ideali. Le sue
mani si muovevano sui comandi del TIE con delicatezza e abilità che tradivano un
lungo e complesso addestramento, ma l’Accademia non gli aveva mai insegnato
nulla oltre alla tecnica della navigazione e la disciplina. L’idea stessa di
studiare storia o letteratura o qualcun’altra di queste sciocchezze da civili in
un’Accademia militare lo avrebbe indignato.
Eppure qualcosa di molto
simile alla poesia toccava la sua anima in questo momento. Piccolo, immensamente
manovrabile, il TIE precipitava libero e glorioso attraverso lo spazio, attorno
a lui tutto nero e bianco, pieno di stelle. Andava a compiere la missione più
disperata della sua vita, forse a morire, ma non poteva smettere di provare
ancora adesso, dopo tanto tempo passato nello spazio, quella sensazione di
euforia e commozione, quella voglia di cantare forte nella cabina piccola e
luccicante di spie luminose, cantare la gloria dell’Universo e la grandezza
dell’uomo, cantare la prefezione meccanica e l’ingegnosità dello scafo che lo
portava, la precisione con cui i motori ionici gemelli rispondevano al suo
tocco, e come questa cosa piccola e fragile fosse grande e splendida come il
cielo stellato che la ospitava, tanto più vasto. Celebrare quello che aveva
ammirato e servito con fedeltà e dedizione per tutta la vita - la grandezza e la
gloria dell’Impero.
La nave di Alderaan era dietro di lui e l’aveva
visto. Dioli sapeva che lo avrebbero inseguito e abbattuto. Forse aveva capito
che sarebbe andata così fin dal principio.
Quando Death Star era stata
attaccata Dioli non era stato chiamato a far parte delle squadre che tentavano
di respingere gli aggressori. Era rimasto per un bel po’, quindi, a passeggiare
nervosamente davanti ai tre TIE che componevano la sua squadriglia, mentre Gage
e Dhal, gli altri due piloti della quattordicesima pattuglia del quarantesimo
stormo, se ne stavano seduti con la schiena contro una paratia, senza gli
elmetti, augurandosi che al loro capitano non venisse la malaugurata idea di
insistere per andare fuori a combattere. Infine era andato ad offrirsi come
volontario per combattere gli incendi. Il suo amico e vicino di dock,
capopattuglia della sesta, capitano Rainan, non ebbe altra scelta che, a
malincuore, seguirlo - doveva mantenere il rispetto dei suoi uomini - ma non gli
serbò rancore. Conosceva Dioli da dieci anni e sapeva che non era piaggeria o
fanatismo che lo spingevano. Quelli come Dioli secondo Rainan finiscono sempre a
combattere le fiamme, quando, peggio, non finiscono sotto il fuoco nemico.
Cadono nel tentativo di mantenere le postazioni, danno generosamente la vita per
strappare al fuoco donne o bambini o anche uomini di mezza età perfettamente in
grado di salvarsi da soli, e in generale si fanno fregare per il proprio
prossimo, di solito senza che qualcuno li ringrazi. Perfetto materiale per
l’esercito. Per qualunque esercito.
Rainan aveva sempre il suo daffare a
tirare indietro Dioli, a dirottare il suo zelo, e a cercare di salvare nello
stesso tempo la sua propria pelle. Ma gli voleva bene. In fondo, era stata
spesso proprio l’incoscente generosità di Dioli a permettere a lui e alla sua
pelle di tornare indietro. Sopravvissero anche all’attacco a Death Star, e in
questo furono molto più fortunati di alcune migliaia di Imperiali e di ribelli,
quello stesso giorno. Mentre tornavano in un ascensore gremito verso i dock,
Rainan sentì qualcuno bisbigliare che era stata l’Alleanza, che questa era la
prima volta che si erano presentati così bene organizzati, non era stata una
bella sfiga trovarcisi in mezzo proprio stavolta? E, quasi quasi, meglio i
pirati correlliani. E un altro, che dava le spalle a Rainan e parlava molto
piano, disse che aveva sentito dire da un ingegnere che avevano trovato il
computer centrale manomesso, sì qualcuno a quanto pare era penetrato fin lì.
Magari nella confusione aveva approfittato per farsi cambiare l’assegnazione… o
cose del genere.
Rainan non credeva che questo fosse il caso. Sbirciò
verso Dioli per vedere se aveva sentito, ma Dioli sembrava profondamente immerso
nei suoi pensieri. Il suo umore era cambiato, dopo il coraggio e la fermezza con
cui si era comportato su al ponte venticinque, davanti al fuoco. Quando uscirono
dall’ascensore in una delle centrali di smistamento del personale, gli
altoparlanti avevano cominciato a chiamare a raccolta gli ufficiali superiori e
i comandanti delle squadriglie e Rainan annusò guai. Diede una gomitata a Dioli
che stava proseguendo soprappensiero verso gli ascensori dei dock.
"Di
qua, scemo," disse.
Dioli annuì e lo seguì mitemente. Rainan disse, a
bassa voce: "Hai sentito quelli nell’ascensore?"
"Cosa?"
"Hai
sentito quello che hanno detto? L’Alleanza è entrata nel computer
centrale."
"Ah sì?" disse Dioli distratto.
"Nauria, quelli si
sono presi i progetti, secondo me. E appena tornano, noi siamo fottuti. L’hai
sentito anche tu quello che ha detto quello del Genio, questa stazione è piena
di buchi e di falle, ogni appaltista c’ha guadagnato sopra, un siluro protonico
e siamo tutti per aria. Dobbiamo andarcene di qua, farci assegnare da qualche
altra parte."
Dioli voltò la testa e disse, con una delle sue uscite
sorprendentemente, brutalmente realistiche, che facevano sempre sì che Rainan
riconsiderasse la sua opinione su di lui: "Delius, questa è l’istallazione
militare più segreta di tutto l’Impero. Da qui, finché la stazione non è
operativa, si esce solo coi piedi in avanti."
Rainan rimase in silenzio.
Dioli aggiunse: "Sarei a casa se potessi, Delius."
Rainan chinò la testa,
ed entrò nella sala istruzioni senza più fiatare. Dioli aveva una moglie e un
figlio in arrivo - Rainann aveva visto una volta un ologramma della moglie, una
donna piccola e tonda che aveva fatto il controllore di terza classe sulla linea
dei mondi Chaffe fino a che l’Impero non aveva chiuso i voli civili. Rainan non
aveva famiglia.
Il loro posto nella sala istruzioni era in una posizione
svantaggiata, sulle pareti di lato, proprio sotto lo schermo a losanga che ora
mostrava uno schema tattico. Rainan e Dioli si misero in riga assieme agli altri
capipattuglia TIE, un centinaio di uomini in divisa nera con il fiore bianco di
Death Star sul berretto. Finirono in prima fila perché erano tardi, e a Rainan
questo non piacque per niente. La disciplina era dura su Death Star e mettersi
troppo in vista era pericoloso. Scrutò con la coda dell’occhio - mantenendo la
prescritta posizione di attenti, sguardo fisso in avanti - gli ufficiali di alto
grado che si disponevano in tutta fretta in ranghi. Come aveva temuto, sotto il
tattico erano raccolti il comandante della stazione, il governatore Tarkin, con
tutto un codazzo di generali, e, quel che era peggio, la figura nera,
torreggiante e in questo momento terribilmente in collera di Darth Vader. Darth
Vader era un brutto affare, era Guai. La voce corrente era che fosse l’emissario
dell’Imperatore; ed era comunque chiaro che Lord Vader, anche se non
ufficialmente al comando della stazione, non obbediva di certo agli ordini di
qualcuno a bordo.
Il respiratore rendeva il rombo profondo e maestoso
della sua voce meccanico, ma non certo spassionato.
"Mi era stato detto
che questa stazione di battaglia schierava le truppe migliori dell’Impero,"
stava dicendo Vader in tono minaccioso, "e invece trovo solo vigliacchi e
incapaci al mio comando. Solo le pattuglie di caccia si sono comportate
valorosamente in questa battaglia," girandosi per un momento verso di Dioli e
Rainan, "mentre gli incrociatori stellari e la stessa fanteria imbarcata non
sono stati in grado di respingere l’attacco di una accozzaglia di pirati ribelli
male armati e disorganizzati."
Gli ufficiali che portavano le insegne dei
corpi incriminati divennero pallidissimi e uno o due di loro vacillarono sulle
gambe. Il grado elevato non era affatto protezione contro la collera di Vader. E
la collera di Vader poteva essere senza limiti.
Dioli - come molti altri
fra i piloti di TIE - non stava tremando. Vader era stato - certo molto, molto
tempo prima - uno di loro, un pilota da caccia, e tuttora accadeva che
combattesse personalmente. (Lo aveva fatto anche quel giorno, e in quel momento
lo rimpiangeva amaramente. Era certo che se fosse stato presente nessuna lurida
spia ribelle sarebbe riuscita a mettere le mani sugli schemi tecnici della
stazione.)
"E come risultato," tuonò, "agenti nemici sono riusciti a
sottrarre informazioni vitali per la sicurezza dell’Impero da questa stessa
stazione, cuore," e qui la testa senza faccia si rivolse, come per dare
un’occhiata malevola, ad uno dei generali del seguito di Tarkin, "della potenza
della Flotta Imperiale."
Vader mosse qualche passo per la sala, cercando
di frenare la propria furiosa indignazione. Qualcuno avrebbe pagato, ma non era
questo il momento.
Tarkin intervenne con la sua voce sottile e
contenuta, dal bell’accento aristocratico. Non c’erano scuse o giustificazioni
nel suo tono, ma sapeva, per aver conosciuto Vader a lungo, che i fatti,
presentati piattamente, erano l’unico modo per placarlo. Quella fra lui e Vader
era una vecchia alleanza, e Tarkin si sentiva ragionevolmente al sicuro, ma non
gli piaceva l’odio e la diffidenza che dividevano Vader dai suoi uomini.
"La flottiglia ribelle si è dileguata senza che nessuno sia riuscito a
tracciare la loro destinazione, ma almeno è stato impedito all’imbarcazione su
cui si trovavano i dati rubati di ricongiungersi agli attaccanti. Il generale
Veers la sta inseguendo."
"Voglio che ci sia qualcuno ad aspettare quella
nave dovunque sia diretta. Non possiamo affidarci interamente alla speranza che
la Flotta Imperiale la intercetti," rispose Vader, ma in tono impercettibilmente
più benevolo. "Tu sai bene quanto vitali siano quei piani."
Tarkin annuì
e si rivolse ad uno degli ufficiali schiarati davanti a lui. "Prendete un gruppo
d’assalto e stazionatelo sul pianeta che Veers vi indicherà. Se…"
"No,"
tuonò Vader voltandosi. "Smembrate il gruppo d’assalto nelle sue unità e
assegnatele al pianeta che sembra la destinazione più probabile della nave e a
tutti gli obiettivi secondari che possono essere individuati."
Tarkin
scrollò le spalle. "Fate come ordina Lord Vader."
Fu a questo punto che
davanti agli occhi increduli e inorriditi di Rainan Dioli fece un passo avanti e
disse: "Chiedo il permesso di partecipare all’azione, mio
signore."
Rainan si fece sfuggire un gemito sottile, e Vader si voltò di
scatto verso i ranghi dei piloti.
"Che cosa?" disse.
"Non faccio
parte del raggruppamento dell’ammiraglio Hage, signore, ma vorrei prendere parte
all’azione comunque."
Per un momento Dioli fronteggiò il volto
apparentemente cieco e illeggibile di Vader. C’erano molti altri che avrebbero
fatto qualunque cosa per evitare un’eventualità del genere, ma Dioli non tremava
e il suo sguardo era fermo. Dioli ammirava Vader, che ridotto a poco più di un
cervello nel servire l’Impero, abbandonato il suo nome - che nessuno più
conosceva - e ogni fedeltà del suo passato, famiglia, clan, pianeta: chiuso in
un’armatura per il resto della sua vita, costretto a respirare e parlare
attraverso una macchina, pure aveva continuato a combattere, ed era ancora uno
dei più grandi guerrieri dell’Impero. Ma sarebbe ingiusto e ingeneroso dire che
non aveva paura di lui: ne aveva, e solo perché era un uomo coraggioso, un
soldato leale, sosteneva il suo sguardo senza tremare.
Tarkin si avvicinò
e rivolgendosi a Vader disse: "Notevole, non è vero?"
"Sì." confermò
Vader. "Notevole." Dopo un attimo chiese: "Come ti chiami,
soldato?"
"Capitano Nauria Dioli, quattordicesima pattuglia del
quarantesimo stormo in forza a Death Star, signore."
Con un movimento
brusco dell’elmo nero e un gesto definitivo della mano Vader disse: "La tua
richiesta è accolta."
Rainan non seppe resistere, e girò la testa,
stupefatto, per guardare Dioli, anche se così doveva sciupare l’armonia dei
ranghi. Dioli era molto pallido. Fece un passo indietro e aspettò in silenzio -
ed era anche un silenzio interiore - che la riunione finisse, che la sala si
svuotasse, e un ufficiale venisse da lui ad affidargli un posto nell’hangar di
un incrociatore.
Rainan lo tratttenne afferrandolo per un braccio mentre
saliva sul suo caccia.
"Sei impazzito?" chiese.
Dioli liberò il
braccio bruscamente e senza rispondere se lo lasciò indietro.
Era stato
con un umore stranamente taciturno, e gesti stanchi, che aveva indossato
l’armatura nera del suo Corpo. Mentre saliva nella cabina del TIE, con le
vetrate davanti e dietro sé che sovrapponevano alla vista dell’Universo una
ordinata, armonica griglia esagonale, teneva gli occhi fissi sul cubo ormai
consunto e quasi opaco dell’ologramma scattato poco prima del suo matrimonio, e
che racchiudeva lui e Uusha, abbracciati. Era partito in collera con lei e ora
forse non l’avrebbe rivista. Nuaria Dioli non voleva lasciarsi dietro un orfano
e non voleva lasciare Uusha vedova, senza che quello che era stato detto prima
della sua partenza venisse ritirato o perdonato. Non voleva dover portare alle
loro famiglie la notizia che Gage o Dhal erano morti. Nuaria Dioli non voleva
combattere e non voleva morire. Nauria Dioli voleva tornare a casa, qualunque
cosa fosse che la sua casa offriva, in pace. Si era offerto volontario, e ora
partiva, solo perché sapeva di essere un pilota più bravo della media, molto più
bravo della media, e qualcosa in lui gli aveva detto piano e decisamente:
"devi".
Durante i diversi passaggi nell’iperspazio Nessuno lo informò di
come stava andando la caccia o di cosa potevano aspettarsi. Lui e i suoi uomini
giocarono a trina con le pedine rigate ma dai colori vivaci di Gage. Risero,
perfino.
Poi, nelle vicinanze di Teetetah, in pieno spazio, la nave che
inseguivano eseguì un rendez-vouz con un’altro scafo che uscì velocissimo
dall’iperspazio e immediatamente vi si rituffò.
La squadra si divise.
L’incrociatore Avenger si buttò a rincorrere la prima nave, e il Ruthless, su
cui trovavano, ignari, Dioli e i suoi uomini, inseguì il nuovo scafo - non più
di un minuscolo caccia ad ala-x, davvero un compito facile per un classe
Destroyer; una lotta impari. Eppure il comandante del Ruthless dovette
constatare con fastidio che il compito non era poi così facile. Inseguì il
caccia attraverso il primo balzo, ma a fatica perché la sua massiccia nave, così
agile nell’iperspazio, era pur sempre meno agile di un ala-x. E una volta
riemersi, non ebbe altra scelta che far uscire i TIE, che superavano solo in
numero il piccolo caccia. Il Ruthless seguiva quanto più vicino poteva, con il
suo comandante sempre più innervosito. Arrivò la notizia che l’Avenger non era
riuscito a catturare la nave fuggitiva perché si era autodistrutta. E Lord Vader
aveva ricordato personalmente al comandante del Ruthless quanto tenesse a questa
missione.
Dioli e la sua pattuglia facevano parte della seconda ondata.
Prima di lanciarsi Dioli tenne un piccolo consiglio di guerra, mentre tutti gli
altri piloti scalpicciavano attorno saltando dentro i caccia fra il frastuono
degli allarmi e delle istruzioni.
"E’ meno veloce di noi," disse Dioli,
"ma è un veicolo da spazio profondo e a meno che non glielo impediamo cercherà
di commutare nell’iperspazio. E’ più resistente, anche con un solo motore può
salvarsi, mentre se ad un TIE salta un alettone buonanotte. Quindi cercate di
beccare il corpo. E guardate che da quel che ho visto sullo schermo è pilotato
da uno che sa il fatto suo. E tu Gage, se sento che canti sulla radio questa
volta giuro che ti abbatto."
"Mi aiuta a concentrarmi,
capitano."
"Tu è sulle mie istruzioni che devi concentrarti. Ricordatevi
che ogni volta può essere l’ultima. Questa è una guerra e un solo ala-x è
pericoloso come cento. D’accordo?"
"D’accordo," dissero i due uomini
fingendo grande convinzione. Dioli scosse la testa e si imbarcò. In fondo,
pensò, quante erano state? dieci missioni fino ad ora. Pochi piloti di TIE
sopravvivono tanto a lungo, così, forse, lui aveva imparato il trucco. E aveva
sempre riportato indietro la pattuglia al completo, da quando era al comando.
La pattuglia calò giù obliqua sull’ala-x, provenendo dal lato opposto
all’incrociatore, ma non dritta sul muso, la direzione che Dioli considerava la
migliore date le circostanze (non c’era nemmeno una qualunque schifosa stella da
mettersi alle spalle). Il caccia ribelle non poteva emulare i rutilanti
contorcimenti dei TIE, ma nonostante questo, una volta passati, Dioli seppe che
non era stato colpito.
"E’ più veloce di quanto pensassi", fece la voce
di Dhal al suo orecchio.
"Dividiamoci," comandò Dioli. "Gage da poppa e
io e Dhal con scarto da prua. Vite e spirale, e tu Gage spezzata
random."
Le tre navi girarono su se stesse, con il loro bersaglio ormai
lontano, ridotto ad una stellina, e Dioli e Dhal accellerarono per poter
sopravanzare il caccia nemico. Dioli sentiva i veloci scambi fra i piloti che li
avevano sostituiti all’attacco:
"Staccati!
Staccati!"
"Cosa?"
"Ce l’hai dietro!"
"Cosa? "
Dioli
ascoltò, assorto e stupito. Gli ala-x erano caccia che conosceva bene, per
averli incontrati ancora in combattimento. Erano buone macchine, ma
infinitamente meno manovrabili di un TIE. Perciò per un ala-x mettersi a caccia
di un TIE non era facile. Farlo mentre ci si stava difendendo da altre dieci
squadriglie, Dioli non lo aveva mai visto fare e non lo avrebbe creduto
possibile se gli fosse stato raccontato.
"Staccati ! "
Dioli non
poteva seguire la battaglia altro che sul tattico, ma i suoi auricolari furono
invasi da un urlo di terribile disperazione subito troncato. Anche quello era
qualcosa che aveva già sentito.
"Noi o lui?" chiese con calma Dhal, una
voce quasi sussurrata.
"Noi," rispose Dioli. "Il capo nove. Al mio
segnale si comincia la picchiata."
Un’altro urlo, questa volta non
preceduto da nessuna schermaglia, interruppe i contatti.
"Merda, un
altro," disse Gage. "Quello ci sa fare."
"Quello è un assassino," disse
Dhal. "E ci farà fuori tutti quanti."
"Non distraetevi! " urlò Dioli.
"Ora ! "
Il TIE sembrò urlare mentre piroettava su se stesso, le stelle
che formavano una serie di righe di fuoco bianco attorno alla cabina, e Dioli
cominciò a precipitare alla massima velocità che un TIE poteva raggiungere nello
spazio aperto verso il suo bersaglio. La nave nemica aveva perso terreno
sull’incrociatore, secondo il suo tattico. Presto sarebbe stata a portata delle
batterie della Ruthless .
La squadriglia di Dioli si chiuse sulla nave da
due lati, con una manovra a tenaglia perfetta ed efficace. Solo che invece di
trovarsi davanti alla prua della nave nemica Dioli si trovò a fissare i quattro
fuochi azzurri dei motori dalla poppa.
"Cosa! " urlò. Stava già sparando.
Alla velocità a cui andava avvistare la nave nemica e oltrepassarla era
questione di frazione di secondi. E non si poteva cambiare manovra.
"Cosa succede? Cosa succede?" gridò Dhal. Ci fu uno sbuffo di fumo dal
caccia nemico, un colpo andato a segno, ma non sufficente a danneggiarlo
gravemente. Dioli stava pensando ad altro, mentre già l’ala-x rimaneva alle sue
spalle.
"Gage!" gridava. "Quattordici due, quattordici due, mi senti?
Gage, per l’amor del cielo rispondi! Gage! "
"Ha virato!" urlò Dhal.
"Quel figlio di puttana ha invertito la rotta!"
"Hai Gage sul tuo
schermo?"
"No!"
"Gage questo è capo quattordici, fatti avanti,
Gage, rispondi ! "
"E’ andato, vero?" disse Dhal, recuperando subito
l’imperturbabilità che Dioli gli aveva sempre tanto invidiato.
"Doveva
distrarlo di poppa, e si è trovato di fronte quattro cannoni," disse Dioli. "E
non risponde."
"Ma perché ha virato quello stronzo? Così va incontro alla
nave." Ci fu un attimo di silenzio e poi Dhal e Dioli esclamarono assieme: "La
nave! "
"Quello sta per attaccare un incrociatore stellare!" completò
Dioli.
Ora la battaglia era di nuovo in vista. Dioli e Dhal stavano
incrociando in alto sopra la Ruthless e il caccia nemico. La piccola nave
ribelle non stava nemmeno sparando - e a cosa sarebbe servito? La Ruthless aveva
gli scudi alzati - e passò oltre i cannoni di prua e oltre le batterie sullo
scafo, sorvolò la grande testa di freccia bianca dell’incrociatore, e si
allontanò di poppa.
"Bella manovra," disse Dhal.
"Ma non è
finita," rispose Dioli fra i denti.
Dalla nave qualcuno stava dando
istruzioni in tono calmo. "Squadriglie uno-nove, squadriglia aggregata
quattordici, rientrate in formazione. Appoggiate le batterie di
poppa…"
"No!" urlò Dioli. "NO, no! Via dalla nave! Andate via dalla nave!
"
"Capo quattordici, sei impazzito! Obbedisci immediatamente agli ordini!
Subito !"
"Allontanatevi dalla nave! Sta per esplodere, andate
via!"
"Capo quattordici! Ti mando davanti alla corte mar…"
Ci fu
un lampo accecante, silenzioso, e l’incrociatore imperiale Ruthless scomparve in
una palla di fuoco, di frammenti metallici e di molte esplosioni più piccole
laddove i caccia TIE raccoltisi in formazione attorno ad esso venivano raggiunti
da frammenti della nave e saltavano a loro volta.
"Siluri protonici,"
disse Dioli laconicamente.
"Siamo… siamo senza più base,
capitano."
"Lo so," disse Dioli distrattamente, seguendo la traiettoria
della nave nemica. Stava allontanandosi.
"Non
possiamo…"
"Possiamo seguire il nemico. Chiudi, Dhal. Segui la mia
manovra."
Dhal ubbidì in silenzio. Dioli accellerò quanto poteva,
mantenendosi entro quella che sperava fosse una zona cieca del tracciatore
nemico. Erano visibili sul tattico, naturalmente, ma con tutti i frammenti e
detriti della zona, forse li avrebbe presi per pezzi di incrociatore. Due TIE in
formazione stretta, che manovravano in sincronismo, potevano ben passare per un
grosso detrito.
Dioli inquadrò la nave nemica nel tracciatore, e poi,
ripensandoci, attivò il piccolo raggio trattore che serviva a farsi trainare
nell’iperspazio.
"Accendi il trattore," disse al suo
compagno.
"Capitano, non vorrà seguirlo nell’iperspazio!"
"L’ho
fatto altre volte."
"Ma è un suicidio!"
"Non se ti tieni allineato
in posizione di minimo sforzo. Coraggio soldato. Accendi il
trattore."
Dhal obbedì, e in quel momento la nave davanti a loro si rese
conto di quello che era successo. Cercò di scrollarseli di dosso, ma era troppo
tardi. Dioli vide l’ala-x avvicinarsi, e gridò esultante: "Fuoco! Fuoco a
volontà sul bersaglio! Lo teniamo!"
Dai due TIE partì una serie di
scariche di energia, e per quanto il caccia nemico si divincolasse nella morsa
dei raggi trattori, era chiaro che presto o tardi un colpo sarebbe andato a
segno. Il pilota nemico fece allora quello che Dioli stesso avrebbe fatto al suo
posto: si preparò a commutare nell’iperspazio.
"Oh no," gemette Dhal. Ma
Dioli rimase in silenzio, concentrato, le mani sui sensibilissimi comandi dei
due motori. Tutto d’un tratto, l’universo attorno a lui cambiò, le stelle
fuggirono tutte alle sue spalle e avvertì il tipico rovesciamento di stomaco di
un salto a velocità luce affrontato male.
"Non ce la faccio!" urlò Dhal.
"Sto mollando!"
"Tieni in linea!"
"Non posso! Non riesco a
governare! Capitano! Capitano mi aiuti! Sto per perdere la presa! "
Tutto d’un tratto ci fu silenzio, e Dioli rimase da solo. Non vedeva la
nave davanti a sé a cui era ancorato, e dalla radio venivano solo statiche.
"Dhal?" disse, esistante. Ma non ci fu risposta. Dioli sapeva quello che
era successo - quello che sarebbe successo anche a lui, da un momento all’altro,
se il suo raggio trattore non teneva. Dhal si era sganciato ed era stato
lasciato indietro, perso in una frazione di secondo in un qualche punto
dell’iperspazio, senza più la possibilità di uscirne. Dioli si passò una mano
guantata, senza rendersene conto, sull’elmo. Un brutto modo di andarsene.
Meglio, mille volte meglio esplodere come Gage, un attimo e poi basta… Un attimo
e poi basta, ma Gage era morto comunque, e anche Dhal, e lui, lui che speranze
aveva? Contro questo nemico diabolico, il più abile che avesse mai
incontrato?
Poi ci fu un pop! quasi inavvertibile e il TIE piombò di
nuovo nello spazio normale. Era uscito, sano e salvo. Era uscito
dall’iperspazio!
Fuori, lo accolse la consueta morbida, totale oscurità
dello spazio scintillante di soli, e davanti alla prua la curva maestosa e
lucentissima di un pianeta. Era un pianeta avvolto dalle nuvole, ma qua e là si
intravvedeva terra o mare - abbastanza da poter capire che era un luogo
ospitale, non una serra infernale né un deserto arroventato né una palla di
ghiaccio. E fra lui e il pianeta, veloce quanto lo permettevano i motori stanchi
del caccia ribelle, il suo nemico. Non lo aveva seminato. Era ancora lì, era
ancora in caccia.
Dioli controllò con un’occhiata gli strumenti. Un TIE
non è fatto per passare attraverso l’iperspazio se non in caso di estrema
emergenza, e gli strumenti urlavano di fatica meccanica e sovraccarico e
surriscaldamento - ma erano ancora tutti d’un pezzo, lui e la nave. E il suo
nemico, anche con una nave migliore e più robusta, stava finendo il carburante:
Dioli lo vedeva da come si muoveva, cercando la traiettoria di rientro migliore.
I cieli, a parte lui e il suo avversario, erano vuoti. Il pianeta era deserto
sui suoi sensori. Dove si aspettava di trovare aiuto? O era solo la disperazione
a spingerlo in questo posto senza nome?
Dioli sospirò e abbassò il
mirino automatico. Stava per fare una cosa che non gli piaceva. Davanti a lui,
col rischio di incontrare l’atmosfera senza carburante per frenare e finire in
cenere, il suo nemico era indifeso e impotente - il suo nemico abile, e
valoroso. A Dioli non piaceva ammazzare qualcuno che non si può difendere - però
anche questo è il compito di un soldato, a volte. Prese la mira e fece fuoco. Il
plasma solcò lo spazio nero illuminandolo per qualche secondo, lasciando tracce
luminose residue sulla retina di Dioli. Prima ancora di avere riacquistato la
vista, Dioli si lasciò sfuggire un verso di delusione. Il computer di puntamento
lo avvertì che il bersaglio era stato mancato.
Dioli annuì nel suo
elmetto nero. Il suo avversario era davvero un gran buon pilota, e con i nervi
saldi. Aveva aspettato l’ultimo istante e aveva effettuato una manovra
d’evasione efficente ed economica. Dioli aumentò la potenza dei due motori -
un’altra sirena di aggiunse alle altre - e ridusse la distanza. Non voleva
correre altri rischi. Questa volta il caccia nemico non poté evitare
completamente il colpo. Uno dei quattro motori scomparve, e la navicella perse
il controllo, cadendo a vite giù verso il pianeta, con Dioli dietro, veloce,
troppo veloce, verso il mondo che si ingrandiva precipitosamente. Dioli con un
tuffo al cuore si riprese dalla sua contemplazione feroce del nemico. Spinse da
parte il mirino con un gesto quasi di panico e colpì col pugno il sistema di
rientro di emergenza - se non era troppo tardi, se non era già troppo tardi, se
non era già troppo veloce, se la gravità non lo aveva già catturato in un’orbita
fatale…
Dioli chiuse gli occhi istintivamente, e mentre le sirene
d’allarme urlavano e la decelerazione lo tirava brutalmente in avanti affidò la
sua vita ancora una volta ai circuiti del TIE. E ancora una volta il TIE non lo
tradì. Per qualche minuto, cullato dall’assenza di gravità, Dioli rimase a
galleggiare nella cabina buia, in orbita stabile. Poi aprì un occhio e spiò la
situazione. Tutto era calmo, tutti i valori normali, tutte le luci che dovevano
essere verdi erano verdi e tutte le luci che dovevano essere bianche erano
bianche. Dioli guardò in giù, sul pianeta, con l’ausilio dei sensori, che
spiegavano il pianeta in poiezione conica su uno schermo e tracciavano la rotta
della nave nemica e il punto in cui si era andata a fermare. Dioli tracciò e
seguì in tutta fretta una rotta che lo portasse più o meno nei paraggi. Il
pianeta si ingrandì, questa volta in modo meno allarmante, e Dioli si trovò a
sorvolare una foresta.
Acqua e roccia tracciavano disegni sinuosi fra
alberi color ruggine e oro e rosso vivo, disegni che solo Dioli, dall’alto,
poteva vedere e ammirare; e lui non ne aveva il tempo. I colori presero a virare
verso il verde tenero e poi il verde scuro mentre si avvicinava al luogo
dell’impatto, e per quanto Dioli continuasse ad augurarsi che no, che più di
così il terreno non si alzasse, presto anche i sempreverdi si diradarono e Dioli
si trovò fra nuvole e montagne. Un crinale si parò di colpo davanti alla
navicella, e Dioli fece una piccola capriola in aria e atterrò su un minuscolo
plateau innevato. La nebbia si chiuse su di lui. Dioli sospirò e chiuse di nuovo
gli occhi. Fortuna. Era sempre stato un uomo fortunato. In montagna. E con la
nebbia.
Si districò dalla cabina del TIE e poi si tornò a sporgere verso
l’interno per pescare fuori un rivelatore di massa e un fucile a plasma. Si
orientò, in piedi sulla neve. Il caccia ribelle era atterrato dall’altra parte
del crinale, a tre o quattro chilometri di distanza. Dioli si caricò il fucile e
il rivelatore a massa in spalla e si avviò. Il pilota ribelle era probabilmente
morto, ma anche se così fosse stato, c’erano sempre i nastri, i maledetti
nastri, da recuperare. E se il nemico non era morto, doveva raggiungere il
caccia ribelle prima che qualcuno capitasse in quel settore, qualcuno magari
dall’apparenza innocente, che raccogliesse i dati e si dileguasse. Per questo ci
voleva una trasmittente, e la trasmittente non poteva venire trasportata. Guasta
o no, era ancora sul caccia a X. E Dioli la doveva eliminare.
Il terreno
non era difficile come Dioli aveva temuto. Si teneva sul suo lato del crinale,
pensando che così poteva tenersi nascosto fino all’ultimo momento. Il destino
aveva voluto, per una volta favorendo Dioli, che fosse mattina in quel
particolare luogo del pianeta senza nome. Aveva tutto il giorno per arrivare al
caccia nemico e tornare indietro. Un paio di volte Dioli scivolò e diede origine
ad una piccola frana, che cadde verso valle e scomparve nella nebbia con un
rumore attuttito. Più oltre, superata una roccia che gli sbarrava il cammino,
Dioli si trovò inaspettatamente fuori dalla nebbia. Si fermò di colpo, il sole
che gli riscaldava l’armatura nera, e si tolse l’elmo. L’aria era fredda e
tranquilla, e attorno a lui si apriva un anfiteatro di roccia e neve, ai suoi
piedi una valle ampia e divisa in due da un corso d’acqua. Da qui poteva vedere
che non era nebbia quella da cui era uscito, ma una nuvola bassa. Dioli sorrise,
socchiuse gli occhi per un momento, e abbassando il riscaldamento dell’armatura
riprese il cammino. Un chilometro più oltre dovette ricordarsi di non
canticchiare. Era quasi metà mattina quando cominciò a risalire il crinale.
Ancora una volta, la fortuna fu con lui: la salita fu facile, di appiglio in
appiglio, e un varco lo lasciò passare benevolmente dall’altra parte della
cresta. La navicella era pochi metri più indietro. Il lato su cui si era
schiantata era in ombra e sorriso e voglia di cantare si spensero subito senza
che Dioli se ne rendesse conto. La neve era azzurra da questo lato, e ghiacciata
dove il vento aveva battuto. Infreddolito, si rimise il casco. La navicella era
ridotta molto male. Dioli corse. Lo sportello del caccia era abbassato ma non
bloccato, e il seggiolino del pilota era vuoto. La trasmittente era fuori uso,
senza dubbio - ma una fila di impronte serpeggianti e profondamente scavate
nella neve partivano da dove Dioli stava e si dirigevano…
Si dirigevano
indietro, verso la direzione che lui aveva preso, verso il suo caccia. E il suo
caccia aveva una trasmittente in perfetto funzionamento.
"Idiota!" si
gridò Dioli mentre si metteva a correre dietro alle impronte. "Stupido maledetto
fottuto idiota! "
Le nuvole tornarono ad inghiottirlo. Dioli correva
seguendo le impronte con il viso a un palmo dal terreno, ansimando. Da questa
parte il cammino era più difficoltoso, e un paio di volte pensò a ripassare il
crinale, ma quando alzò lo sguardo non vide altro che liscie pareti di roccia.
Il suo avversario era ferito - vide qualche macchia di sangue qua e là, e ogni
tanto alle impronte degli stivali si aggiungeva quella di una o di entrambe le
mani. Ma non si era fermato. Dioli lo maledì in silenzio, sempre arrancando
nella neve, maledì il coraggio del suo nemico e la cieca, tenace ostinazione che
lo aveva fatto continuare. Maledì sé stesso e la sua cecità, maledì il sole e la
valle serena che avevano rallentano il suo cammino, maledì la neve e il freddo
che lo ostacolavano, e mentre lanciava l’ultima maledizione mise un piede in
fallo e scivolò con un grido, con la faccia nella neve. Scivolò e rotolò e batté
la testa da qualche parte, e finalmente si arrestò contro un macigno, e rimase
lì intontito nella neve. Le feritorie dell’elmo mostravano solo soffice bianca
nebbia. Dioli chiuse gli occhi.
Qualcuno parlò nel silenzio della
montagna. Dioli si sforzò di sentire la parole, ma erano indistinte. La voce era
quella di una donna, una voce gentile e compassionevole. Dopo poco Dioli la
vide, fra la nebbia, l’immagine sfuocata e imprecisa che si faceva più netta man
mano che si avvicinava. Era una bella donna, con i capelli neri tagliati corti,
vestita con le lunghe, sobrie tuniche di alcuni vecchi civili che a Dioli era
capitato di incontrare. Ma questa donna che si chinava su di lui non era
vecchia, aveva un volto senza età, come nessun essere umano ha
mai.
Nauria, disse. Ma Dioli si sentiva troppo confuso per rispondere.
Nauria, svegliati, riprese la donna. Svegliati. Svegliati. Io non sono
tuo nemico. Ho visto nel tuo cuore. Tu sei un uomo buono e giusto e io non sono
tuo nemico.
Ma la sua voce si faceva lontana e disperata, e indistinta.
Dioli aprì gli occhi e vide di nuovo solo nebbia e neve. L’immagine era ancora
chiara solo nella sua memoria, di occhi viola e capelli neri, e una faccia
serena e gentile. Sentì un’ultima eco della voce, e poi più niente. Sbatté gli
occhi. Aveva sognato, allora. Sollevò con fatica gli occhi verso l’orologio
montato all’interno del casco: era rimasto incoscente per pochi minuti appena.
Si rimise in piedi con cautela e lentamente riguadagnò la cima della cresta. Si
sentiva ancora male, in preda a nausea e brividi, ma continuò a procedere
testardamente. Riprese le orme dove passavano il crinale, e scivolò dall’altra
parte con la testa che gli girava. Poco più avanti ecco lì sulla neve, dove
l’aveva lasciato, il suo TIE; e il suo nemico con la testa voltata verso di lui
ma un braccio ancora all’interno della cabina. Dioli si rimise in piedi
laboriosamente e imbracciò il fucile. Il suo avversario non era armato: non
aveva fulminatori a raggi o fucili a plasma, niente di niente, solo un cilindro
corto e tozzo allacciato alla cintura della tuta. Era stanco e mezzo morto di
freddo - a differenza di Dioli, non aveva un’armatura riscaldata ma solo la tuta
di volo di stoffa leggera e un casco da poco prezzo, ma fronteggiò Dioli
fermamente, e mentre questi esitava, impugnò il cilidro e lo strinse fra le due
mani, davanti a sé, divaricando leggermente i piedi. Dioli si lasciò sfuggire
un’esclamazione soffocata, non sapeva nemmeno lui stesso bene se di sorpresa o
di contrarietà. Una lama di luce intensamente azzurra era scaturita dalle mani
del suo nemico, che ora aspettava teso, il suo volto oscurato dallo splendore
della spada laser. Dioli spostò il peso da un piede all’altro. Una spada laser?
Contro un fucile a plasma? E lui doveva sparare? Fare fuori questo povero
disgraziato?
"Be’," disse, incerto. "Ma stiamo scherzando?" continuò,
incerto, cercando di alzare la voce.
Nessuna risposta dal ribelle.
"Oh avanti," disse Dioli in tono ragionevole. "Non c’è ragione di farsi
ammazzare, non ti pare? E’ stato un bel tentativo, ma adesso è andata, non è
vero? Tu hai fatto il tuo dovere, e anch’io. Siamo tutti due uomini d’onore,
no?"
Silenzio.
E nel silenzio, Dioli sentì, provenienti
dall’interno del suo TIE, gli inconfondibili fischi, sibili e schiocchi di una
trasmittente intersistema in azione. Il ribelle era ancora immobile dietro la
lama ronzante e luminosa. Dioli sentì con un tuffo al cuore che doveva
abbatterlo, che gli piacesse o no. Prese la mira bruscamente e sparò.
La
lama si mosse quasi troppo rapida per l’occhio umano, e la raffica di colpi
venne riflessa con una precisione impossibile. Poi il ribelle si rimise nella
posizione di partenza, senza dire una parola. Dioli indietreggiò di un passo.
Ora aveva paura. Aveva sentito delle voci sul nemico, ma ormai da anni aveva
deciso che erano tutte storie - da anni non aveva più sentito parlare di nemici
invincibili, capaci di muovere gli oggetti a distanza e sconvolgere le menti dei
loro avversari, capaci di affrontare un fulminatore con un raggio di luce ed
avere la meglio. Per qualche secondo Dioli e il ribelle si guardarono in
silenzio. Poi, con una forza di volontà che chiunque avrebbe ammirato Dioli
strinse i denti e avanzò. Il ribelle poteva abbatterlo ma finché avesse avuto un
filo di vita, anche si doveva battersi contro una forza sovrumana, Dioli avrebbe
continuato a combattere.
Solo allora il ribelle cominciò a parlare. Era
una voce molto vecchia, stanca e roca, ma ancora dotata di
potere.
"Fermati," disse. "Io non sono tuo nemico."
Per un istante
Dioli esitò nel suo progresso. Poi sbatte gli occhi, scosse la testa, e continuò
ad avanzare.
"Fermati ," ripeté il ribelle con una strana, nuova
profondità nella voce. Dioli sentì una invicibile sonnolenza invaderlo. Avanzò
ancora di un passo e si fermò. Non capiva cosa gli stava succedendo. Fissava il
ribelle, che ora aveva spostato la lama della spada laser da una parte e tendeva
verso di lui una mano. Non capiva cosa stava succedendo. Un’altra voce, questa
volta una voce lenta e molto profonda che Dioli conosceva bene disse:
Sta
usando la Forza su di te, soldato.
Dioli sbatté di nuovo gli occhi, e la
sonnolenza scomparve. La voce del Signore Vader parlò di nuovo.
Ma non è
che un principiante. La Forza non scorre in lei. Affidati a me e la
sconfiggerai.
Nauria guardò davanti a sé e vide che Vader aveva ragione:
oltre il visore di plastica arancione il viso che lo fissava con un sorriso era
quello di una donna, una vecchia, gli occhi chiari sepolti nelle rughe, e la
mano tesa verso di lui come quella stretta sulla spada laser era fragile e
tremante. Ma dal TIE continuava a venire il ticchettio della trasmittente, e
Dioli doveva fermarla. Doveva - a qualunque costo, a qualunque prezzo. Doveva
fermarla.
Si abbandonò alla voce che sembrava ancora echeggiare nella sua
mente, e sentì il potere attraversarlo feroce e terribile, e lui era come un
canale aperto, che convogliava tutta quella potenza senza condividerla.
Attraverso le sue mani, i suoi occhi, il suo corpo sfinito, combatteva una
Signore della Forza, grande e immortale, un Cavaliere Jedi - anche se questo
Dioli non poteva saperlo. La Forza era tutto attorno a lui, brillava nel gelo
della neve e rimbombava con la nebbia - ma non in lui. Non Nauria Dioli, padre e
marito e soldato dell’Impero, anima e spirito, anni trentatré, altezza media,
occhi castani e sorriso caldo - la Forza lo circondava e attraversava, ma
Nauria, in sé, non ne aveva.
Ci fu un vento tumultuoso, la foschia prese
a turbinare e disperdersi attorno a Dioli, e macigni pesanti parecchie
tonnellate volarono in aria. La donna smise di sorridere e si rimise in
posizione, qualcosa di simile ad un panico disperato sul suo viso. Le braccia di
Dioli si alzarono, mirarono e spararono ripetutamente, e fu come se Dioli
assistesse da fuori ad una lotta furiosa, impari e tragica. I proiettili di
plasma sembravano cambiare direzione in volo. La donna urlò una volta, e cadde.
Poi tutto cessò. Dioli corse in avanti nell’aria improvvisamente limpida,
nemmeno conscio della voce che era cessata, di essere di nuovo se stesso, e
nemmeno della trasmittente che continuava a funzionare. Corse vicino al suo
nemico, perché nonostante tutti gli anni di combattimento e il suo
addestramento, Dioli pensava ancora sempre prima agli uomini che alle macchine.
La donna era morta, piccoli fiocchi di neve depositati sul suo volto
dall’ultima folata del vento innaturale, la spada spenta e affondata nella neve
a pochi centimetri dalla sua mano destra. L’ultima espressione che aveva avuto
da viva era stata di totale disperazione. Dioli conosceva il suo volto. Passò
una mano guantata sulla sua faccia e le chiuse gli occhi, poi balzò verso la
trasmittente, dandosi dello stupido stancamente. Interruppe la trasmittente e
tirò un piccolo sospiro di sollievo. Si arrampicò dentro la cabina e notò uno
schermo acceso. Lo fissò con gli occhi sbarrati. Era troppo stanco e
infreddolito e scosso per provare ancora sorpresa, ma solo una specie di mortale
delusione. Non aveva ancora finito. Non aveva finito affatto. Sullo schermo un
puntino si muoveva seguito da numeri e codici: una nave, una grossa nave, in
orbita sopra di lui - e non era una nave Imperiale ma un trasporto civile, un
trasporto civile, un trasporto civile! Una nave di traditori! Una nave di
Alderaan, e Dioli sapeva quanta fiducia l’Impero aveva nella lealtà di Alderaan.
Se almeno Vader avesse potuto sapere. Dioli si voltò di qua e di là
nella cabina, senza sapere cosa fare. Forse il Signore era ancora con lui. Forse
no. Per quanto potente fosse - e Dioli aveva una fiducia quasi illimitata nel
potere del Signore Nero - si trovava a centinaia, forse anche migliaia di anni
luce di distanza. Doveva avere usato tutta la sua forza per raggiungerlo e
aiutarlo, e non che Dioli non fosse grato, ma se almeno, se almeno… se avesse
aspettato… certo, allora avrebbe anche notato che Dioli aveva perso alcuni
secondi preziosi per soccorrere un nemico caduto, una condotta poco militare, e
il genere di cose che Vader non avrebbe perdonato. Eppure…
Dioli prese
una decisione e sbatté lo sportello della cabina. Accesse in tutta fretta i
motori e decollò.
Cercava di tenersi nell’ombra del pianeta, dove la nave
di Alderaan non lo poteva vedere. Ma, a quanto pareva, ora la nave stava
accellerando per entrare in iperspazio, e stava venendo oltre l’orizzonte. Dioli
cominciò a preparare la capsula iperspaziale mentre registrava il messaggio.
Parlava con voce tersa.
"Qui è il capopattuglia Nauria Dioli,
quarantesimo stormo TIE in forza alla Stella della Morte, da sistema non
denominato corrispondente a stella G 66 UI 59 -JJY, Quadrante 76-L. Ho inseguito
e abbattuto caccia nemico tipo ala-X. Ho ragione di ritenere che prima di essere
eliminato il pilota di detto velivolo abbia inviato dati concernenti
installazioni militari segrete a trasporto civile di Alderaan di codice
ISRA-2-LO."
Dioli alzò la testa. Sapeva che la sua manovra evasiva non
aveva troppe possibilità di riuscita, ma nonostante tutto aveva sperato. Ma la
nave l’aveva notato, e stavano venendogli addosso. Si costrinse a rimanere
calmo, a trascurare ulteriori manovre per finire il compito che si era imposto.
Striscie luminose coloravano lo spazio accanto a lui, ma Dioli preparò la
capsula e memorizzò le coordinate della Stella della Morte senza lasciarsi
distrarre.
"Mi stanno inseguendo. Lancio questo messaggio e mi preparo a
cadere per il mio dovere e la gloria dell’Impero. Abbiate cura della mia
famiglia. Viva l’Imperatore!"
Ora vedeva nello schermo di poppa la prua a
martello della nave civile avvicinarsi velocemente. Sigillò la capsula e la
inserì nel tupo d’espulsione. Solo allora mise mano ai comandi, e il TIE si
sottrasse con una violenta, stretta virata all’ultima bordata che lo avrebbe
centrato. Dioli espulse la capsula e virò improvvisamente, per evitare che
qualcuno notasse la scintilla che si distaccava dal TIE e spariva
nell’iperspazio.
Qualcuno nella nave civile stava seduto ad un
cannoncino laser e seguiva freneticamente le evoluzioni del TIE, con la sua
cabina schiacciata fra i due esagoni vetrosi. Dioli cambiò ancora una volta
direzione disperatamente, ma il sapeva che il mirino computerizzato della nave
era più veloce di quanto lui potesse sperare di essere. Agli occhi del
cannoniere ribelle, lui era ora un bersaglio immobile.
Non si accorse di
niente. Un momento stava lì, sudando nella sua armatura nera, intento alla
manovra - e un momento dopo c’era solo una palla di fuoco e una raggera di
frammenti luccicanti, incandescenti, che esplodeva in silenzio, piovendo verso
tutto l’Universo. Fra gli altri frammenti, minuscoli pezzetti di quello che era
stato un ologramma, ciascuno che ancora riproduceva l’intera immagine
infinitamente piccola, viaggiavano attraverso lo spazio, portando con sé in
segreto una donna abbracciata ad un uomo in armatura bianca, i capelli arruffati
per essersi sfilato l’elmo e un sorriso assieme dolce e orgoglioso.
***
Il comandante della nave consolare disse, stanco e sollevato, soffice accento
di Alderaan nella sua voce:
"Sembra che quello fosse l’unico, Senatore
Organa… siamo fuori pericolo."
Il Senatore Organa era poco più di una
ragazza, e la durezza nei suoi notevoli occhi scuri non era ancora sufficente a
invecchiarla. Vestita di bianco, piccola e delicata ma già un soldato,
sorvegliava gli schermi della plancia sapendo cosa osservare e cosa ignorare. La
scheda su cui i dati erano stati registrati era stretta fra le sue mani, la
scheda per cui era morta Dhien. Era a quella che stava pensando, con disperata
speranza.
Ignorò totalmente la distruzione del TIE, e mai, in futuro, le
capitò di ricordarsene.
©Copyright Anna Feruglio Dal Dan.
Note:
Questo racconto ha vinto il primo premio (ex-aequo) al primo concorso letterario organizzato da Alliance a San Marino nel lontanissimo 1989. Caspita, e' il mio unico primo premio, permettetemi di vantarmene.
In quanto al titolo, deriva da un videogioco tramite il quale io e un mio amico abbiamo sterminato migliaia di piloti Imperiali in un'estate della nostra infanzia... poi, un giorno, ci siamo resi conto di quello che leggevamo sul nostro schermo quando il TIE che inseguivamo veniva bloccato (Locked!) e distrutto: GOT HIM! Him, e non it. E se, ci siamo chiesti, in una qualche dimensione parallela stavamo davvero facendo strage di incolpevoli Imperiali che, in fondo, non facevano che obbedire agli ordini?
© Copyright Anna Feruglio Dal Dan.