Massima entropia
1
La nave che era stata casa e patria - anche se temporanea - per
cinquantamila persone passava davanti al generale Arun Piet andando alla deriva
con gelida regolarità, un relitto senza vita, un ago di metallo contorto e
squarciato. Era difficile credere che fino a poco tempo prima fosse stata una
cosa viva e piena di vita. Piet la guardava, con una piccola smorfia, occultare
una stella dopo l'altra mentre scivolava all'indietro. Era un moto apparente;
sia il relitto che la cannoniera di Piet correvano a velocità elevatissima verso
lo stesso punto, all'infinito, affiancate come lo erano state fin dal momento
della resa - se resa la si poteva chiamare. Ma la nave del generale majet
accelerava lentamente per raggiungere la velocità di balzo, mentre il relitto
seguiva ciecamente una rotta senza meta, che avrebbe mantenuto per millenni
interi, ignaro e indifferente al suo carico di morti e alla tragedia che aveva
avuto come sfondo i suoi corridoi ora bui - e avrebbe proseguito fino a che non
sarebbe stato corroso dalle rade particelle che riempivano lo spazio
interstellare, o finchè non avesse incontrato un corpo celeste contro cui
schiantarsi per potere finalmente morire. Non era più una nave con un nome, non
più un luogo familiare a cui tornare con gioia, a cui pensare con nostalgia, da
chiamare casa, riparo - sicurezza. Era solo un corpo freddo e morto fra
migliaia di altri nel cosmo.
Piet si stava mordicchiando senza
rendersene conto i baffi. Avrebbe preferito riportare la nave sul pianeta
attorno a cui aveva orbitato, farla atterrare e lasciarla lì come un colossale
monumento alla vita e alla morte di quei cinquantamila uomini che avevano
resistito disperatamente, per giorni e giorni, combattendo contro la fame e la
sete prima che contro gli assedianti, senza speranza di vittoria, senza
possibilità di resa, fino alla distruzione completa. I majet non avevano avuto
clemenza, fino a che la Timo non aveva cessato di esistere. Ma non aveva poi
molto senso distruggere un popolo per poi fargli un monumento; e d'altronde Piet
era probabilmente l'unico nelle forze assedianti, majet e dauti, ad avere pietà
o a provare ammirazione per il coraggio disperato degli uomini e delle donne
della Timo. Sui ponti delle navi assedianti e giù, sul pianeta verso cui stavano
tornando, i suoi uomini festeggiavano e brindavano al massacro.
Piet si
voltò. Un po' più indietro, in piedi fra i suoi guardiani, un superstite della
Timo osservava la sagoma del relitto che si allontanava. La sua tuta era
annerita e lacera, la sua faccia coperta di lividi. Barcollava: ma non c'erano
nè terrore nè odio nè dolore negli occhi gelidi di Kaurit Aymer. I prigionieri
kaina che le navi assedianti avevano portato via dalla nave erano pochi, in
maggioranza bambini e vecchi. A chi domandasse cos'era successo degli altri,
degli uomini e dei ragazzi della Timo, Piet poteva offrire solo una risposta
secca e crudele: erano stati passati per le armi. Tutti: a centinania.
Forse per questo Aymer fissava Piet e la sua nave sconfitta con tanta
freddezza - pensò il generale - dopo tanti orrori, la disperazione diventava
inadeguata. Gli altri prigionieri kaina che aveva visto, però, gli erano parsi
spaventati quando, davanti alle telecamere, avevano detto al resto della
Galassia che erano trattati bene e umanamente. O forse era solo l'enormità della
menzogna; i vincitori si vergognavano troppo di quello che avevano fatto sulla
Timo per poter essere umani con i loro prigionieri.
"Fatelo sedere,"
disse Piet.
"Posso stare in piedi," disse il prigioniero. "E non ho
bisogno della sua cortesia, Piat."
"Si sieda!" scattò Piet, e
immediatamente se ne pentì. Non c'era senso nell'alzare la voce con quello
scheletrico e sconfitto kaina. Ma ormai Piet aveva perso da un pezzo i nervi
saldi che per i suoi soldati erano diventati proverbiali.
Le guardie
procurarono una sedia e costrinsero Aymer a sedersi. Piet guardò per l'ultima
volta la Timo andare alla deriva e poi disse:
"Dicono di lei, Aymer, che
sia il più grande storico kaina."
"Psicostoriografo," corresse Aymer
freddamente."Sì, èesatto. E' per questo che mi avete voluto vivo?"
Il
kaina guardò il relitto alla deriva. Andava sempre più veloce e stava per uscire
dall'oblò.
"Che cosa volete da me? Informazioni?"
Piet si morse
di nuovo un angolo dei baffi.
"Non ve ne darò."
"Si rende
conto," disse Piet, irritato dal tono, " che tutta questa gente èdisposta a
farla a pezzi a mani nude? Non faccia lo stupido, Aymer! Il suo eroismo non
servirà a nessuno. Non più."
Il prigioniero rimase in silenzio, i suoi
occhi ancora fissi sul relitto, e Piet sospirò.
"Ho trovato degli
appunti nel suo ufficio all'università. Non sono uno psicostoriografo, ma
conosco un po' di matematica - in fondo, sono uno stratega e la teoria èla
stessa."
A questo punto, Aymer sorrise. Era un sorriso che esprimeva un
certo asciutto, spietato trionfo.
"Lo sa, allora."
Piet non
rispose subito. Si rivolse alle due guardie e disse con quieta fermezza, in
majet:
"Fuori, voi due."
Mentre quelli uscivano, Piet cercò per
l'ultima volta la nave. Ma era scomparsa.
"Sì, lo so," disse alla fine,
con una sfumatura di sfida nella voce. Poi prevalse l'amarezza."Lo sa qual èla
cosa peggiore, per me? Mi sono battuto per voi. Ho fatto tutto quello che
potevo. Più di quello che potevo. Ma voi mi avete sempre impedito di..."
Aymer se ne uscì con una risata secca.
"Abbiamo sempre preferito
aiutarci da soli," disse.
Piet non reagì al disprezzo del kaina. Chiese
solo:
"E' vero? Succederà davvero?"
"Con certezza matematica."
Ma il tono vacuo della voce di Aymer non si accordava con la soddisfazione
maligna di cui le parole erano cariche. "Il vostro grande Stato Majet, speranza
e orgoglio dell'umanità, non ha più di dieci anni di vita."
Piet
bestemmiò nella sua lingua, come fra sè, e disse senza molta convinzione: "Le
vostre sono farneticazioni! Non si può programmare la Storia come si fa con un
sistema di controllo metereologico!"
"Noi lo abbiamo fatto," dichiarò
Aymer semplicemente.
Piet non rispose subito.
"Lei non ha paura,
Aymer?" disse infine, un po' stanco, un po' amareggiato. "Che tutto quello che
èavvenuto qui oggi si ripeta? Che questa carneficina non finisca mai? Lo Stato
Majet può garantire la pace. Almeno questo dovete riconoscerlo!"
Piet
era avanzato fino a trovarsi a nemmeno un passo dal suo prigioniero impassibile.
Verso la fine la voce era sfuggita al suo controllo e le ultime parole erano
state gridate.
"Può davvero?" chiese Aymer quieto. "A prezzo della
nostra distruzione?"
Troppo esasperato per argomentare, Piet cambiò
corso alla discussione.
"Per Dio, Aymer, cinquantamila persone sono
morte là fuori oggi! Le sue note dicono che siete stati voi a farlo accadere!"
"Sapevamo che sarebbe avvenuto, e ne abbiamo fatto la nostra occasione.
Ma non lo abbiamo fatto noi. Lo avete fatto voi, solo voi. La colpa, o l'onore,
se volete, ètutto vostro."
"Questo è..." disse Pîet fra sè in un
sussurro irato, "semplice fanatismo."
"Ci rimprovera di averla costretta
a sporcarsi le mani del nostro sangue, Piet? La decisione èstata sua."
"Non mia!" gridò Piet. "Ho tentato fino alla fine di evitare questo
massacro. Ho cercato di far valere la ragione. Per una volta! Una volta sola. Ma
voi... voi avete continuato a uccidere e uccidere. Avete distrutto ogni
possibilità di pace, ogni comprensione che i miei concittadini nutrivano per
voi!"
"Alcune precise equazioni," disse Aymer inclinando la testa,
"determinano le reazioni di un gruppo statisticamente significativo di persone
sottoposte alle pressioni a cui èstato sottoposto il popolo kaina... un gruppo
oppresso fino al limite, e oltre. La ragione non può impedirgli di diventare
terroristi. Non serve a niente. Non ci porterà alla vittoria. Ma di questo alla
matematica non importa. Le cifre rimangono le stesse. Piet, io la conosco,"
continuò Aymer. "So che lei èun uomo giusto e amante della pace, una brava
persona. Ma il suo Stato non avrebbe ascoltato mai: noi lo abbiamo studiato a
fondo, e lo abbiamo previsto. Se vogliamo giustizia, ce la dobbiamo costruire da
soli. Abbiamo costruito attorno l'attacco della Timo le condizioni
storiografiche che porteranno ad una soluzione del nostro problema - e per
inciso ad una società galattica più giusta e pacifica."
"Una società
senza i majet ," disse Piet sarcastico. "Abbiamo combattuto altre volte
contro chi ci voleva cancellare dall'universo. Lo possiamo fare anche ora."
Aymer scosse la testa.
"No, nessuno sarà cancellato. E poi il
corso della psicostoriografia non può essere invertito. E' un fatto teoricamente
provato e riscontrato sperimentalmente. E' proprio su di questo che si basa la
naturale tendenza di ogni azione psicostoriografica a portare verso una società
più giusta. Noi lo chiamiamo il Teorema di Seldon."
"Molto spiritoso,"
disse Piet freddamente. "Là fuori èstato compiuto il peggiore massacro di tutta
la storia majet - anche se questa volta, almeno, le vittime non siamo noi - e
lei èqui a parlare tranquillo di matematica. Per cinquant'anni i majet del
partito Conciliazionista hanno cercato di venire ad un compromesso con i kaina,
ma voi, voi moderati, non avete mosso un dito per venirci incontro."
Aymer non rispose. Piet sentì un'altra volta il terribile silenzio che
seguiva i sopravvissuti della Timo. La cosa più spaventosa per lui, quando aveva
ispezionato la nave dopo la cattura, alla guida degli orripilati e increduli
giornalisti neutrali, era stata il silenzio. Nessuno parlava, e se qualcuno lo
avesse fatto Piet non avrebbe sentito. Aveva gli occhi troppo pieni di cadaveri
buttati qua e là, a mucchi oppure da soli, fra i rottami della nave. Silenzio.
L'orrore che Piet, e forse anche gli altri, provavano era troppo grande per
poterne parlare. Piet aveva pensato che anche l'odio, ora, sarebbe stato troppo
grande per venire costretto nei negoziati, nei compromessi, nelle speranze di
ragionevolezza.
Improvvisamente il generale majet tornò indietro e suonò
il campanello per chiamare le guardie.
"Lei verrà fucilato," disse secco
ad Aymer.
Il kaina cercò l'oblò da cui la nave non si vedeva più e per
la prima volta Piet vide un'emozione comparire sul suo volto, ma se fosse
dolore, odio o sollievo, non lo avrebbe saputo dire.
"Lo so," rispose
Aymer alzandosi.
Piet gli voltò le spalle.
Rimase fermo a lungo,
a guardare fuori dall'oblò. Il generale Piet aveva la fama di essere un uomo
duro, un nemico spietato ed un severo difensore della democrazia majet a cui
aveva dedicato il servizio di una vita. Ma ora era pieno di disgusto e di
stupore. Conosceva la sua gente, la amava e la stimava: aveva sempre avuto
fiducia nei majet, i majet lavoratori instancabili, i majet uomini giusti e
onesti, i majet che non erano privi nemmeno nei momenti più duri di gentilezza e
di amaro umorismo. Erano sempre apparsi ai suoi occhi saggi e innocenti, avevano
costruito uno Stato con la loro sofferenza e l'avevano pagato col loro sangue.
Piet sapeva che cosa li aveva potuti trasformare nei feroci carnefici che aveva
visto uccidere ragazzi e vecchi a bordo della Timo: anche lui aveva vissuto
quegli anni di guerra costante, subdola e feroce. Ma il cambiamento minava la
sua fede e il suo amore per il suo popolo e Piet sentiva la Terra mancargli
sotto i piedi. Non poteva pretendere che la pazienza dei majet fosse infinita,
ma era facile dimenticare i precedenti davanti ai cadaveri dagli occhi sbarrati.
Tanti anni prima, Piet aveva avuto degli amici kaina e non riusciva a
condividere il semplice odio dei suoi soldati. Aveva sempre pensato che questo
tornasse a suo onore, ma ora non sapeva più cosa pensare: nè dei kaina, nè dei
suoi soldati, nè di sè.
2
Auvin Kemiat prese posto per ultimo attorno al tavolo di legno
dorrha nella Biblioteca dell'Università di Lauranti. Si era attardato
attraversando le ampie, silenziose stanze comuni, cullandosi nei suoi ricordi.
Tuttavia, in questi le sale erano diverse, piene di luce dorata, su un altro
mondo, e in tempi molto diversi. Non ci volle molto perchè Kemiat fosse ripreso
dal suo umore malinconico e si ricordasse che Lauranti era un luogo d'esilio; e
male aveva fatto a dimenticarsene.
Gli altri kaina erano tutti molto
invecchiati da quando, molto tempo prima, lui li aveva visti per l'ultima volta.
Non si salutarono, ma Kemiat e i suoi vecchi compagni si guardarono senza più
ostilità, e Kemiat esordì con un quieto e semplice:
"Lo hanno
ammazzato."
La sua voce era quasi ferma.
"Lo hai visto?" chiese
Eile Taunca sporgendosi attraverso il tavolo.
Kemiat esitò a lungo prima
di rispondere. Alla fine fece un breve cenno di assenso seguito da un: "Non ne
voglio parlare." Dopo un attimo aggiunse, come per scusarsi: "Io e Aymer eravamo
amici."
Hai Lonan scosse la testa. Era vecchio, ma non era solo per
questo che le mani gli tremavano.
"Quando l'ho visto in televisione, per
la prima volta dopo tanti anni ho desiderato uccidere qualche majet. Ce n'erano
tanti sulla Timo che avevano fatto più male di lui! Perchè farlo vedere in
quello stato... tremante di paura... un uomo come Kaurit Aymer..."
Kemiat abbassò lo sguardo al piano del tavolo fra le sue mani. Non disse
niente, ma ripensò a come aveva visto Aymer nella sua cella prima che venisse
giustiziato. Piet, che aveva reso l'incontro possibile, gli aveva scritto di
aver conosciuto un uomo freddo e impassibile: Lonan e tutti gli altri avevano
visto una vittima spezzata e piangente. Ma quale fosse la verità, nè Piet nè
Lonan nè Kemiat la conoscevano. L'uomo che Kemiat aveva visto in quella cella
era calmo e padrone di sè, per nulla spaventato e niente affatto umiliato. Aveva
abbracciato Kemiat come il vecchio amico che da tanto tempo non era più stato, e
Kemiat gli aveva visto in faccia uno sguardo indifferente e vuoto che non si
accordava con l'Aymer dei suoi ricordi. E come fosse davvero Aymer sotto le sue
molte maschere, nessuno lo sapeva.
"Ti èpiaciuta la mia recita, alla
conferenza stampa?" aveva chiesto, sorridendo.
Kemiat, angosciato, gli
aveva chiesto:
"Ti hanno maltrattato?"
"Ma no," aveva risposto
Aymer con indifferenza. "O almeno non a sufficenza da farmi dire quelle cose, e
a quel modo. Ma io sono un uomo ragionevole, e in realtà non mi importava molto
di come potevo apparire agli occhi degli altri, nemmeno dell'intera Galassia.
Così gli ho dato quello che volevano. Tanto era chiaro che si trattava di
menzogne. Hai da fumare?"
Kemiat gli aveva dato le proprie sigarette
terrestri assieme ai fiammiferi. Aymer si era spostato fino alla finestra e lì
si era acceso una sigaretta. La sua voce, quando parlò, aveva perso il tono
leggero.
"Sai, Auvin, la verità èche sono tanto stanco e mi sento così
vuoto, che volevo solo che si sbrigassero e mi ammazzassero. Tutto qui. Sono
diventato così indifferente. Il Piano si èpreso tutta la mia anima. Il Piano
vivrà dopo di me... e a me non èrimasto niente da fare. E dopo quello che ho
visto, sento che vivere per me sarebbe solo un peso."
Spense con un
gesto veloce il fiammifero che aveva acceso. Per un momento lui e Kemiat si
erano guardati in silenzio negli occhi. Alla fine Aymer aveva sorriso.
"Ringrazia l'onorevole Moriat, e Piet, e tutti gli altri che hanno
cercato di ottenere la grazia per me. Agli altri dì quello che ti pare. Inventa
pure. La mia fantasia èagli sgoccioli."
Kemiat aveva annuito, la gola
troppo chiusa per parlare.
"Be', non c'è altro, non ti pare? Grazie a
Dio non mi lascio nessuno dietro, mogli, figli, nessuno."
"Kaurit,"
aveva detto Kemiat urgentemente, " quello che ti ho detto tanto tempo fa, quando
abbiamo litigato, io volevo..."
"Oh, lascia stare," aveva detto Aymer
stancamente, "probabilmente avevi ragione tu. Era solo una disputa accademica e
non dovevo prendermela tanto. E ormai ètroppo tardi. La storia non torna
indietro."
Kemiat si scosse e tornò con la mente al presente. Attorno a
lui, attorno al tavolo dolcemente rilucente di questo bel mondo pacifico -
questa terra d'esilio - i più grandi psicostoriografi kaina, le menti migliori
del suo popolo, lo guardavano come se da lui fosse dipeso tutto, come se lui
fosse davvero l'erede morale di Kaurit Aymer, lui che era stato il suo
avversario più accanito, lui a cui Aymer alla fine aveva detto: probabilmente
avevi ragione tu...
"Lui lo sapeva fin dall'inizio che sarebbe
morto," stava dicendo Daurit Avan. "Non avrebbe mai accettato di portare a
termine il Piano senza assumersi la responsabilità... e pagare di persona."
"Sì, èvero," sospirò Kemiat.
E così aveva preso in trappola
anche lui. Forse Kaurit non lo aveva voluto, ma alla fine aveva trascinato
Kemiat via dal suo rifugio su Lauranti, via dalla sua vita tranquilla e libera,
lontana dal dolore e dal fallimento, lontana dalle sofferenze del suo popolo.
Alla fine, con la sua morte, Kaurit lo aveva obbligato a tornare indietro, a
riprendere il suo posto nella lotta. Senza che ci fosse bisogno di pronunciare
le parole, Kemiat aveva sentito la voce del suo vecchio amico e compagno
parlargli con la solita chiarezza, al suo modo spietato: hanno bisogno di te.
Tu sei il più grande psicostoriografo mai vissuto; solo tu puoi far sì che il
mio Piano proceda senza deviazioni, solo tu puoi salvare il tuo popolo e far sì
che la mia morte non sia stata invano. La mia e quella degli altri,
naturalmente.
Perchè non era solo con la propria vita, che Kaurit
Aymer era generoso.
3
Il generale Piet entrò nel suo studio sfregandosi gli occhi. Era
stanco. Il suo intervento davanti alla Camera era finito a tarda notte e Piet
temeva che nemmeno i deputati del suo partito lo avessero ascoltato. Ma non
aveva importanza. Piet era ostinato. Avrebbe provato a farsi ascoltare in
un'altra occasione.
Quando vide chi era l'ospite si fermò, stupito.
"Kemiat?!?"
Il suo ospite annuì. Era un uomo anziano - be',
anziano quanto Piet - dall'aria mite e un po' trasandata, capelli soffici e
completamente bianchi mentre quelli di Piet erano ancora grigio ferro. I suoi
lineamenti erano quelli che ancora guardavano con una certa dolce arroganza i
visitatori dagli affreschi dei templi kaina - lineamenti che i majet e i kaina
condividevano a dispetto di altre diversità - sacerdoti e studiosi, notabili e
santi di un tempo in cui i kaina erano stati un popolo grande e potente.
"Ne èpassato di tempo, eh, Arun?" disse Kemiat.
"Eh già...
"assentì Piet piuttosto debolmente. Ricordava Kemiat come un uomo molto giovane.
"Sono contento di rivederti," disse. "Vuoi del caffè, Auvin?"
Kemiat
sorrise.
"Certo. Come ai vecchi tempi, Arun."
Piet attraversò la
stanza per accendere un fornellino e sistemarci sopra una caffettiera già
preparata. La stanza era piccola ma confortevole, ingombra di libri e oggetti,
alcuni dei quali Kemiat ricordava dai tempi in cui aveva avuto Piet come
compagno di scuola. Dalle porte finestre arrivavano i gridolini dei bambini che
Kemiat aveva intravisto mentre arrivava giocare nel prato. Ma la stanza sembrava
quieta e tranquilla. I mobili erano di legno terrestre e le stoffe di cui erano
fatte le tapezzerie erano quelle fini e calde che venivano tessute nella
regione.
"Non credevo che mi avresti mai voluto rivedere," mormorò Piet
, cercando l'ultimo fiammifero in una scatola che aveva lasciato sul tavolino il
giorno prima.
"E perchè no? Tu hai sempre fatto quello che potevi per
noi. Ero in aula ieri sera quando hai parlato. Davvero un bel discorso."
"Non èservito a niente," disse Piet amaro. "Vogliono la guerra, Auvin."
"Sono spaventati."
Piet stava cercando la pipa, ora.
"Non credevo che li avresti mai giustificati, "disse.
"Non li
giustificavo quarant'anni fa, quando hanno cominciato a darci la caccia," disse
Kemiat.
Piet si fermò, con la pipa in mano e l'aria triste che Kemiat
gli conosceva.
"Quante cose si sarebbero potute evitare, eh, Auvin, se
ci avessero ascoltato, se fossero stati ragionevoli, i miei e i tuoi..."
"I miei e i tuoi," riconobbe Kemiat. "Ma io sono uno psicostoriografo, e
so che la gente non può mai essere ragionevole. E' spinta da leggi diverse da
quelle del buonsenso... leggi economiche... leggi sociali... Lo studio della
psicostoriografia mi ha dato un grande distacco da queste cose. Mi ha permesso
di capire, di compatire... e alla fine, mi ha fatto capire che quello che
dovrebbe avvenire èsempre diverso da quello che può avvenire."
"Ecco perchè la fazione moderata kaina non ha mai mosso un dito per
aiutare Moriat," brontolò Piet. "Fatalismo."
"Ecco perchè tu ti sei
sempre rifiutato di occuparti di psicostoriografia," ritorse Kemiat dolcemente.
"Ma sbagli. Non si tratta di fatalismo."
Piet borbottò qualcosa di
initelleggibile. Versò il caffè e porse una tazzina a Kemiat.
"Mi
dispiace per Aymer," disse. "Non sono riuscito a ottenere la grazia, e forse non
ho tentato abbastanza. So che era tuo amico."
"Avevamo litigato,"
precisò Kemiat, tranquillo, accettando il caffè. "Ma ti ringrazio per avermi
fatto avere il permesso di vederlo."
Piet guardò nella tazzina senza
parlare. Per un momento la stanza fu piena soltanto della polvere che brillava e
cadeva pigramente nella luce che entrava dalla finestra, proveniente dalla
stella gialla che illuminava la capitale majet Hevinna.
"Arun," disse
Kemiat alla fine, "sono venuto per dirti alcune cose che non ti faranno
piacere."
Piet alzò la testa, con qualcosa come rassegnazione sul viso.
"Devo dire che non èuna novità, per me," disse.
"Non credo che
tu sappia molto della psicostoriografia, anche se sei un militare e devi sapere
qualcosa delle teorie formali di strategia, che hanno molto in comune con la
psicostoriografia. Fu fondata da uno storico di Luann che applicò per primo la
matematica degli stati complessi alla storia. Gli diedero del pazzo per tanto
tempo - be' era una personalità bizzarra, questo èvero. Ma le cose che
scoprì..."
"E' di T'endrö che sta parlando? L'autore di 'Utopia'?"
Kemiat fece una pausa.
"Sì, era la sua preoccupazione
principale. Il suo concetto di Utopia èuno dei problemi più dibattuti in
psicostoriografia. Ma Arun, l'Utopia èuna chimera. Lo abbiamo dimostrato
conclusivamente."
Piet si alzò e percorse la stanza, che era piccola, in
sù e in giù. Non era mai stato capace di rimanere fermo molto a lungo.
"Scoprì che la storia, come la fisica, segue leggi matematiche. E'
prevedibile; e quel che conta di più, èmodificabile. "
Piet si fermò.
"Ho studiato anch'io T'endrö. Questo non lo dice."
"Ma discende
da quello che dice! Direttamente!" Kemiat era eccitato. "Trent'anni fa alcuni di
noi, sopratutto studenti dell'Università di Timo, ci guardavamo attorno, e come
tutti i kaina eravamo preoccupati dalla sorte del nostro popolo. Già allora le
cose erano abbastanza brutte, eh, Arun?"
Piet annuì.
"Alcuni di
noi entrarono a far parte del movimento armato..."
"Anche tu?" chiese
Piet sorpreso.
"Non stupirti, Arun. Quando ero giovane ho visto cose che
avrebbero spinto anche te alla violenza. Sì, anch'io."
Piet si sedette
in una poltrona.
"Continua," disse.
"Ma poi, siccome eravamo
storici e psicostoriografi, ci chiedemmo: a cosa porterà la violenza? Bada,
Arun, non se era giusto o utile - a chi èdisperato queste cose non possono
interessare, si agisce per odio, o magari per vendetta - ma a cosa avrebbe
matematicamente portato?"
"A niente," disse Piet seccamente.
"A
molte cose diverse, Arun, a molti risultati diversi, alcuni più probabili, altri
meno. Alcuni erano favorevoli a noi, ma erano pochi, e poco probabili. Ma
eravamo giovani ed entusiasti. La psicostoriografia permette di scegliere una
linea e facilitarla, restringendo sempre di più le scelte della storia, fino a
costringerla a seguire la nostra direzione. A guidarla dove vogliamo noi. A
guidarla, Arun!"
Piet non era stato contagiato dall'entusiasmo di
Kemiat.
"L'ho già sentito dire, tutto questo."
"Ma non capisci?
Non soltanto il terrorismo non era più necessario, ma per la prima volta c'era
un modo per rendere la storia non un procedere caotico e insanguinato, dai
risultati folli e perversi, ma un cammino sicuro verso una meta - una meta
possibile, non un'utopia. Un cammino guidato dalla ragione, la ragione umana."
"Così, ci credi ancora," disse Piet, piano, guardando fuori dalla
finestra.
Kemiat fece una pausa.
"Non so, Arun. Davvero non so
più a cosa credo. Mi sento così vecchio."
Piet si voltò e lo guardò.
"So tutte queste cose, Auvin. Me le ha dette Aymer non più tardi di un
anno fa. Ma non ci credo molto, se devo essere sincero. Nella psicostoriografia,
sì - ho controllato gli appunti di Aymer. Ma in una società migliore, in un
cammino obbligato... no. So come Aymer voleva arrivarci. E' una strada
insanguinata e io non voglio seguirla."
"Lo sapevi, allora," disse
Kemiat, stupito.
Piet annuì.
"Ma Arun, tu devi aver capito,
allora, che non c'è scampo, che non c'è modo di evitare che succeda, e succeda
a quel modo. Perchè continui a cercare di convincere i majet a concedere
condizioni che loro non vogliono concedere, i kaina ad accettare quello che non
possono accettare? Sarai sconfitto."
"Le probabilità di successo sono
basse, lo so..."
"Sono inesistenti! E' troppo tardi ormai, Arun, e anche
se non lo fosse, èuna strada impossibile, i nostri calcoli lo dimostrano..."
"I vostri calcoli!" esplose Piet, parlando fra i denti serrati.
Riprese a camminare su e giù, seguito dallo sguardo di di Kemiat, pieno
di pietà e stupore.
"Eppure tu hai lasciato Aymer vent'anni fa e non gli
hai più voluto parlare fino a poco prima che lo giustiziassero. Nemmeno tu la
volevi questa soluzione, Auvin. Perchè?"
Kemiat distolse lo sguardo e
sembrò a disagio.
"E' difficile da spiegare."
Piet scrollò il
capo.
"Continuerò a provare, Auvin. Non ho un uso migliore del mio tempo
e ho una coscienza a cui rendere conto. Se non fossi stato un gran testardo
avrei preso a pensare molto tempo fa che l'unica soluzione al problema kaina
fosse lo sterminio. Come dice quel pazzo di Miss. Ho perso due figli per mano
vostra."
"Io li ho persi tutti," disse Kemiat con voce sorda."Ma sono
venuto a dirti che la devi smettere, Arun. La matematica non si occupa degli
individui e nemmeno il nostro Progetto. Ma io ti voglio bene e ti voglio
avvertire. Entro cinque anni ci sarà un grosso cambiamento nello Stato Majet. I
moderati come te... saranno tolti di mezzo, Arun. Saranno brutti tempi. Tu sei
un uomo di valore; salvati. Lascia stare ora, dimettiti dal Parlamento e
smettila di alzare la voce. Scompari nell'ombra."
Piet lo guardò in
silenzio, quasi con odio.
"Ti prego, Arun. Non c'è niente che possa
fermare il sangue che deve ancora scorrere. Ci sono dei pazzi fra la mia gente,
più che fra i majet: impazziti di dolore e di rabbia. Non ècolpa tua ma ècolpa
del tuo Stato: in questa grande tragedia nessuno èpiù innocente. Da nessuno puoi
pretendere ragionevolezza. Servirsi del terrorismo per fermarlo èuna strada
terribile, ma praticabile. La tua èuna via giusta e nobile, ma non funzionerà.
La sua entropia ètroppo bassa."
"Servirsene," disse Piet. "Incitarlo,
incoraggiarlo, vuoi dire."
"No. Noi limitiamo le scelte, ma non
scegliamo mai. E devo anche aggiungere che tu, Arun, le tue scelte invece le hai
fatte. Hai comandato tu l'attacco alla Timo."
Piet distolse gli occhi
dal volto del suo amico di un tempo.
"Sarebbe successo comunque, e
assumendo il comando io avrei potuto acquisire influenza... porre fine a questa
catena di carneficine. Aymer stesso ha detto che era inevitabile..."
Kemiat alzò una mano.
"Arun, la storia siamo noi uomini.
Inevitabile o no, lì a cnacellare la Timo dall'universo c'eri tu. E a volte mi
chiedo come può essere successo - come hai potuto, proprio tu, farlo, Arun?"
Ora la voce di Kemiat si era incrinata.
"E' stato più facile di
quanto pensassi," mormorò il generale majet.
Kemiat si alzò in piedi.
"Ebbene, Arun, ti ho detto quello che ti dovevo. Mi ha fatto piacere
rivederti. Pensa a quello che ho detto."
Piet non si era mosso.
"Dimmi, Auvin," disse con voce quieta. "Aymer ha parlato di un Teorema
di Seldon, che prova che ogni uso della psicostoriografia, da parte di chiunque
e per qualunque fine, porta alla fine ad un medesimo risultato: al bene
maggiore. Ora, mi sono capitati in mano gli atti del primo - e unico - convegno
di psicostoriografia e ho scoperto che le cose non sono così pacifiche."
Kemiat annuì.
"Sì, la vecchia polemica. 'Se la psicostoriografia
ècosì potente, può essere usata per compiere molto male'. Il Teorema ha demolito
queste posizioni."
"...E quando Aymer lo enunciò e dimostrò, un grande
psicostoriografo si alzò un piedi e disse: 'Ma Kaurit, questo bene di cui tu
parli non èil bene in assoluto, perchè ognuno ne ha un'idea diversa e non può
essere una quantità definibile in modo rigoroso. La psicostoriografia tende sì
ad una situazione storica precisa, ma questa può essere definita Œbene' solo se
si definisce il bene come Œquella cosa a cui la psicostoriografia tende.' Ora
dimmi, Auvin, quella persona, a cui Aymer non seppe rispondere , non eri
tu?"
"Sì," mormorò Kemiat. "Ora èmeglio che vada, Arun. Arrivederci."
4
Arun Piet non era cambiato molto in quei quattro anni durante i
quali Kemiat si era occupato del nuovo stato dei kaina. Era cambiato l'universo
attorno a lui - tutto - ma non sembrava avere toccato l'ex-generale majet. La
guerra, il crollo dello Stato Majet, la clandestinità e infine l'arresto e la
condanna avevano lasciato Arun Piet immutato rispetto al testardo deputato
dell'opposizione majet che Kemiat aveva incontrato una mattina di sole su
Hevinna.
"Come sei entrato qui?" chiese Piet stupito alzando la testa.
"Documenti falsi," bisbigliò Kemiat. "Ho scomodato i migliori falsari
kaina. Sono tuo cugino, il tuo unico parente ancora in vita."
Piet
scosse la testa.
"Hai fatto male, Auvin. Puoi finire nei guai anche tu.
Se scoprono che sei kaina ti ammazzano sui due piedi."
"Non potevo
lasciarti andare così," disse Kemiat.
"Lasciarmi andare a morire?" disse
Piet, e sorrise. "Oh, io non ho paura di dirlo. Devi essere terribilmente stanco
di visitare i tuoi amici in galera, eh, Auvin?"
"Sono stanco di vedere
morire i miei amici," rispose Kemiat tristemente.
"Per me questo genere
di problemi èfinito," disse Piet. C'era un qualcosa di forzato nella sua voce.
"Che ora è?"
"Le tre, Arun. So che èun'ora infame, ma non mi hanno
lasciato entrare prima. Forse speravano che rinunciassi. Ma se vuoi me ne vado."
"No, rimani. Tanto non riuscivo a dormire," disse Piet.
Sospirò
e si coprì la faccia con le mani.
"Io ne ho visti tanti, sai, Kemiat,
aspettare in questo modo. Ho sempre pensato che se fosse venuto il mio turno non
avrei finto di non avere paura. Eppure eccomi qua. Non me la sento di mettermi a
piangere."
Kemiat rimase in silenzio.
"Sono contento che tu sia
venuto. Sei l'ultimo amico che mi resta... non sai per caso che ne èdi Moriat?"
Kemiat esitò prima di rispondere. Piet si tolse le mani dal viso e lo
guardò tranquillo.
"E' stato giustiziato, Arun. Due settimane fa."
"Due settimane?" Piet sembrò colpito. "Questi bastardi non mi hanno
detto niente. Gli avevo indirizzato la mia ultima lettera."
"Mi
dispiace," disse Kemiat. "Forse avrei fatto meglio a non dirtelo."
"No,"
rispose Piet. "E' meglio così."
Ci fu una pausa. Piet andò su e giù per
la cella, e alla fine si fermò e disse:
"Non sarai venuto a dirmi 'Te
l'avevo detto io', eh, Auvin?"
Kemiat scosse la testa.
"Non sono
pentito di niente, sai," disse Piet. "Solo di non avercela fatta a nascondermi
più a lungo. Chissà, forse le cose sarebbero cambiate."
"Non sarebbero
cambiate," disse Kemiat.
"Non sono cose da dire ad un uomo in punto di
morte, queste," mormorò Piet in tono di rimprovero.
"Tu hai sempre
preferito la verità, Arun."
Piet annuì.
"La preferisco ancora."
Ci fu un altro silenzio. Piet guardava la finestra dietro di Kemiat.
Fuori era ancora notte. Aveva parlato piuttosto distrattamente. Non riusciva a
distogliere il pensiero dalla propria fine, e avrebbe tanto voluto che Kemiat
parlasse di qualcosa e lo facesse smettere di guardare quella maledetta finestra
da cui avrebbe visto l'alba avvicinarsi.
Kemiat sospirò e disse: "Arun,
devo dirti una cosa. Non sono venuto qui per consolarti. Sono venuto per
confessarmi. Tu sei l'unico a cui... l'unico che mi possa capire. E il mio unico
amico, ormai. Ti sembrerà crudele, forse, ma se non te lo dico ora non te lo
potrò dire mai più."
Piet lo guardò con interesse. Indietreggiò e si
sedette sulla panca.
"Vai avanti. Continua."
Kemiat si passò una
mano esitante fra i capelli.
"A vederti... qui, Arun, mi viene in mente
quello che mi dicesti una volta di Aymer. Ti ricordi? Un uomo fatto di ferro e
di ghiaccio: così dicevi. Di ferro e di ghiaccio. Così èparso anche a me. Eppure
doveva essere falso."
Kemiat fece una pausa. Era a disagio, ma si stava
infervorando.
"Doveva essere falso perchè io conoscevo Kaurit Aymer. Non
ci eravamo parlati per vent'anni, ma non poteva essere cambiato così tanto. Era
un sentimentale, un cuore sanguinante. Ed era impulsivo... agiva senza pensare.
A quel congresso che tu mi hai ricordato l'ultima volta che ci siamo visti, non
mi seppe rispondere. Eppure andò avanti lo stesso. Chissà... forse aveva perfino
ragione."
"Con il Piano?"
"Già, ora tutti ne parlano, eh? E
hanno paura di noi. Ma allora non era alla paura che pensavamo. Lo sai, Arun, se
tu sei qui, èanche colpa mia. Ma allora noi pensavamo soltanto che facevamo
parte di un popolo scacciato e perseguitato e massacrato... tutti noi avevamo
gli occhi pieni... oh, tu lo sai di che scene. Alcuni erano pronti a mettere
bombe nelle strade affollate di Sollea o nella metropolitana di Hevinna Nord, a
noi sembrava di fare cose meno crudeli. Volevamo solo un posto per il nostro
popolo dove vivere in pace. Pensavamo: per quanto dolore possa causare, almeno
dopo tutto sarà finito e ci potrà essere la pace."
"Ti sento addolorato,
Auvin, amico mio," disse Piet con una traccia di sarcasmo nella voce. "Non
èandata così, vero? Una patria per i kaina ècostata la guerra a tutto il resto
della Galassia."
"Già," ripetè Kemiat piano. "Devo andare avanti?"
"Sì, ti prego."
"Ho avuto tra i miei allievi molto
psicostoriografi majet e dauti, tasiit e ulliani negli ultimi tempi. Ci
crederesti? Ora vogliono usare le equazioni di Aymer per mettere riparo a questa
situazione."
"A quale prezzo, questa volta?" chiese Piet acido.
"Ah, l'ho detto anch'io. Ma non mi ascoltano, nemmeno questa volta. Ti
ho già parlato dell'entropia?"
"Oh, sì," disse Piet. Si era distratto.
Guardava la finestra.
"E' una metafora, naturalmente. Noi
psicostoriografi parliamo di entropia ma non ha niente a che fare con la fisica.
Ci sono solo delle analogie. La storia tende naturalmente ad uno stato omogeneo
della società: era questo che affascinava Kaurit. Pensava alla fisica e parlava
di massimo disordine, di distribuzione e livellamento di quantità storiche.
Parlava di molecole calde e fredde che tendono ad assumere la stessa
temperatura, energia, velocità... che tendono ad essere tutte uguali. Solo che
la società umana ha bisogno di più tempo per raggiungere questo stato omogeneo,
forse più tempo di quanto l'evoluzione gli consente. Ma l'uso della
psicostoriografia permette di accelerare il processo. E' un fenomeno spontaneo,
in effetti. Fino a qui, gli davo ragione."
Kemiat fece un'altra pausa.
"Tutti uguali," ripetè. "Era questo che affascinava Aymer, e come no?
Anche tu eri affascinato da queste idee, Arun, una volta."
"Lo sono
ancora," disse Piet con voce sommessa.
"Eppure non tutti sono d'accordo.
Comunque noi di uguaglianza avevamo fame. Come un popolo povero, volevamo
l'uguaglianza nella ricchezza, come un popolo oppresso, un'uguale libertà per
tutti: i nostri guai non erano forse dovuti al fatto di essere diversi? Avremmo
dovuto avere allora dei sospetti. In fondo, eravamo orgogliosi della nostra
diversità..."
Piet sospirò. "Era questo il problema. "
"Ma Aymer
era entusiasta della sua idea. L'uso della psicostoriografia, qualunque uso, ci
farà tutti uguali, diceva. Non possiamo sbagliare. Così varò il suo Piano. Te
l'ho detto che agiva senza pensare ed èun peccato, perchè era davvero un genio,
Arun. Non mi ascoltò mai, eppure era tutto così chiaro. Lui pensava ad una
uguale distribuzione della ricchezza, ad un'uguale libertà... ma non c'è solo
questo nella storia e non era così semplice. Ho litigato con Aymer per questo.
Ho passato vent'anni, da allora, a rifare i miei calcoli... Arun?"
"Ti
ascolto, Auvin."
Kemiat seguì la direzione dello sguardo di Piet. La
finestra era impercettibilmente più chiara: fuori stava cominciando l'alba di
una lunga giornata estiva.
"Mi dispiace, Arun. Ti sto impedendo di
dormire."
Arun Piet quasi si mise a ridere. Era ovvio che non avevano
detto a Kemiat che la sua esecuzione era fissata per quella mattina.
"Non posso dormire stanotte," disse gentilmente. "Via avanti. Hai
passato vent'anni a rifare i calcoli: hai scoperto come sarà questo stato di
massima entropia a cui tende inesorabilmente la storia?"
Kemiat annuì.
"Sì, e non èaffatto l'utopia. L'utopia, vedi, Arun, postula
l'eliminazione del dolore, la distruzione dell'ingiustizia. La psicostoriografia
può solo ridistribuire quantità storiche già esistenti. Non tutti liberi allo
stesso modo, Arun... ma tutti ugualmente schiavi. Tutti ugualmente poveri. Tutti
ugualmente infelici. Tutti, allo stesso modo, senza speranza. Senza possibilità
di decidere, senza una meta, senza una direzione, perchè lo stato di massima
entropia èla meta ultima e oltre non esistono più direzioni. Vuoi sapere cosa ha
fatto di Kaurit Aymer un uomo di ghiaccio e perchè èandato a morire tanto
tranquillamente, perchè non provava orrore per quello che ha visto sulla Timo?
Ha costruito un piano psicostoriografico perfetto e quando lo ha messo in
pratica non èrimasto più nessuno spazio per la sua ragione. Non poteva più
agire: non poteva più sperare. Tutto era già deciso. Non provava più orrore:
c'era uno scopo nella sofferenza che vedeva. Non provava più gioia: tutto
avveniva come per una legge di natura. Non mi stupisco che volesse solo morire."
"Tu sei troppo catastrofico," mormorò Piet.
"No. Ho messo in
moto anch'io questo meccanismo infernale. Lo sai perchè la chiamano entropia?
Non c'è ritorno possibile. L'utopia... era realizzabile. Per un tempo
limitato... con possibilità bassissime... ma che cos'è tutto il nostro universo
se non una nicchia anomala di bassissima entropia? Forse con uno scatto
creativo, con un momento di genialità, si sarebbe potuto fare quello che noi
psicostoriografi abbiamo sognato." La voce di Kemiat si abbassò. "Tutti uguali e
tutti felici. Ma ogni uso che si fa della psicostoriografia ne incoraggia la
diffusione, ne allarga la pratica... e accelera i tempi. La psicostoriografia
èla ragione umana a capo della storia, ma ad ogni sua mossa la ragione restinge
il proprio campo d'azione. Finchè... ah, Arun, tu eri nel giusto. Non èquesto il
modo di usare la ragione."
Piet non rispose. Per un momento, non aveva
sentito niente. Fissava la finestra, che ora non era più un quadrato scuro ma
una debole fonte di chiarore. Si alzò rigidamente in piedi e guardò le cime
delle montagne più alte farsi rosa arancio.
"Il vostro sbaglio, Auvin,"
disse, come soprappensiero, "è stato uno sbaglio di arroganza e presunzione. Non
vi siete fidati della ragione che c'è in ognuno di noi. Avete pensato di essere
voi i soli a custodirla. Per questo avete sentito l'esigenza di guidare la
storia: invece di farne parte. Perchè volevate sottrarla alle mani di quella che
certo doveva sembrarvi una massa ignorante: perchè pensavate di poter fare
meglio di loro."
Poi si voltò a guardare Kemiat, che non aveva risposto.
"Tu lo hai sempre saputo. Perchè non hai fermato Aymer? Perchè non mi
hai aiutato?"
Kemiat sospirò. Rimase zitto ancora un po', poi disse,
stancamente:
"Perchè volevo una patria per i kaina. Perchè doveva
esserci una patria per i kaina. Non avevamo scelta, Arun. Non ce ne avete
lasciata. Ti ricordi cosa dicesti dopo il massacro della Timo? Non c'era altra
scelta. Ancora adesso non so se fosse vero. Forse non c'era davvero. Solo tu
puoi saperlo, Arun: sei stato tu a farlo. E' stato quello il punto di svolta, il
momento in cui il Piano di Aymer si èmesso un moto... e noi abbiamo perso la
nostra libertà, per sempre. Ma noi non avevamo scelta. Noi non l'abbiamo avuta.
Mai."
Piet scosse la testa.
"Fanatici," disse sottovoce. "E la
chiamate ragione."
"Non eravamo fanatici, prima che questa storia
cominciasse," disse Kemiat.
Piet rise. Era una risata brutta,
sgradevole.
"Auvin: tu continui a ripetere: non avevamo scelta, non
avevamo scelta. Allora, forse, non abbiamo mai perso la nostra libertà. Non
l'abbia mai avuta. Siamo già nella massima entropia."
Fece una pausa.
"Sai, Auvin, ho visto tante cose terribili nella mia vita: e ne ho
fatte, anche. Ma sempre, più che orrore od odio per i crimini che ho visto, ho
provato tristezza per quello che li rendeva inevitabili. Ho combatutto per tutta
la mia vita per la libertà di salvarci con la nostra ragione. Non per i majet.
No, non per loro. E' questa la differenza fra noi."
Kemiat abbassò la
testa.
"Tornerò a trovarti domani," disse.
"Sì," rispose Piet.
5
Arun Piet avrebbe voluto che fossero sereni i suoi ultimi
minuti. Ma invece che portargli alla mente le giornate di sole o le gioie della
sua vita, i suoi ricordi gli presentavano solo silenzio e una nave carica di
cadaveri che andava alla deriva.
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