L’Adepto si
strinse nel mantello leggero per ripararsi di più dal vento freddo che soffiava
sulla piazza del Quadrante e rabbrividì. La neve rendeva più chiari, cadendo, i
muri di pietra o di intonaco rosso di Poi Lantà, rendeva tutti i rumori più
misteriosi e sinistri, rendeva le vie solitamente accoglienti della città
fredde e inospitali. L’Adepto attraversò la piazza del Quadrante, nella quale
si diceva che spirassero tutti i quattro venti principali, ma dove lui sentiva
solo il gelido vento settentrionale che annunciava altra neve, e passò nella
adiacente piazza dei Lamenti. Lì, raccolto attorno ad un fuoco che sembrava
continuamente in pericolo di spegnersi, stava un drappello di soldati che
sorvegliavano evidentemente il magazzino del pane. L’Adepto pensò che se
l’assedio durava ancora a lungo, non sarebbe certo bastata quella guardia per
proteggere i magazzini. Quando la fame sarebbe cresciuta la gente di Poi Lantà
si sarebbe sollevata e addio farina. A dire la verità l’Adepto dubitava che i
soldati avrebbero opposto soverchia resistenza, affamati come dovevano essere
anche loro e infreddoliti. Inoltre, loro sapevano quello che i cittadini non si
curavano di prevedere: che Poi Lantàn non aveva rinforzi a cui appellarsi, che
a meno di un miracolo la città sarebbe caduta entro poco tempo, e le truppe dei
re Orientali, ubriache di vino e fervore religioso, avrebbero percorso le vie
della città di lì a poco, cercando bottino e seminando distruzione.
L’Adepto
avanzò, un’ombra nera fra i fiocchi candidi che si muoveva con grazia
leggermente sospetta. Benchè fosse l’unico occupante della piazza, e fosse
chiaramente visibile sulla coltre di neve caduta da poco, i soldati non lo
notarono finchè non gli fu molto vicino. L’Adepto si fermò e i soldati si
azzittirono di colpo, fissandolo. Era giovane, alto e molto magro, e i suoi
occhi neri erano strani, anche per chi avesse vissuto per tanto tempo a Poi
Lantà, città dagli strani, inquietanti abitanti. Ma i soldati erano mercenari
reclutati fra le varie genti dell’entroterra, e pochi di loro erano poilantesi.
Quando alzarono gli occhi verso lo scarno volto dell’Adepto furono percorsi da
un tremito e due o tre di loro misero nervosamente le mani sull’impugnatura
delle armi. Alcuni di loro portavano solo un coltellaccio di quelli usati dai
briganti della terraferma, ma altri portavano spade lunghe a doppio taglio e
ascie da combattimento, e uno, che sembrava più esperto nel mestiere degli altri,
con una faccia cupa e un’armatura che sembrava appartenere a uno dei Clan
barbari dell’estremo Nord, portava perfino, dietro la schiena, una spada
rituale, pesante e micidiale. L’Adepto li osservò tutti con calma, senza
parlare, e alla fine disse con una voce che sembrava avere lo stesso timbro che
avrebbe avuto l’acqua che scorreva sotto Poi Lantà, se avesse potuto parlare:
“E’ un giorno d’inverno in cui fa molto freddo, questo.”
I soldati lo
guardarono ancora più spaventati. Nessuno trovò qualcosa da rispondere, anche
se avrebbero voluto farlo, perchè si rendevano conto che era ridicolo farsi
spaventare da un ragazzo, per quanto inquietanti fossero i suoi occhi.
“E’ una cosa
terribile, l’inverno a Poi Lantà,” continuò l’Adepto. “Perfino gli spiriti
dell’acqua e della pietra che proteggono Poi Lantà durante tutto il resto
dell’anno, in giornate come questa sentono scemare il loro potere e possono
fare ben poco per impedirne la rovina. Non avete notato che le pietre sembrano
sbriciolarsi più in fretta? Perfino i pilastri di legno che sostengono l’intera
città marciscono più in fretta in giornate come questa. E allora è più facile
per un nemico, anche se è un nemico fatto di carne, vincere la città...”
L’Adepto
sorrise, un sorriso oscuro e lontano. Il soldati, che non avevano ancora
pronunciato una parola, nemmeno fra di loro, si scambiarono sguardi.
“Non avete
paura, allora? Pensate che un fuoco come questo basti a proteggervi?”
I soldati
evitarono di guardarlo, ma non ripresero le loro occupazioni precendenti.
Lasciarono l’acqua bollire sul fuoco e non ripresero gli stracci con cui
stavano pulendo le loro lame.
L’Adepto
sorrise ancora e alzò lo sguardo sull’uomo del Nord che portava la spada
rituale. Questi alzò gli occhi fino ad incontrare quelli del giovane mago e non
riuscì più a distoglierli.
“Lithain,”
disse l’Adepto, “Si raccontano ancora, nelle terre del Nord, leggende sui due
gemelli del Ghiaccio?”
L’uomo che
era stato chiamato Lithain non rispose, ma annuì .
“Allora forse
la tua gente ripete ancora la profezia che fu fatta tanto tempo fa da Braxas.
Ascolta attentamente: non senti niente?”
Lithain
indietreggiò di un passo, muovendo la mano verso l’elsa della sua spada, ma
molto lentamente.
L’Adepto lo
guardò senza smettere quel suo strano sorriso, e si girò senza aggiungere
altro. I soldati lo videro allontanarsi nella neve finchè non fu che un’ombra
vaga, e poi sparire. Ma sparì quando ancora era molto vicino, e non avrebbero
saputo dire se fosse solo stato nascosto dalla neve o se non si fosse piuttosto
dissolto nell’aria.
Allora si
voltarono verso l’uomo del nord e videro che era ancora fermo con lo sguardo
perso davanti a sè e un’espressione di terrore sul viso, teso come se stesse
veramente ascoltando qualcosa nell’aria. I soldati si mossero a disagio, perchè
erano vicino a Lithain da molto tempo e non avevano mai visto la paura sul suo
volto.
“Capitano,”
disse qualcuno, “cosa voleva dire?”
“Davvero non
sentite niente?” sussurrò Lithain.
“Cosa
dovremmo sentire?” chiese uno dei soldati.
Lithain non
rispose subito. Nel silenzio che seguì anche agli altri parve per un momento di
sentire una voce di donna che cantava, molto in lontananza.
“La Serpe,”
disse alla fine Lithain. “Mi sta chiamando.”
La maggior
parte dei soldati non capì quello che voleva dire, ma uno di loro conosceva
bene le leggende di Poi Lantà, perchè gli piaceva sedersi nelle taverne della
città ascoltando i racconti dei Poilantesi, e rabbrividì nel sentire questo.
Improvvisamente
una folata di vento agitò le fiamme e sembrò farsi più freddo. Lithain
rabbrividì e si allontanò di qualche passo dal fuoco, nella direzione in cui
era sparito l’Adepto.
“Capitano,”
disse uno dei soldati, cercando di richiamarlo.
Ma Lithain si
mise a correre senza badare ai loro richiami, e presto sparì nella neve come
prima di lui era sparito l’Adepto. Il calore, la luce e perfino il ricordo del
fuoco e delle facce dei suoi compagni erano stati dissolti dai fiocchi di neve
che gli bruciavano le guance. Lithain non aveva troppo freddo, perchè era cresciuto
in una terra molto più a nord, ma qualcosa nell’aria di quella giornata
poilantese gli gelava il cuore. Non sapeva in che direzione stava correndo:
sembrava che i suoi passi fossero guidati dal canto che sentiva. Passò davanti
al tempio dell’Imperatore, attraversò la piazza circolare degli Astrologi,
scendendo e poi risalendo le gradinate curve, pestando senza badarci i segni
neri che non erano ricoperti come
gli altri blocchi di pietra dalla neve, attraversò innumerevoli ponti e più di
una volta dovette salire sulle
scale a chiocciola che dal selciato della strada portavano ai tetti delle case,
e poi giù di nuovo, là dove le strade stesse erano state riempite di edifici.
Costeggiò il Canale dei Reggenti finchè non trovò il grande Ponte Kaloinas. Si inoltrò su per gli scalini fino a trovarsi
sotto i portici che proteggono
dalla vista del cielo chi attraversa il ponte, e benchè sentisse che quella era
la strada che anche il mago vestito di nero aveva percorso prima di lui, e lui
corresse più velocemente che poteva, non c’era traccia nè dell’Adepto nè di
qualunque altra forma di vita davanti a lui: solo una volta un gatto rosso
visibilmente seccato si alzò e si
spostò dal suo passaggio, e se Lithain fosse stato un Poilantese questo lo
avrebbe ancora più inquietato, poichè a Poi Lantà si sa bene che i gatti rossi
sono gli unici esseri che si possano permettere di non risentire degli effetti
della magia, perchè sono sotto la protezione della Ragione, essendo creature
dal sano istinto pratico. O forse, come sostiene qualcuno, i gatti rossi sono
loro stessi maghi più potenti di qualunque umano.
Ma Lithain
non sapeva niente di tutto questo. Quando si fermò, alla fine, respirava
affannosamente e la sua fronte era coperta di sudore, ma non era più così
terrorizzato come lo era stato quando aveva sentito per la prima volta la voce
chiamarlo. Ora quella voce taceva, e non sentiva più il bisogno di correre. Ma
davanti a lui c’era una torre, bianca e molto alta, e sulla porta c’era un
disegno che raffigurava un serpente nero con gli occhi di rubino, che alzava la
testa pronto a mordere. Lithain rabbrividì, perchè anche se la torre era
tipicamente poilantese, il portone in legno scuro era in stile settentrionale,
come se ne trovavano sulle porte dei castelli dei Signori delle terre
ghiacciate che anche per lui si trovavano a nord di casa. Lithain sguainò la
sua lunga spada e spinse la porta. Il portale di legno nero si lasciò
docilmente scostare dalla sua mano e rivelò l’interno. Lithain entrò e si
chiuse il portone alle spalle, perchè benchè l’interno fosse allarmante - lui
aveva imparato da bambino, come tutta la sua gente, ad avere una sacrosanta
paura dei Signori del Nord - l’aria gelida dell’esterno gli sembrava ancora più
carica di minaccia. Non appena fu entrato sentì un soffio d’aria sul viso, ma
non era il vento d’inverno, nè l’aria calda che viene da un caminetto acceso.
Era piuttosto la brezza fresca di una notte d’estate.
Lithain salì
la scala che si apriva davanti a lui, sempre con la spada sguainata in mano, e
quando arrivò alla sommità, si trovò in una grande sala invasa dalla luce del
fuoco.
Grandi
finestre a forma di arco si aprivano su di un lato, ma non era la luce fredda
del giorno che entrava da quelle finestre. Attraverso le arcate si vedevano le
innumerevoli stelle che illuminano Poi Lantà nelle notti d’estate, e il mare
era sgombro delle navi Orientali.
In quanto
alla donna seduta su un seggio di legno accostato alla parete, Lithain non
aveva bisogno di indovinare chi fosse: le leggende della sua gente avevano
descritto troppo spesso, e con troppi particolari, la Serpe, i suoi occhi
azzurri e i suoi capelli neri e stranamente ritorti, come lucidi, sottili
serpenti che le accarezzassero le guance e il collo.
In quel
momento, la Serpe teneva le sue mani sottili sulla testa di un gattino bianco,
come avrebbe potuto fare una qualunque nobildonna poilantese, anche se nessuna
dama cittadina avrebbe scelto di vestirsi di seta nera.
“Sei riuscito
ad arrivare, vedo,” disse la Serpe con una voce vellutata che ricordava quella
dell’Adepto. Quella frase parve a Lithain stranamente allarmante, come se la
Serpe fosse stata al corrente di qualche terribile pericolo che lui aveva
scampato e di cui non si era nemmeno accorto.
“Non
lasciarti spaventare dalla vista delle mie finestre,” continuò la Serpe. “Non è
grande stregoneria, ma solo un trucco per rendere più piacevole la mia casa.”
La Serpe si
chinò leggermente verso di lui.
“Lithain...
qual è il nome del tuo Clan?”
“Io non ho
Clan,” rispose Lithain parlando con un tono di reverenza che non avrebbe voluto
usare, ma che non potè evitare.
“No? Va bene,
Lithain, come vuoi. Lithain e basta. Eppure io conosco bene la tua vita, lo
dovresti sapere.”
“E’ per
questo che mi hai chiamato... signora?”
“Abbiamo una sola Signora, Lithain.” La
Serpe sorrise con tristezza, come se la Signora a cui alludeva avesse avuto
potere anche su di lei.
“Sì, sapevo
che saresti arrivato a Poi Lantà. O forse sarebbe meglio dire che sapevo che in
questo momento, a Poi Lantà, ci saresti stato anche tu. E ti ho chiamato perchè
ho bisogno di te. Oh, non farò finta di darti una possibilità di scelta. Tu mi
servirai, Settentrionale: lo faresti comunque. I miei sono ordini. Tuttavia ti
chiedo scusa per questo, perchè non sono abituata ad usare altri come pedine
nei miei giochi.”
La Serpe si
lasciò andare di nuovo indietro sullo schienale del suo trono di legno.
“Dammi la tua
spada, Lithain.”
Lithain non
avrebbe mai obbedito ad in simile ordine, nemmeno se gli fosse venuto dal suo
Signore su a casa. Ma sotto lo sguardo di cristallo della Serpe sguainò la
spada e gliene porse l’impugnatura. La Serpe prese l’elsa con una mano che
sembrava troppo fragile per poterla stringere, ma quando le sue dita si
strinsero su di essa Lithain notò che il suo viso si induriva, e lei alzò la
spada come se in tutta la sua vita non avesse fatto altro. Il gattino saltò a
terra e la Serpe si alzò in piedi. Teneva gli occhi fissi sulla lama. Lithain
la vide muovere con grazia il peso non indifferente della sua spada, poi ruotarla
sopra la sua testa e scagliarla dall’altra parte della sala. Lithain gridò.
Dal fondo
della sala gli rispose una risata bassa. Il giovane che gli aveva parlato nella
piazza dei Lamenti era in piedi nell’ombra e teneva la spada in mano. La ruotò
con la punta verso il basso e ci si appoggiò.
La Serpe si
risedette.
“E’ una bella
lama,” disse in tono un po’ remoto. “Ma io sono troppo vecchia per poterla
usare. Una volta anch’io avevo una spada come quella.”
L’Adepto si
avvicinò e restituì la spada a Lithain.
“Non abbiamo
molto tempo, Serpe,” disse.
“No, non
l’abbiamo, Adepto,” disse la Serpe.
Lithain
avrebbe voluto chiedere, ma non lo fece. Piano piano, la paura cominciava di
nuovo ad insinuarsi in lui. La Serpe lo fissava con occhi che, Lithain ne era
acutamente consapevole, avrebbero potuto se lei lo avesse voluto trasformarsi
in strumenti di morte.
Ma la Serpe
sembrava in quel momento niente di più di un’eccentrica dama seduta su una
semplice sedia nera nella sua sala dei ricevimenti.
“Io non
appartengo a questa città, ” sussurrò. “Io, Lithain, vengo da una terra che
anche tu conosci, e che ha ben poco a che fare con Poi Lantà: con le sue
tradizioni, con le sue ossessioni, con ciò che scorre nell’aria come l’acqua
scorre nei canali. Ma vivo qui da tanto tempo, da quando ancora l’Imperatore
risiedeva nel suo palazzo, ora ridotto in polvere da tanto tempo, da quando
ancora l’epoca d’oro di Poi Lantà doveva nascere e morire. E da tanto tempo
questa città è la mia casa. Non pretendo di capirla... nessuno, per quanto sia
saggio o per quanto sia potente, può pretendere di capire Poi Lantà. Ma d’altra
parte io non ho mai voluto capire: io ho sempre voluto soltanto vivere.”
La Serpe
guardò fuori, nell’illusoria estate poilantese.
“Questa città
fa parte di me, Lithain. La amo e la conosco di più di quanto non conosca la
terra che mi ha visto nascere. E ora io vedo e so che Poi Lantà ha pochi giorni
davanti a sè. Non protestare! La città e debole, da quando il vecchio Signore è
stato assassinato e Kaloinas è morto. La città è debole, ma non come può essere
debole un vecchio. Poi Lantà, uomo del Nord, invecchia ma non muore mai: si
rigenera e rinasce. La città sembra essere ricaduta indietro, è vero, in un
periodo di buio... ma io so che può tornare a splendere. Poi Lantà è troppo
saggia per guardare al passato: si prepara una nuova via. La Città è debole, ma
è debole come un bambino.”
Detto questo,
la Serpe tacque per un lungo periodo.
“Ma per ora,
la città è debole,” disse l’Adepto. “ E può essere ferita e uccisa. Se ora gli
Orientali la conquisteranno, non potranno tollerare il peso di una storia che
non è la loro. Raderanno Poi Lantà al suolo, e non potrà mai più risorgere.”
“Noi non
possiamo lasciare che Poi Lantà cada,” concluse la Serpe. “Tu ci servi,
Lithain. Tu ci servi per salvare Poi Lantà.”
Lithain
strinse le mani sull’elsa della sua spada e la sua espressione diventò più
scura.
“Che bisogno
hai di me, Signora? Tu sei più potente di qualunque altro da questa parte dello
stretto. Non hai certo bisogno di un mercenario come me... non sono molto
forte, Signora, non ho truppe che mi rispondano. E...”
La Serpe
scese dal suo seggio e rise forte. Mentre si avvicinava Lithain si accorse che
non era vestita di seta, ma di una
maglia metallica nera che la ricopriva da capo a piedi: un’armatura.
“Fidati di
me, Lithain, ed obbediscimi.”
I suoi occhi
sembravano splendere leggermente nella penombra. Passò accanto a Lithain e si
diresse verso il fondo della sala, dove ardeva il fuoco. Lo guardò a lungo e
poi stese una mano. Una fiamma balzò dal caminetto e arse sulla sua mano. La
Serpe sussurrò qualcosa e improvvisamente tutta la stanza prese fuoco, perfino
i vetri e la figura immobile dentro il manto nero dell’Adepto. Lithain urlò di
rabbia e terrore e brandì la sua spada anche se sapeva bene che non gli sarebbe
servito a molto.
La Serpe
cominciò a cantare fra le fiamme e la stanza intorno a loro si dissolse,
lasciando solo le fiamme. Poi improvvisamente il canto cessò e le fiamme
scomparvero. La stanza era ancora intatta, l’Adepto era immobile, il caminetto
ardeva quietamente e Lithain tremava tenendo ancora la spada sguainata.
La Serpe
guardò l’Adepto e disse: “Ora puoi andare. Non c’è tempo da perdere.”
Prima che
Lithain potesse sbattere le palpebre la Serpe scomparve, come se in realtà non
fosse mai stata in quella stanza, come se fosse tornata aria, o fuoco, o luce.
L’Adepto si
voltò verso Lithain, si tolse il cappuccio e sorrise. Aveva un volto scarno,
scuro, con due occhi neri e molto vecchi in una giovane faccia poilantese.
“Sei
spaventato. Be’, questo non è davvero strano. Non sei il primo a spaventarsi di
fronte alla Serpe.”
L’Adepto
sembrò guardarsi intorno e la sua espressione divenne più seria.
“Ti stai
chiedendo dove è andata? Bene, mercenario, me lo chiedo anch’io. E non so
davvero se sarà ancora qui ad attenderci quando ritorneremo.”
“Se
ritorneremo,” disse Lithain cupo. “Perchè mi sembra che in questo gioco
di grandi maghi e flotte Orientali io non abbia molte possibilità, non è vero,
Adepto?”
L’Adepto si
girò e, come se uscisse in un
qualunque giorno d’estate per fare due passi, varcò il portone della torre
aspettando che Lithain fosse passato prima di chiuderlo.
“Lithain, non
sei fiero di offrire la tua vita per salvare la città?”
Lithain sentì
l’ironia e lanciò al suo scuro compagno, che camminava disinvolto nella neve
turbinante come se non sentisse freddo, uno sguardo duro.
“Io non
appartengo a questa città.”
“Tutti
appartengono a questa città,” disse l’Adepto con improvviso slancio. “Questa
città è il centro di molte cose. E’ da qui che partirà la salvezza, se salvezza
ci sarà mai.”
“Quale
salvezza?” chiese Lithain perplesso.
“La salvezza
è qualcosa di diverso ogni anno,”
rispose l’Adepto.
Lithain
scosse le spalle e lo seguì senza fare domande. Per un certo tempo considerò
l’idea di scivolare via alle spalle del giovane mago senza farsi vedere e
tornare ai suoi affari: ma sapeva bene che non si può disobbedire ad un ordine
della Serpe: e in particolare non poteva farlo uno della sua razza. E poi,
Lithain era stato un uomo d’onore, un membro di un grande Clan: non gli piaceva
fare il mercenario. Era stato cresciuto per combattere per una causa, un
Signore, una patria. Non conosceva la causa della Serpe, ma la sua anima era
molto più tranquilla perchè non combatteva più per denaro.
La neve li
nascose entrambi, e per un attimo Lithain credette di vedere ombre strane
scivolare accanto a sè, e l’eco di un canto.
Lithain si
voltava, a volte, per guardare l’esercito che marciava dietro di lui, come se
temesse che da un momento all’altro potesse dissolversi nella limpida aria
invernale. Chi lo guardava non poteva leggere esitazione nel suo sguardo:
Lithain aveva comandato dei soldati per tanto tempo e sapeva che con un’armata
come la sua, che cercava sopratutto bottino e seguiva quasi ogni giorno un capo
diverso, esitazione poteva voler dire un repentino cambio della Fortuna. Ma
nondimeno, l’esitazione c’era. Non riusciva a credere che fosse davvero
successo. Era andato in giro per le campagne e i villaggi dell’entroterra e
aveva gridato le sue promesse come aveva fatto tante altre volte, raccogliendo
di solito due o al massimo tre uomini per volta, e più spesso nemmeno quelli;
mentre questa volta, come per un miracolo, dovunque andasse le parole gli
sembravano venire fuori diverse, più convincenti, quasi stregate, e frotte di
giovani e vecchi correvano ad arruolarsi. Se fosse successo quando era ancora
al servizio del suo Clan, se avesse potuto portare tanta gente al suo
seguito...
Sapeva,
naturalmente, cosa era successo: era stata la Serpe a dargli la capacità di
stregare quegli uomini. Lui le era servito come portavoce e strumento, ma era
il suo esercito quello che lui guidava. E proprio per questo si sentiva
inquieto.
Si fermò
quando, quasi sulla spiaggia, vide il gruppetto d’uomini che circondavano una
figura magra e scura. Ordinò ai suoi aiutanti di rizzare le tende e accamparsi,e
scese da cavallo. L’Adepto sembrava quasi meno magro di prima, vestito di sete
e ori.
“Sembra che
tu abbia fatto fortuna,” disse Lithain.
“Non
proprio,” disse l’Adepto in tono condiscendente. “Ma, sai, il Nobile Brassa mi
tiene in alta considerazione. Crede che io possa portarlo al trono.”
“Il che
probabilmente è vero,” borbottò Lithain.
“La barca ci
attende,” rispose l’Adepto.
Lithain
impartì gli ultimi ordini e poi seguì l’Adepto e il suo seguito sulla
aggraziata barca poilantese. La stessa Poi Lantà sorgeva in mezzo alla baia,
tanto grande che sembrava in qualche modo sconfinare dalla grande insenatura.
“Sì,” disse
l’Adepto. “Come vedi, è ancora là. I tuoi guastatori fanno un buon lavoro con
il sabotaggio delle navi Orientali, e i poilantesi sono riusciti a rompere
l’assedio quel tanto che basta per far arrivare un po’ di provviste e cibo,
grazie ai tuoi uomini, qui in Laguna, che hanno tenuto a bada le loro bande di
pirati. Anche se non ti devi aspettare troppa riconoscenza. I poilantesi
preferiscono pensare di avere fatto tutto loro, e dovere qualcosa a un
Settentrionale gli brucia.”
Lithain
guardò la città ammirato come la prima volta. Anche se cinta d’assedio, Poi
Lantà sembrava tranquilla e dignitosa.
“E ora cosa
devo fare?”
“Ora,
mercenario, devi presentarti al Nobile Brassa e giurargli fedeltà.”
“A Brassa?”
“Certo. Non
penserai che il tuo esercito da solo possa salvare Poi Lantà.”
Lithain non
rispose. Ormai aveva imparato che
dall’Adepto non ci si potavano aspettare spiegazioni. D’altra parte sapeva cosa
voleva l’Adepto: usare le sue truppe mercenarie come una minaccia per il
Signore di Poi Lantà e un aiuto per conquistare il potere. L’Adepto volevo
essere al timone quando finalmente la tempesta sarebbe arrivata.
Eppure
Lithain percepiva qualcosa di sbagliato nell’Adepto. La sua sicurezza non era
la stessa oscura serenità che aveva visto nella Serpe. E l’Adepto gli sembrava
in fondo solo un uomo, mentre la Serpe era molto di più di questo.
Comunque,
Lithain seguì l’Adepto. Lo seguì dovunque andasse e in qualunque cosa gli
ordinasse: non perchè si fidasse di lui, non perchè gli fosse fedele. Lo seguì
perchè sentiva che quella era la strada giusta: lo sentiva nelle ossa e nel
sangue, come sentiva il vento dell’Est anche quando l’aria era immobile, anche
quando si trovava molto lontano dal suo paese dove d’inverno il Tail Arhun
soffiava con regolarità portando sventura. Lo seguì perchè Poi Lantà gli
sussurrava di farlo, in attesa di poter scegliere la propria strada.
Vivere nel
palazzo dei Brassa gli era difficile. Aveva conosciuto il Nobile Brassa e lo
aveva giudicato un uomo troppo autoritario e ambizioso perchè Lithain potesse
continuare a dormire tranquillamente sotto il suo tetto. Era un uomo
affascinante, che trascinava con sè tutto ciò che incontrava, e Lithain non era
affatto sicuro che quello verso cui li conduceva non fosse un abisso di
distuzione e rovina. Non aveva la forza dell’Adepto, che sembrava poter vivere
al suo fianco senza sentirne nè il fascino nè la minaccia. E i cortigiani che frequentavano
il palazzo erano troppo simili a quelli che Lithain ricordava dalla sua
infanzia al Nord: troppo abili e troppo astuti. Sapeva per amara esperienza
quanto fossero pericolosi.
Così Lithain
faceva la sua comparsa al palazzo solo raramente, quando l’Adepto glielo
ordinava, e sempre più spesso tornava all’esercito che aveva lasciato sulla
terraferma. A volte guidava l’assalto a una nave Orientale oppure ad un
villaggio dell’entroterra - meglio
se manifestava qualche sintomo di insofferenza al rifornimento di Poi Lantà che
gli stessi Poilantesi gli imponevano, ma principalmente solo per mantenere la
disciplina nel suo esercito, e fornirgli il bottino che gli aveva promesso.
E ancora più
spesso passava il suo tempo nella città stessa, la città assediata e -
nonostante le sue incursioni - affamata. Erano passati pochi mesi da quando
aveva incontrato la Serpe e Poi Lantà sembrava ogni giorno più stanca. Lithain
girava per le strade strette, saliva sui tetti là dove le strade erano state
bloccate, passava sui ponti, e tutto ciò che vedeva destava in lui meraviglia e
pietà. Meraviglia, perchè Poi Lantà era una città molto antica e molto bella,
piena di misteri e di calde pietre levigate nei pomeriggi di sole anche
d’inverno, e di gatti che sembravano più saggi e più felici degli uomini.
Pietà, perchè ogni giorno si accorgeva di più di quanto debole e indifesa fosse la città, e di come
nelle strade i suoi cittadini si abbandonassero alla disperazione e all’angoscia nell’attesa che l’assedio terminasse e
gli Orientali sbarcassero.
Eppure
Lithain guardava tutto questo come un estraneo, e non ne veniva molto toccato.
Quando Poi Lantà fosse caduta, ebbene... si augurava di poter salvare la vita.
La morte di Poi Lantà in fondo non gli sarebbe pesata troppo sull’anima.
Poichè le
notti erano lunghe e nessuno dormiva quando i proiettili incendiari degli
Orientali fischiavano nell’aria invernale, che già cominciava a diventare un
po’ meno cruda, Lithain aveva cominciato a cercare compagnia nelle taverne
oppure alle feste sempre più frenetiche, sempre meno abbondanti di cibo e
bevande e sempre più sfarzose di gioielli e tessuti, che gli aristocratici
poilantesi cercavano di mettere fra sè e la paura. Le donne poilantesi erano
espansive, calde e prive di pudore: diverse da quelle del Nord, ma sebbene
provasse un certa blanda disapprovazione Lithain non era addolorato dalla
differenza, e pensava che di certo, quando Poi Lantà fosse caduta, quella
facile mancanza di vergogna gli sarebbe mancata.
Poi, quasi
per caso, capitò nella grande casa di donna Kea Brassa, la sorella del Nobile
Brassa, meno potente ma più popolare di lui. Viveva ritirata nella sua casa, ma
non era mai sola: forse per combattere l’angoscia, forse per sfuggire alla
vista di Poi Lantà che bruciava per i proiettili Orientali, forse perchè lo
avevano sempre fatto, i poeti e i musicisti della corte del Nobile Brassa, i
filosofi del Signore e gli artisti convergevano ogni sera sulla sua casa senza
finestre, dove potevano cantare i suoi ciechi occhi azzurri sempre rivolti a
qualche visione che gli altri non potevano condividere. Lithain ci arrivò
perchè l’Adepto lo portò, e pensò che il giovane mago volesse usarlo come
pedina in qualche gioco politico fra lui e donna Brassa. Tuttavia, mentre
sedeva ai piedi della donna, Lithain trovò qualcosa che cercava da quando aveva
parlato alla Serpe. Trovò Poi Lantà e la fedeltà che gli doveva - che ogni
creatura vivente gli doveva. Non sapeva quali fossero i sogni che Kea Brassa
tesseva nell’aria, ma sapeva che anche lui li aveva condivisi, ed era pronto a
servirla in qualunque cosa. Ed erano i sogni che la Serpe aveva tentato di
spiegargli, la concorrenza di tutto in un posto: lì: a Poi Lantà. Lithain
seppe, come se si fosse trattato di ricordare qualcosa che aveva sempre saputo,
che a lui il futuro non si nascondeva.Seppe che se avesse guardato nelle stelle
queste gli avrebbero detto che da Poi Lantà doveva nascere il mondo nuovo e che
a Poi Lantà si sarebbe sempre conservato il vecchio mondo. Kea Brassa non era
come la Serpe una creatura su cui il tempo non aveva potere. Kea Brassa era il
presente vissuto, il passato ricordato e il futuro progettato.
Quando tutti
se ne furono andati Lithain si fermò ai piedi del seggio di Kea Brassa e le
disse quello che sapeva. La donna gli rispose con uno dei suoi sorrisi leggeri
e ridenti, e Lithain le chiese di servirla. La Nobile Brassa rivolse il suo
strano sguardo cieco sui suoi occhi, sorrise e lo accettò.
Così per un
breve intenso periodo Lithain fu per lei gli occhi e la voce: portò i suoi
messaggi ai potenti di Poi Lantà in una struttura complicata che a volte si
sovrapponeva, e a volte no, con i disegni del Nobile Brassa. Kea Brassa
combatteva a suo modo la guerra, una guerra di diplomazia più che di spada, una
guerra in cui non si possono vincere battaglie, ma solo l’intera campagna, una
guerra abile e sottile di lusinghe e promesse e velate minacce. Per lei,
Lithain entrò di notte fra la Flotta Orientale, viaggiò attraverso il loro
blocco fino a re e Signori e governanti lontani e indifferenti, avvolgendo il
mondo in una rete i cui capi erano a Poi Lantà, fra le mani di Kea Brassa. Per
un breve periodo Lithain vide come Poi Lantà potesse vincere solo grazie alla
tranquilla solidità di una donna che conosceva molte persone. Per un breve
periodo Lithain pensò che la magia della Serpe non sarebbe stata necessaria. Ma
poi alcune cose lo turbarono.
L’Adepto un
giorno venne da lui, vestito in modo sempre più splendido, sempre seguito da
un’invisibile aura di potere, in un giorno in cui il suo potere stava crescendo
sempre di più. Venne da lui e gli parlò con voce nervosa.
“Devi rompere
i tuoi rapporti con quella donna,” disse. “Lithain, è a me che devi obbedire,
non a quella pazza.”
“Credevo che
facesse parte del tuo piano,” disse Lithain.
“Sì, ed è
proprio per questo che ne devi stare lontano. Devi metterti in testa, Lithain,
che le non può salvare Poi Lantà. Io sarò quello che lo farà. E lei sta
intralciando le mie mosse. Potrebbe essere necessario eliminarla.”
Lithain non
disse niente, perchè era troppo perplesso e turbato. Ma continuò a frequentare
la casa di Kea Brassa.
Poi vide
l’Adepto durante una delle serate a casa di Kea, vide i suoi occhi mentre guardava la donna, e poichè cominciava a
vedere più in profondità degli altri, vide anche quello che l’Adepto portava in
cuore.
Fu allora che
la magia dell’Adepto cominciò a diventare sempre più onnipresente, sempre più
pervadente - sempre più necessaria alla sopravvivenza di Poi Lantà.
Domava le
fiamme, quando le fiamme divampavano, faceva sì che il vento soffiasse da una
direzione e non da un’altra, alzava veli di nebbia davanti agli attacchi degli
invasori. Lithain lo vedeva, a volte, in piedi su uno dei moli più lontani
dalla terra o su una delle vecchie torri disabitate di Poi Lantà, mentre
guardava il cielo con occhi vitrei e sembrava che l’aria tagliente tutta si
dirigesse verso di lui. Ma ogni giorno sembrava più stanco e più impaurito, e a
volte Lithain lo incontrava nelle osterie di Poi Lantà mentre dormiva con la
testa appoggiata ad un tavolo. Lithain scuoteva la testa. Qualunque cosa
volesse l’Adepto, spegnere gli incendi o levare veli di nebbia davanti alle
navi Orientali non sarebbe servito in eterno. Anche disperdere la flotta
Orientale non sarebbe stato sufficente, perchè un’altra flotta poteva tornare
dopo qualche anno - dopo la morte del mago di Poi Lantà.
Così, ogni
giorno Lithain guardava a Kea Brassa con più fiducia e sentiva di essere più
sereno. Bene o male, stava facendo quello che era meglio.
Ma poi una
notte in cui la pioggia batteva sui vetri della sua casa e nemmeno il fuoco che
continuava a ravvivare riusciva a scacciare il senso di umidità e di tristezza
che avvolgeva tutta la città, Lithain aprì la porta ad un messaggero bagnato
fradicio e tremante di paura. Il messaggero era un ragazzo, un bambino dagli
occhi azzurri e perfino i suoi capelli sembravano spaventati. Lithain dovette
asciugarlo e dargli del liquore forte prima che potesse dirgli quello che era successo.
Poi prese il
suo mantello e corse fuori nella
pioggia per trovare l’Adepto. Corse in una Poi Lantà alle soglie della
primavera, buia e minacciosa, che quasi non riconosceva. L’acqua scorreva
furiosa nei canali, e tutti gli archi sgocciolavano, c’era acqua sul selciato
che entrava nelle scarpe attraverso le suole, e tutti i gatti si erano
nascosti, forse negli unici luoghi asciutti e riparati dal vento di tutta Poi
Lantà, luoghi sconosciuti agli uomini e che solo i gatti sanno trovare.
Lithain corse
nella pioggia maledicendo tutto
quello che vedeva, perchè quella notte tutto gli sembrava ostile.
Finalmente
trovò l’Adepto, nel palazzo dei Brassa, il palazzo che era stato costruito
sull’estrema punta di Poi Lantà così che chiunque arrivasse alla città lo
vedeva come prima cosa, un faro bianco che guidava i mercanti in porto.
“Sei stato
tu, vero?” disse a metà fra collera e disperazione.
“Io?” rispose
l’Adepto alzando le sopracciglia.
“Tu, a far
arrestare Kea Brassa. Adepto, non mentire. Lo so che...”
“Diciamo che
ho suggerito il provvedimento.”
“Adepto, ma
tu sei...”
“Lithain,
cerca di ragionare. Quella donna stava distruggendo tutto il mio lavoro, e
anche il tuo.”
Lithain lo
guardava freddamente, in piedi davanti alla scrivania dietro alla quale l’Adepto
sedeva quasi seppellito fra le carte.
“Ma la
uccideranno!”
“Be’, non è
ancora stata trovata colpevole.”
“Di
stregoneria? Tu vuoi scherzare. Lo sai che fama ha. E poi nessuna donna si
salva mai da un’accusa simile.”
“Tu non sarai
coinvolto.”
Lithain mosse
le mani in segno di sconforto.
“Adepto non è
a questo che sto pensando!”
L’Adepto non
rispose, ma lo guardò come per dire: Ho
ragione e tu lo sai benissimo.
Lithain si
buttò a sedere su una seggiola.
“Tu la amavi,
Adepto.”
“Non lo
chiamerei amore, io...” disse l’Adepto sotto voce. Si alzò e ripose uno dei
suoi libri dopo averne prese un’altro dallo stesso scaffale. Era pesante, da
come la teneva, lungo quanto il braccio di un uomo e grosse quanto un pugno, e
l’oro con cui era stato decorato era quasi del tutto sbiadito.
“Diciamo che
ne avevo paura, Lithain. Una paura tremenda.”
“Non contare
su di me, in futuro,” disse Lithain. Ma sapeva che era una minaccia vuota.
Nei giorni
seguenti si aggirò per la città diventata improvvisamente gelida e piovosa,
dopo che per un lungo periodo un’estate precoce la aveva percorsa. Si fermava
all’inizio dei ponti per guardare la prospettiva di un canale e la bellezza
dell’acqua verde e delle pareti delle case che sorgevano da essa verticalmente.
Si sedeva sui gradini dei pozzi e
prendeva in braccio i magici e rognosi gatti di Poi Lantà, che facevano le fusa
per consolare le sue lacrime. Si fermava davanti ai templi, da tanto tempo
sbarrati, dedicati al culto della Dea, quando era sicuro di non essere visto.
Lithain aveva preso ad amare la vita e non voleva più gettarla per un atto
eroico. E la fede nella Dea poteva essere una prova di stregoneria, quella che
poteva perderlo.
Per giorni e
giorni si aggirò così tristemente per Poi Lantà pensando a Kea Brassa rinchiusa
nelle terribili prigioni della città. Non chiese notizie ma le notizie lo
cercavano in ogni taverna di Poi Lantà - notizie gridate con riso e disprezzo,
e che lui accoglieva guardando nel fuoco per celare la sua malinconia, notizie
della strega. Era davvero ironico che Kea Brassa, forse l’essere meno
metafisico dell’intera città, fosse accusata proprio dall’Adepto, che era
veramente uno stregone.
E venne
finalmente il giorno in cui lui come molti altri giunse in una delle tante
piazze di Poi Lantà per vedere bruciare una delle tante streghe di Poi Lantà su
uno dei tanti roghi di Poi Lantà. Arrivò presto e tremò nel vedere le ombre addensarsi negli angoli della
piazza. Per la donna che moriva quel giorno Lithain non pregò, perchè nessuna
preghiera avrebbe mai potuto riparare a quello che veniva fatto: ma dentro il
suo cuore cantò la sua rabbia e il suo dolore.
Non tremò nel
vederla, anche se i suoi bei capelli erano stati tagliati e i suoi occhi ciechi
inutilmente strappati dalle orbite, perchè c’era la sua rabbia a sostenerlo.
Non tremò quando il fuoco la avvolse, ma cantò dentro di sè al ritmo delle
fiamme. Lasciò che il calore lo circondasse e poi anche l’ultima cenere fu
trascinata via dal vento.
E poi pianse.
Quando sulla piazza non ci fu più nessuno, nemmeno la sua ombra, Lithain pianse
come nessun guerriero dovrebbe fare. Pianse senza più rabbia a sostenerlo ma
solo dolore, dolore nel cuore e nel cervello, dolore negli angoli bui della
piazza e nelle pietre del selciato, perfino nelle stelle fredde sopra di lui.
Pianse a lungo senza mai alzare gli occhi, e quando lo fece c’era una donna
davanti a lui, una donna vestita d’ombra e velata, quasi una visione. La donna
vestiva una cotta di maglia e teneva in mano la sua spada, a cui si appoggiava.
“Ogni volta
che una donna viene uccisa perchè era bella, o perchè era brutta, o perchè era
amata o amava la persona sbagliata, o solo perchè era quello che era, io sono
qui a piangerla,” disse la Serpe. “In fondo, anch’io sono una strega.”
“Serpe,
perchè non l’hai impedito?” gridò Lithain.
“Perchè non
era compito mio, Settentrionale. E perchè la salvezza della città chiede un
prezzo di sangue. Non sono stata io a stabilirlo. Non sono stata io a scegliere
la vittima. Se avessi potuto, l’avrei salvata, ma non sono onnipotente, e sono
disposta ad usare il suo sangue.”
La Serpe si
chinò e gli offerse la mano per rialzarsi.
“Conosci le
antiche leggende, Lithain? Quando l’uomo rubò agli dei la Ragione fu questa la
punizione che venne decretata: che avrebbe sempre avuto paura della morte.”
“Sì, lo so,”
disse Lithain perso nello sguardo della Serpe.
“Ed è una
punizione doppiamente crudele, perchè da allora gli uomini hanno avuto quasi
altrettanta paura dell’amore, perchè pensano, e non del tutto a torto, che le
due cose abbiamo molto a che fare.”
Lithain
rimase in silenzio.
“Un prezzo
molto duro da pagare, Lithain. Pochi riescono a sottrarvisi. Gli antichi saggi
dicono che ci sono due vie per uscire da questo dilemma: una è rinunciare alla
ragione, e l’altra è essere un giorno più potenti degli dei stessi. Quel
giorno le due metà del mondo
torneranno assieme e l’oscurità e la luce saranno di nuovo una cosa sola. E gli
uomini e le donne potranno disegnare figure fra le stelle e tuttavia leggere in
esse.”
“Ma Kea nel
frattempo è morta,” disse Lithain, amaro.
“Non è lei
che ha pagato il prezzo più alto, Lithain,” sussurrò la Serpe.
Lithain prese
la sua mano e si alzò.
La Serpe alzò
le braccia e la faccia alle stelle, e per un momento rimase immobile e in
silenzio così, gli occhi chiusi. Quando riabbassò la testa, Lithain si fece
sfuggire un’esclamazione: davanti a lui stava di nuovo Kea Brassa, gli occhi
sfolgoranti di luce, il sorriso della Serpe.
“Ora vieni,
Lithain, vieni con me e aiutami a salvare Poi Lantà.”
E Lithain la
seguì, ma non rinunciò alle domande.
“E l’Adepto?”
“L’Adepto non
può più far niente,” rispose la Serpe. “Temevo che avrebbe finito per fallire.”
Mentre
passavano su un ponte Lithain guardò nell’acqua e vide la figura dell’Adepto,
seduto su uno dei moli, accasciato sullo sfondo rosso dell’alba che sorgeva e
delle navi Orientali, con il volto nelle mani, immobile.
“Ha perso la
sua magia,” disse la Serpe.
Lithain
oltrepassò il ponte e raggiunse la Serpe e insieme svanirono, forse rimanendo
visibili solo agli occhi dei gatti, che sanno sempre tutto e per questo non
hanno mai veramente paura.
Quel mattino
la flotta Orientale attaccò e alcune delle navi arrivarono perfino a toccare i
moli di Poi Lantà, ma alle loro spalle comparve un’enorme flotta, quella che
Kea Brassa aveva radunato, una flotta di Signori di città lontane che si
sentivano minacciate dell’avanzata Orientale. E a guidare la battaglia
comparve, rinata dal fuoco, Kea
Brassa, con gli occhi non più ciechi, ma sfolgoranti, e tutta la potenza degli
dei oscuri ai suoi ordini, la potenza che aveva portato con sè emergendo dagli
inferi, come disse la gente nei secoli che vennero.
In quanto a
Lithain e la Serpe, per sapere quello che è avvenuto a loro bisogna prestare
fede alle poco sicure voci che corrono a Poi Lantà: e che dicono che quella
mattina l’Adepto morì per non essere riuscito a seguire la via della Serpe, ma
che Lithain ritrovò nel vento la voce del genio amico degli uomini, il consorte
della Dea, l’Esiliato, e che riuscì a togliere la maledizione dal mondo. Dicono
che lui e la Serpe convocarono la flotta che aiutò Poi Lantà e le diedero la
vittoria. Dicono anche che Lithain rimase un mortale, per vivere accanto alla
Serpe mascherando la sua magia e morire al suo fianco quando lei era ancora
giovane, ma che comunque entrambi riuscirono a trovare la via per i posti
asciutti e riparati dove vanno a rifugiarsi i gatti. Lì la Serpe vive ancora,
da qualche parte, a Poi Lantà.