L’astrologo

 

F

 

 

orse è solo sonno. Forse i muscoli tremanti e gli occhi spalancati e questo nodo alla gola sono solo provocati dal sonno che cerca di impadronirsi di me. La mia bocca è secca e i miei denti si sono serrati senza che io lo volessi.

Ma cosa può spiegare questa angoscia che sento non solo dentro di me ma anche nell’aria pesante di caldo? Non il sonno certamente. Aspetto qui in questa torre che dà sulla parte meridionale della città e più oltre sul mare, e  so che verranno.

Certamente ho paura di morire, come potrei negarlo? Ma  non è solo per questo che aspetto qui con gli occhi dilatati. Non voglio morire per mano di quelli per i quali  ho lottato tanto a lungo. Eppure le stelle mi parlano, e mi dicono proprio questo: che verranno, verranno di notte, mentre la luna si riflette sull’acqua del mare, mentre Poi Lantà dorme, sogna, e forse si agita in un incubo. Le ho interrogate per tutta la notte, e ora me ne sto qui alla mia finestra a guardare il sole che sorge, e so che l’arco che descrive nel cielo segna il tempo che mi rimane.

Non sono così vecchio: ho appena cominciato a intravvedere la vastità del sapere che mi attende, ho appena provato cosa vuol dire essere saggi. I pescatori che tornano ora ai moli di Poi Lantà alla mia età solcano ancora il mare e hanno ancora molti anni di fatica davanti a sè prima di sedersi sulla soglia di casa guardando i figli che prendono il mare.

Mi alzo quando il sole comincia appena a scottare, e scendo i gradini con attenzione, perchè il sonno mi fa barcollare. E’ davvero un peccato che la mia ultima giornata sia rovinata da una nottata passata ad interrogare le stelle, ma almeno è una giornata di sole. Mi siedo per un attimo sui gradini, illuminato da una striscia di sole che viene da una delle ferritoie. Ecco, penso, la mattina, la mattina fresca in cui l’aria è ancora piacevole, in cui la luce del sole è di un giallo chiaro, in cui l’atmosfera è ancora chiara e limpida, se ne è andata,  e se ne è andata per sempre. Non posso fare niente per farla ritornare, e non la vedrò mai più. Esco di casa senza fare colazione. Ho la gola troppo stretta per mangiare. Ho voglia di vedere la mia dolce e malvagia città per un’ultima volta prima di andarmene per sempre. Ma prima di tutto c’è un dovere che devo compiere.

Mi incammino col mio bastone e i miei sandali di cuoio vecchio e consumato verso il palazzo del Signore, il Reggente per quell’Imperatore che se ne è andato tanto tempo fa, partito per la guerra in regioni lontane e mai più tornato. E’ molto tempo che non varco i cancelli d’oro del palazzo, ma sembra che le guardie mi riconoscano, perchè mi lasciano passare inchinandosi fino a terra, senza farmi domande. I nobili si scostano al mio passaggio, si inginocchiano sui loro sandali d’oro e non mi rivolgono la parola per primi. In un’altra occasione forse passerei salutandoli con orgoglio, ma non ora. Davanti alla sala del trono mi ferma uno dei servitori e mi dice che il Signore di Poi Lantà mi attende nella sua camera. Dunque è vero quello che si dice in città: è malato. Gliel’ho detto tanto tempo fa, e si è dimostrato vero. Non gli ho mai predetto la sua morte, ma per quello non ci vuole un astrologo. I sintomi sono stati chiari fin dal primo manifestarsi, anni fa, e i suoi medici non hanno potuto nasconderglielo.

Ha una strana aria meditativa e triste, ma io lo conosco bene: è un uomo che non si arrende. Sotto quel volto dolce e quasi femmineo, quegli occhi sognanti non sognano: vedono lontano e in profondità. Non è un debole, come dicono i suoi nemici, che lo deridono per il suo aspetto e la sua salute fragile: è un uomo scaltro, abile e fermo. Poi Lantà lo ama, e ha dimenticato con sorprendente rapidità il sangue con cui lui ne ha macchiato le strade.

“Kaloinas!” mi saluta.

“Signore.”

Che posso dirgli? Finora non sono riuscito a ripetere nemmeno a me stesso quello che ho letto nel cielo. Mi inginocchio ai piedi del letto.

“Fino ad oggi vi ho sempre dato buoni consigli, Signore.”

“Ultimamente però non ti sei fatto vedere spesso, Kaloinas. So che stai scrivendo un trattato di filosofia... su, non fare quella faccia;  non ti ho fatto spiare, ma ho dei buoni informatori: è stato uno dei tuoi consigli.”

“Sì, ma siete stato voi a metterlo in pratica, e molto bene, a quanto pare.”

“Non adularmi Kaloinas, non anche tu, ti prego. Spero di leggerlo presto, il tuo trattato, se tu mi ritieni all’altezza.”

“Non sarà mai terminato, mio signore.”

Mi guarda con quell’aria accigliata che gli è tanto tipica nei momenti di tensione.

“Cosa vuoi dire?”

“Che non manca molto alla mia morte, mio signore. Non potrò più servirvi, nè finire il mio trattato. E credetemi, mi disapiace enormemente.”

“Cosa intendi, Kaloinas? Tu non sei certo un fatalista.”

“Oggi ho ceduto alla tentazione di rivolgere alle stelle la domanda che nessuno dovrebbe fare: ho chiesto quando mi sarebbe stato dato di morire. E ho ricevuto una risposta.”

Abbassa gli occhi e parla sottovoce.

“Le stelle possono sbagliare.”

“Vi ho mai predetto qualcosa che non si sia avverato?”

Il mio signore scuote la testa e mi guarda con occhi nocciola, strani e remoti.

“Quanto ti resta, Kaloinas?”

“Solo questo giorno.”

“Solo questo giorno. In questi ultimi mesi ho tanto sofferto al pensiero di lasciare i miei amici, ma non ho mai pensato a quanto peggio potesse essere che loro lasciassero me. E ora succede anche questo. Cosa ti posso dire, amico mio? Qualunque cosa tu voglia è tua. Qualunque cosa tu possa desiderare.”

“Ho bisogno di una sola cosa, mio signore, e quella non me la potete dare. Ma c’è qualcosa che io vi devo dire prima di andarmene. Voi siete importante, principe: su di voi fa perno tutto il continente. La sua pace e il suo benessere dipendono dalla saggezza e la lungimiranza con cui sapete reggere Poi Lantà e trattare con le nazioni del Continente. Avete ancora poco tempo per mettere da parte il vostro orgoglio, e trovare qualcuno che sia abile, intelligente e spietato come voi per farne il vostro erede.”

Sorride. E’ così giovane. Il suo regno è stato così splendido, e sarà così breve.

“Qualcuno che non sia mio figlio, vuoi dire? Già, lo so: mio figlio non è nè abile nè intelligente. Ed è troppo giovane. Hai ragione. Ma per insegnare anche solo una parte di quello che serve per governare avrei bisogno di anni ed anni. E io non ho tanto tempo. La mia malattia non è il solo problema che mi tormenta.Fra poco sarò troppo debole per governare. Non saprò difendermi come ogni uomo di governo poilantese deve fare, e una congiura fra le tante avrà ragione di me. No, Kaloinas: lascia che ciò che deve essere sia. Niente è certo e io ho fatto quello che potevo. Non voglio pensare alla morte. La morte non è niente.”

Chiude gli occhi e sembra perdersi col pensiero molto lontano. So che non c’è più niente che io possa dirgli, e già metà della giornata è trascorsa.

Mi allontano dal palazzo pieno di amarezza. So che il principe ha ragione:che cos’è la morte perchè la si debba temere? Solo un termine di cui non si può fare esperienza. Ma forse lui è più forte di me, perchè io la temo, e ci penso in ogni istante.

Non penso che i vuoti riti religiosi dei poilantesi possano sollevare il mio cuore. Sono sempre un filosofo, dopo tutto, e non dimentico che pochi anni fa sono stato gettato in un carcere dai sacerdoti di Poi Lantà, esattamente come loro non dimenticano la mia setta e l’affronto che per loro ha costituito il decreto che ci permetteva di esistere alla luce del sole. Ma entro nel grande tempio dell’Imperatore; perchè là si trova il nostro passato, il passato d’oro che tanto ho cercato e che ora non avrò più il tempo di riportare alla vita. Nel buio guardo le statue degli Imperatori e dei vecchi dei, e alla fine mi avvicino alla cappella disadorna dove siede, avvolta nel suo manto di pietra grigia, al Dea delle Tenebre, la Misericordiosa, col volto dolce e triste che ricorda curiosamente quello del Signore.

“Sapevo che saresti venuto qui.”

Mi volto di scatto, perchè la voce che ha pronunciato queste parole è dolce e profonda  come dev’essere quella della Dea Grigia. Ma chi ha parlato è una donna in carne ed ossa, o almeno così mi pare, anche se è difficile dirlo nella penombra, dove sembra che le cose perdano sostanza e diventino ombre.

Io la conosco bene: nemmeno il signore della città è al corrente della sua esistenza, e chi ha sentito parlare di lei pensa che si tratti di una leggenda cupa, nata nella notte in una taverna di Poi Lantà dal troppo vino. Ma io so che esiste, e a volte nella notte la sento cantare domando il tempo e la materia. E’ molto più potente di me, perchè non è legata alla legge della Fortuna. Lei può fare e disfare e credo che nemmeno la Morte ormai abbia su di lei alcun potere. La chiamano la Serpe, nelle taverne, ma da molto tempo i filosofi la conoscono come l’Oscura. E’ avvolta da stoffa nera che sembra celare di più di quello che appare, e solo i suoi occhi sono limpidi: i suoi occhi azzurri come zaffiri, o come i fuochi fatui nei cimiteri.

“Ti aspettavo, Kaloinas.”

“Serpe, qualunque cosa tu voglia...”

“Vivo da secoli in questa città, e ho sempre protetto il tuo Ordine, Kaloinas. Tu sei un uomo onesto, e quello che hai fatto per l’Ordine mi ha riempito di gioia. Voglio avvertirti di una cosa sola: ci sono fra di voi alcuni che non ti amano. Devi lasciare questa città prima del tramonto.”

“Se sai questo, sai anche certamente che cosa mi aspetta dopo il tramonto. Pensi che io lo possa fuggire uscendo dalla città?”

Per lungo tempo rimane silenziosa. Sento il suo respiro, ma i suoi occhi sono scomparsi sotto il cappuccio e vedo solo la sua bocca.

“Kaloinas, tu sei un filosofo. La domanda che ti devi porre è: esiste un Fato? Se la risposta che darai è sì, fuggire non ti servirà. Se no, puoi ancora sperare.”

“Tu sei molto più saggia di me, e se sei qui ad avvertirmi, questo non implica una risposta negativa? Tu pensi davvero che io mi possa salvare...”

Sorride.

“Tu pensi che il Fato possa avere potere su chi ha sconfitto la Morte? Io non so se  esista o no, Kaloinas. Ignoranza del futuro e impotenza su di esso sono ciò che tu chiami Fato. Ma tu conosci il futuro.”

“E tu pensi che possa deviarlo dal suo cammino?”

“Avresti dovuto occuparti di magia, filosofo,” è la sua sola risposta, e già il suo corpo si fa ombra e solo il suo sorriso rimane per un po’ sospeso nell’aria prima di sparire.

“Ma nessuno può dominare la magia con la ragione, Serpe.”

Lancio la mia risposta nell’aria, convinto che lei è ancora lì per udirla.

“La magia richiede l’abiura della ragione, e io non ho intenzione di abiurare. Se la ragione mi condurrà alla morte, ebbene, non sarò il primo a morire per un’idea!”

Se la Serpe mi ha sentito, pensa che non sia il caso di rispondere. O forse il silenzio è una risposta. A chi ho gridato la mia sfida? Esco dal tempio. Il tempo sta passando in fretta e le ombre strisciano sul terreno come bestie oscene allungandosi e scandendo il tempo che ancora mi è concesso.

Prima che la sera scenda voglio camminare sulle banchine del porto, sentire le risate venire dalle taverne: voglio sentire il suono della vita. A quest’ora  ormai i traffici rallentano,  e i marinai si siedono sui ponti delle navi riposandosi. Ma i cittadini di Poi Lantà percorrono come ogni giorno le banchine nella loro passeggiata serale, guardando le navi e spiandosi a vicenda. Mettono in mostra la loro ricchezza e i loro vestiti. Come posso biasimarli? Io ho dedicato alla mia anima tutta la mia vita, e cosa mi resta alla fine, più di loro? Come ho scelto di passare le mie ultime ore? Elevando il mio spirito, cercando di risolvere ardui problemi di estetica o morale? No: camminando per le vie della mia città per sentirne per l’ultima volta i rumori e i profumi. E se la mia donna fosse ancora viva certo vorrei possederla per l’ultima volta: ma è morta da troppo poco tempo perchè io possa accontentarmi dell’abbraccio di una meretrice del porto. Ah, che peccato.

Mi accosto all’entrata di una taverna e guardo dentro. Quando ero un bambino venivo in queste osterie per cercare marinani dell’Estia o della Mauria, e li spingevo a raccontarmi le loro storie, storie che loro, gente ignorante, non sapevano decifrare, ma io sì. E’ stata quella la mia prima introduzione al sapere. Altri uomini dotti e saggi avevano inventato quelle storie per rinchiudervi ciò che è davvero importante che l’uomo sappia. Ma ora da molto tempo gli Esti e i Mauri non vengono più a Poi Lantà: le loro città messe a sacco, i loro filosofi morti, i loro re fatti schiavi, si sono dispersi nel mondo e non ricordano più le antiche storie, nè di essere stati un tempo i padroni del mondo. E gli uomini del Nord che ora affollano le osterie raccontano storie diverse, storie che forse contengono, nella loro rozza ferocia, una verità più profonda, più eterna, più amara: ma io non le so più decifrare. Forse solo i bambini, figli del loro tempo, sanno capire le favole, o forse il vuoto è la verità che si cela dietro di esse.

Questi uomoni  cantano parole oscure, forse oscene, nelle loro lingue, e bevono il loro vino forte: forse anche il mio mondo vive il suo ultimo giorno. So che qualcosa sta cambiando, qualcosa di radicale: ma non so cosa, nè come, e forse non lo voglio sapere.

Mi volto e qualcuno mi corre addosso. Lo acchiappo e vedo che  è un ragazzino, di forse dodici o tredici anni, e mi guarda spaventato. Forse la mia barba gli fa impressione come la mia scienza la faceva ai nobili di corte.

”Che cosa cerchi in questo luogo di corruzione, ragazzo?“

“Io... io...” balbetta.

“Be’?”

“Devo comprare del vino per i miei fratelli. Mi hanno dato...”

Apre il pugno e mostra una moneta di rame.

“I tuoi fratelli non dovrebbero mandarti a fare commissioni qua dentro, alla tua età. Be’, comunque... se dovrai essere corrotto lo sarai, e qualche anno in più o in meno non farà molta differenza. E in fondo c’è un sacco di gente che conduce una vita corrotta e ne è molto felice. L’importante è che tu sia soddisfatto di quello che sei.”

“Sissignore, ” dice il ragazzo.

“Non mi hai ascoltato, eh? Sta’ a sentire: c’è una moneta d’argento per te se dopo aver portato il vino ai tuoi fratelli tornerai da me. Ti aspetterò sul molo.”

Mi guarda dubbioso. So a cosa sta pensando.

“Non preoccuparti. Non voglio comprarti. Voglio solo che tu mi faccia da interprete. Ora vai.”

Il ragazzo si infila nell’arco buio dell’entrata della taverna e io mi siedo sulle pietre calde del molo. L’orizzonte è troppo grande perchè il mio sguardo possa comprenderlo tutto, e ho fame. Perciò distolgo gli occhi dal mare e mi compro una focaccia da mangiare. Buona, la focaccia. Era da quando ero un bambino che non ne assaggiavo una. Rubavo i soldi a mio padre per comprarne, il che dimostra come anche i moralisti abbiano delle debolezze... oh be’, se ci fosse bisogno di dimostrarlo.

Dopo qualche tempo il ragazzo - non ci avevo sperato - torna, e mi guarda curioso. Se ne sta’ un po’ in disparte ed io per qualche tempo do  l’impressione di non notarlo. E’ un ragazzino dall’aria intelligente.

“E allora?” dico dopo un po’, e lui sobbalza.

“Sono tornato per il mio soldo.”

“Davvero? Bene, eccotelo qua. Ma ricordati che chi cerca solo denaro trova solo quello.”

Mi guarda con disprezzo: forse pensa che a me il denaro non sia mai mancato.

“Io non ho bisogno di nient’altro.”

Io sospiro.

“Quando sarai vecchio e malato e saprai che non ti resta molto tempo, ti accorgerai che tutto il denaro del mondo non può comprarti un solo giorno di vita.”

Il ragazzo indica il medaglione d’argento che porto.

“E la filosofia può farlo?”

“Be’, la sapienza ti dice quello che devi fare e non fare per vivere a lungo - mangiare e bere moderatamente, non ingombrare l’animo di passioni, e quando viene il tuo ultimo giorno, ti rende sereno nell’affrontarlo.”

Il ragazzo si siede accanto a me e mi guarda con attenzione.

“Forse però la vita si allunga ma è un pochino troppo noiosa perchè valga la pena di viverla, eh?”

“Vale sempre la pena di vivere,” rispondo parlando piano e con dolcezza. “Credimi, ragazzo. Vale sempre la pena. Perfino i condannati a morte quando vengono messi alla tortura desidarano la vita e supplicano di essere risparmiati, e non c’è situazione più disperata della loro. Comunque la sapienza non rende la vita noiosa. La può rendere angosciosa, a volte. Ma noiosa mai.”

Il ragazzo ride.

“Certo, perchè se fosse noiosa non credo che un uomo della tua età se ne starebbe qui a chiacchierare senza guardare le donne che passano.”

“Oh, ma anch’io le guardavo, alla tua età.”

“Può darsi. Ma tu sai molto poco di me, mago, come io so poco della tua filosofia.”

Pronuncia l’ultima parola con un lieve disprezzo.

“Non sono un mago. Sono solo un uomo che fa delle domande.”

“Qui è sempre rischioso fare delle domande,” commenta il ragazzo asciutto.

“E’ sempre rischioso fare delle domande,” confermo, “ puoi correre il rischio di ottenere delle risposte.”

Il ragazzo guarda lontano sull’orizzonte sopra il mare.

“Però a me delle risposte mi piacerebbe averle, certe volte, filosofo.  Per esempio vorrei sapere cosa succederebbe se lasciassi la mia famiglia e mi imbarcassi su una di quelle navi.”

“Oh, per questo non c’è bisogno di un astrologo per prevederlo. Navigheresti per novi decimi del tuo tempo: lavoreresti come uno schiavo per i capitani, soffriresti la fame e proversti la frusta, e quando arriveresti in porto saresti troppo stanco perfino per scendere a terra e ti giocheresti i pochi soldi che guadagneresti ai dadi, e perderesti sempre. E diventeresti vecchio molto presto.”

Da come mi guarda, improvvisamente ferito e infelice, capisco che ho distrutto un sogno che contava più di quanto desse a vedere per lui.

“Tu credi?”

“Guardati intorno, ragazzo. Guarda quello che succede sulle navi che sono ancorate in porto, nel porto di Poi Lantà, le navi più ricche, perchè sono le navi ricche che arrivano a Poi Lantà.”

Il ragazzo sospira.

“Non c’è scampo, vero? Non me ne andrò mai di qui. Non c’è una maniera di essere... di essere felici.”

“Nessun filosofo ha ancora dato una risposta definitiva a questa domanda. Hanno cercato, ma le cose sembrano non funzionare. Ma vedi, tu ti sei posto la domanda. Sei già su una buona strada. La maggior parte della gente si vergogna perfino di ammettere con se stessa di avere l’ambizione di vivere felici.”

Scuote le spalle, e ha ragione. Tutti e due sappiamo benissimo come sarà il suo destino. Finirà a dormire contro un muro avvolto negli stracci come il mendicante che si è sistemato pochi metri più avanti di noi, vecchio, malato, senza vestiti puliti nè cibo nè un tetto sulla testa, e i passanti lo prenderanno a calci. Non diventerà un sapiente. Non c’è speranza a Poi Lantà per quelli come lui. Una condanna simile alla mia pesa sul loro capo.

“Cosa volevi da me?”

“Ah, sì. Volevo che tu ascoltassi una storia.”

La verità è che volevo compagnia, perchè questo mi avrebbe evitato di pensare, per un po’.

“Molto tempo fa un giovane filosofo - un astrologo - fu gettato in prigione dai preti perchè aveva avuto la follia di dire che non bisogna sottomettersi agli dei ma indagare e capire. Allora nessuno indossava ancora la veste dei filosofi, perchè cercare fra i misteri del cielo del pensiero era proibito.

“Vedi le nuvole che galleggiano sul mare? Di cosa sono fatte, e perchè si dissolvono in aria? E perchè il sole torna a sorgere ogni giorno? La risposta dei sacerdoti era semplicemente che gli dei volevano così. Ma il giovane filosofo andava in giro a dire ad alta voce, a chiunque lo stesse ad ascoltare, che le nuvole erano fatte di acqua e vapore, e che il sole gira intorno alla terra. I sacerdoti misero il filosofo alla tortura, ma egli non gli potè mai dire che lui si sbagliava e loro avevano ragione. E alla fine lo portarono davanti al Signore Reggente perchè fosse processato e giudicato.”

Mi interrompo per un momento e mi giro verso il mare, per vedere il tramonto. Il tramonto...

Il cielo stende davanti a me tutta la sua gloria oro e rossa, e sembra immoto nei suoi colori e nella sua grandezza serena. Ma guardando il disco rosso all’orizzonte lo posso vedere calare lentamente oltre l’orizzonte, andandosene per sempre. Amo la luce del sole anche se ho dedicato tanta parte della mia vita al chiarore limpido e prezioso delle stelle. E questa è l’ultima volta che la vedo.

“E allora?”

“Allora tutti i filosofi di Poi Lantà, che si erano nascosti per paura, vennero ad assistere al processo, e si vestirono di bianco e di verde,  i colori dell’innocenza e della speranza, perchè sapevano che il Signore era giovane e colto e che forse li avrebbe ascoltati. E il Signore dopo avere ascoltato il filosofo dichiarò che chiunque poteva liberamente indagare e giungere alle conclusioni che più riteneva giuste.”

“E che i sacerdoti non potevano più punire nessuno per sacrilegio,” aggiunge il ragazzo, soddisfatto di poter contribuire con un brandello di conoscenza alla storia. Evidentemente questa parte della questione è stata la più importante per molti poilantesi.

“Ma gli anni passarono, e il Signore era debole di salute e il filosofo un giorno interrogando le stelle seppe che per lui e per i suoi colleghi sarebbe venuta la fine, perchè lui sarebbe morto di lì a poco proprio per mano dei suoi confratelli filosofi che un tempo aveva difeso, e che la civiltà che sentiva nascere attorno a sè, più giusta e più grande di quella che credeva di lasciarsi dietro le spalle, sarebbe nata e morta nel breve giro di un secolo.”

C’è un lungo silenzio.  Non ho voglia di aggiungere altro, e anche il ragazzo se ne sta a testa bassa. Non credevo di avere ancora tanta amarezza dentro di me.

“Ecco, ragazzo, questa è la storia: una storia crudele. Ora tu che sei ancora giovane e forse riesci ancora a ricordare l’Oscurità  dalla quale veniamo, forse tu puoi dirmi che senso c’è in questa storia. Qual è il suo significato, ragazzo? Quale superiore verità nasconde?”

Il ragazzo alza la testa e parla con voce dura.

“Mi stupisco che tu non l’abbia capito da te, filosofo. E’ una cosa che sanno tutti qui. Non c’è nessun senso nella vita. Ah, ecco, guarda: lo vedi quell’uomo che esce dalla taverna? Non riesce neanche a reggersi in piedi, da tanto è sbronzo. C’è tanto senso e - come hai detto? - verità migliore nei suoi traballamenti che nella mia vita, o la tua. Non è nemmeno crudele, sai. Non sa che cosa è soffrire e non credo che gli freghi niente di noi  e di come stiamo. Tu fai cose e io faccio cose e non c’è nessuna guida. Be’, filosofo, io ho quindici anni, ma sono più saggio di quelli che passano la loro vita sulla sommità di una torre cercando di divinare il futuro. A cosa serve divinare il futuro, tanto è uguale al passato, e non è affatto migliore. Comunque, penso che il filosofo della tua storia abbia fatto quello che poteva e spero che ne sia soddisfatto, no? Non è così? Tu stai parlando di Kaloinas, il tuo maestro, vero? Kaloinas è una brava persona e dopotutto ha vinto, no?”

“Sì. Credo che Kaloinas sia stato abbastanza felice nella sua vita.”

“Bene, allora è stato più fortunato di me, filosofo. Io non ho speranze, lo hai detto anche tu.  Io rimmarrò qui per tutta la vita, a sudare e faticare e mangiare troppo poco e ad essere picchiato dai miei fratelli. Magari non c’è una legge soprannaturale che mi ha condannato a vivere qui, come dicono i preti, ma questo non vuol dire che non rimmarò qui per tutta la vita e qui morirò. Vorrei davvero che qualche Dio avesse il coraggio di condannarmi, perchè almeno lo potrei maledire. Ma gli dei non esistono.”

Mi sorprende questa decisa affermazione in un ragazzo tanto giovane: nemmeno io sono mai arrivato a tanto. Ma non gli rispondo. Ha abbastanza ragione. Per tutta la vita abbiamo cercato di scoprire la Verità, nella convinzione che fosse l’ignoranza a rendere l’uomo infelice. Ma per alleviare la sofferenza di questi miserabili abitanti del porto nessuna Verità può servire... nè può alleviare il peso che ho sul cuore.

“Eppure...” dico.

“Filosofo, è stato bello parlare con te, ma ora devo proprio andare. Se mia madre non mi vede ritornare con qualcosa per cena, le prenderò stasera.”

Il ragazzo si alza e mi saluta con un sorriso veloce e un cenno fugace della mano.

“Aspetta,” gli dico. “E’ la saggezza che ci insegna a lottare...”

Non mi ha sentito. Corre via lungo la banchina ora buia, rischiarata solo dalle lanterne poste sopra le insegne delle taverne e, più raramente, dalle lampade portate in mano da figure prudenti e frettolose.

Mi volto ancora una volta verso il mare e guardo la striscia di luce che la luna getta sulle  acqua, che ho guardato tante volte e che mi ha sempre reso così felice. Al di là di questo mare c’è l’Oriente, c’è il vecchio nemico della nostra civiltà, contro il quale tante volte le nostre navi sono salpate. Di là, sotto questa stessa luna, altri filosofi divinano in queste stesse stelle segni che io non so vedere. E alle stesse stelle rivolgono domande molto diverse, e forse sono più saggi di noi. Ecco, forse stanotte l’Occidente ha finito il tempo che gli è dato, e il cammino riprenderà di là dal mare, forse con una meta diversa... ma che importanza ha la meta se non verrà raggiunta?

Mi volto e ritorno alla mia torre, camminando per vicoli bui, sul cui selciato la luce della luna passando attraverso grate di pietra traforate in forma di fiori getta ombre chiare e gelide.

La mia torre è alta e silenziosa come quando l’ho lasciata: niente è venuto nel frattempo a violarla, nè il fuoco l’ha consumata nè un terremoto l’ha gettata a terra. Ecco, questa torre che non pensa, che non riflette, che non conosce poesia o musica, questa torre sorda, cieca, muta e stupida vivrà più a lungo di me. Sospiro.

Ebbene, c’è ancora qualcosa che vorrei provare di nuovo, una delizia che mi è ancora concessa: stendermi su un letto fresco e chiudere gli occhi. Forse un bel sogno farà in tempo a visitarmi prima che lo faccia il sicario.

Salgo il primo scalino ma una voce mi chiama.

“Filosofo!” grida qualcuno. “Filosofo, aspetta!”

Mi volto e vedo il ragazzo che ho incontrato al porto.

“Che cosa c’è, ragazzo?”

“Aspetta! Ce ne ho messo del tempo per capire chi eri, ma finalmente ci sono arrivato.”

“Se è un favore che vuoi, ragazzo...”

“No, è a te che voglio farne uno. Kaloinas, signore, il Reggente è stato assassinato un’ora fa.”

Scendo dallo scalino.

“Scherzi?”

“Nemmeno per sogno. Suo fratello lo ha ucciso e ha preso il potere, signore. E tu sai chi lo appoggia.”

“I sacerdoti,” dico. “Ah, questo non lo avevo visto. Se avessi potuto avvertire il principe!”

“Lascia stare quello che potevi fare. Ora ti verranno a cercare per ucciderti!”

Annuisco.

“Devi venire con me, filosofo. Io posso farti uscire da Poi Lantà.”

Rido.

“No, ragazzo. Non preoccuparti per me. Ti metteresti nei guai per qualcuno che non potrà ricompensarti. No, fai un’altra cosa.”

Tolgo la catena con l’emblema della Ragione Trionfante dal mio collo, e gliela dò.

“E’ d’oro, e questo già potrebbe esserti d’aiuto, ma se sei davvero saggio la userai in un’altro modo. Vai al tempio dell’Imperatore davanti alla statua della Morte e aspetta. Se vedrai una donna dai capelli neri e dagli occhi azzurri dagli questo da parte mia e digli che se la mia filosofia non può smuovere il Fato, forse la sua magia lo può fare, e ti può aiutare a cambiare il mondo.”

Il ragazzo mi guarda perplesso.

“Vai ora! E ricordati di Kaloinas, anche se era uno sciocco!”

Corre via tanto veloce che quasi non riesco a vederlo.

Rimasto solo, sospiro e mi avvio verso la Scuola dei Filosofi. Là forse c’è qualcuno che mi può aiutare. La Serpe non l’ha detto esplicitamente, ma quello che intendeva era proprio questo: che le stelle, forse, hanno voluto solo avvertirmi.

Busso alla porta della casa del mio discepolo Iastas, uno dei pochi di cui sappia di potermi fidare.

“Kaloinas, maestro!” esclama dalla porta. “E’ tutto il giorno che ti cerco. Hai sentito le notizie?”

“Sì, Iastas. Sono qui per questo. Tu forse puoi aiutarmi a nascondermi fino a quando non potrò uscire da Poi Lantà.”

“Certo. Entra.”

Iastas mi fa spazio e io entro. La sua casa è inondata di una piacevole luce gialla. Fa piacere trovarsi in casa di un amico. Sento Iastas chiudere la porta e senza voltarmi sospiro di sollievo e dico: “So che non è educato chiedertelo, ma se tu avessi qualcosa da mangiare, Iastas...”

Non faccio in tempo a finire la frase. Sento la punta del coltello penetrarmi nelle costole e togliermi il fiato. Riesco a voltarmi verso Iastas e capisco quanto stolto sono stato. Il suo volto è distorto da qualcosa che mi sembra di riconoscere: di ricordare, dai volti dei miei carnefici.

“Per gli dei!” esclama mentre abbassa ancora il pugnale.

Mentre la luce si affievolisce vedo da una parete fissarmi beffardo con la sua ruota in mano il dio del Fato, ma io non so se gli dei esistono.

(24 Novembre 1983)