XXXI

 

Flavio in quell’anno era nervoso: spesso bastava una piccola canzonatura o l’insolenza di un compagno per farlo montare improvvisamente, lui così bravo, su tutte le furie, e solo con uno sforzo estremo riusciva a contenersi, a voltare le spalle in silenzio per chiudersi poi in depressione in se stesso. Fu quello un suo classico periodo, il periodo della svogliatezza e distrazione nello studio, il periodo dei suoi sogni e delle fantasie, il periodo delle ribellioni ed antipatie verso tutti, il periodo della permalosità ed irosa impazienza con i suoi compagni.

Flavio formava progressivamente dei concetti sempre più astratti (cioè staccati dal loro contesto concreto).

Aveva un forte interesse per il mondo esterno. Dai suoi 10 anni era andato alla ricerca di una identità socializzando apertamente nel suo gruppo. Un ambiente dove sperimentare, lontano dai genitori, un proprio ruolo autonomo ricco di linguaggi segreti e convenzionali fra coetanei. Aveva attraversato l’età della preadolescenza (12-14) dove cominciavano a manifestarsi le trasformazioni somatiche e caratteriali.

Si raddoppiava la forza muscolare: comportamento più energetico, più esuberante, che favoriva determinati tipi di valutazione. Una maggior fiducia, una rivalutazione, un equilibrio dinamico degli atteggiamenti favorendo una modificazione dell’immagine che aveva e del modo in cui percepiva gli altri. Ma la fiducia nel vedersi crescere, in Flavio e nella maggior parte dei ragazzi, avveniva con qualche turbamento, non senza preoccupazioni o ansietà.

Per esempio l’avvicinamento con l’altro sesso poteva avvenire in chiave competitiva ed aggressiva o caratterizzata da un’esagerata timidezza. Nei ragazzi come Flavio avvenivano delle evoluzioni mentali, dei cambiamenti caotici e disorganici che li teneva occupati circa fino a 16 anni.

Era quello il periodo in cui i ragazzi cercavano di essere critici, permalosi verso la famiglia, in una forma di disagio che giustificasse quella apertura al mondo esterno.

Flavio aveva oltrepassato un cartello: Benvenuti nell’età del cambiamento... L’ADOLESCENZA!

Spesso si parlava di questa età come se si trattasse di un fenomeno strano, misterioso, magari pericoloso o contagioso. Ma per quanto Flavio, e qualsiasi altro ragazzo, si poteva sentire a disagio (con i brufoli, con i baffi che crescevano male, con i genitori che “rompevano”), quegli anni che andavano dai 14 ai 18, contraddistinti dal termine ADOLESCENZA, non erano certo una malattia. In Flavio e nei ragazzi di quell’età qualcosa era successo rispetto agli anni in cui si era bambini.

Quell’età non era solo crisi e disagio, ma spinta vitale verso il cambiamento. L’adolescenza poteva essere la porta dalla quale si intravedono l’ampia gamma di toni che si stavano agitando per formare la persona adulta: piaceri, dolori, vicinanze e distacchi, perdite e conquiste, insicurezze e certezze.

La personalità di Flavio si poteva formare solo in una maniera: con il corpo che prendeva forma, con le parole e gli atteggiamenti che spesso solo la persona comprendeva, con la paura e la voglia di crescere.

Adesso Flavio era un Giovanissimo!!! In quel momento non aveva bisogno di incontrare adulti... non gli servivano i divi dello spettacolo, i campioni dello sport, gli psicologi... ma gli servivano soltanto dei contatti con persone adulte reali (vedere per esempio genitori o educatore).

Adulti che potevano ascoltare, capire, consigliare, perché anche questi qualche annetto prima erano passati in quella fase della vita.

Al gruppo ‘78 era stata appiccicata una nuova etichetta che si doveva portare avanti per ben 4 anni facendo attenzione a non perdersela per strada: GIOVANISSIMI!

A tenere sempre in mano la colla e lo scotch facendo attenzione che l’adesivo non si scollasse era Rosa, la nuova educatrice del gruppo ‘78. (uno di quei famosi adulti che sapevano ascoltare, capire, consigliare...).

Rosa era una brava signora. Prudente, riflessiva, con una punta di timidezza che riusciva a sembrare anche virtù.

Era sensibile, molto sensibile alle situazioni e ai problemi dei ragazzi in genere; particolarmente attenta a quelli del suo gruppo. Amava la compagnia dei ragazzi, era comprensiva e stava sempre dalla loro parte.

Ecco Rosa in poche parole: una catechista, un’educatrice e un’amica!

Sì, sì, proprio amica. Sapeva calarsi benissimo in quelle vesti: una consigliera acuta, incline all’ascolto dei fatti e delle persone. Riusciva a darti la dritta giusta in poco tempo... proprio quella che ti serviva.

Sempre presente agli appuntamenti dell’Azione Cattolica (gruppi, consiglio, riunioni, feste varie...).

Il gruppo ACG era un’esperienza personale, nel quale influivano tante cose: simpatia per l’animatore, l’amicizia con gli altri del gruppo, il vedere o meno realizzate le proprie aspettative, le proprie proposte.

Gli elementi fondamentali per riconoscere un giovanissimo capace di coinvolgere e “provocare” quelli sempre un po’ svogliati e che hanno paura di spendere troppo il proprio tempo e le proprie energie sono i seguenti.

Un primo elemento è quello di farsi prendere dal desiderio di crescere, di essere migliori come persone, di diventare migliori come cristiani. Un secondo elemento è desiderare che quella crescita non sia fine a se stessi ma sia utilizzabile per il prossimo. Sentire di essere affidati agli altri e che altri sono affidati a noi: così si matura insieme. Una maturazione che solo incontrandosi in gruppo per sperimentare concretamente le difficoltà, la bellezza nel condividere con gli altri le proprie incertezze, i propri dubbi, ma anche i propri doni può scaturire. Un gruppo dove ciascuno è accolto e valorizzato per quello che è effettivamente, per quello che sa fare. Un incontro vero tra persone vere.

Il terzo elemento è che non bisogna solamente diventare grandi, non ci si deve solamente limitare a farlo insieme, ma si deve farlo anche per gli altri. Ci sono tanti che non possono camminare insieme al gruppo perché non ce la fanno, perché non hanno le nostre idee, perché non hanno tempo. Se il crescere non serve anche a questi, difficilmente servirà a noi. Una specie di scommessa con l’AC: mettersi a fianco di altre persone che puntano sull’Associazione come strumento semplice, ma efficace per contribuire a costruire una Chiesa e una società più giovane, più giusta, più accogliente.

 

XXXII

 

Correva l’anno 1992. Avvenne che un viso nuovo fece la sua comparsa in parrocchia, dove di visi se ne vedevano giungere e partire tanti; e il nuovo ospite non era di quelli che passano inosservati o si dimenticano presto: era il nuovo diacono Giuseppe Redemagni!!!

Don Giuseppe era un individuo singolare; tutti quelli che lo conoscevano, o l’amavano o lo temevano; un eletto, del quale di solito si continuava a parlare a lungo, anche quando i suoi contemporanei eran già dimenticati. Proveniva da Milano (precisamente da Pioltello).

La sua storia era assai insolita.

Non c’era nulla di sensazionale nel suo percorso vocazionale. Non c’era nessun fatto particolare che aveva fatto suscitare quella scelta. Due parole si potrebbero utilizzare per descrivere la sua chiamata alla vita sacerdotale: la gradualità e la costanza. Tutto ebbe un inizio. Giuseppe sin da bambino si sentiva attirato dalla Chiesa. Appena cominciò a frequentare il catechismo per la Prima Comunione, iniziò a partecipare quotidianamente alla S. Messa compresa l’estate. Ad 8 anni cominciò a fare il chierichetto nella sua parrocchia. gli piaceva andare in chiesa: un posto in cui stava bene, un posto in cui sentiva tanto vicino Gesù. La chiesa era il suo punto di riferimento.

Gli piaceva pochissimo giocare, non gli piaceva stare con gli altri, la sua vita era ritmata dalla solitudine. Si dilettava a leggere (i suoi primi libri tutti su Paolo VI) e a scrivere.

Cominciò a parlarne col suo don, il quale non lo vedeva tanto di buon occhio perché non era un ragazzo comune: oltre al servizio di chierichetto, all’oratorio non andava, all’oratorio non giocava, all’oratorio non faceva gli sport, all’oratorio non andava la domenica per i giochi organizzati. Tutte cose che proprio non sopportava. E quando glielo disse la prima volta, in quarta elementare lo guardò con un sorriso perplesso, un sottile giudizio che quasi trasmetteva: “Ma in fondo, per te, ci potrebbe essere uno spazio nella Chiesa...”.

Non ne parlò più perché si sentiva incompreso. Ricorda però di averlo detto a casa e, i suoi genitori, con una risata, gli dissero: “Bè, se ne riparlerà quando sarai più grande!”. Iniziate le medie aveva avuto il vivo desiderio di studiare in Seminario. Per lui era un pensiero fisso quello di diventare prete. Venne il tempo delle superiori. Non ebbe vivamente il coraggio né di dire alla sua famiglia, né al suo don, che voleva andare a frequentare il Classico in Seminario. E così ripiegò per andare allo Scientifico. La sua famiglia, sicuramente non avrebbe mai capito la profondità del suo desiderio. Un Padre, suo confessore, gli consigliò di ringraziare la sua famiglia, di ringraziare il Signore, che gli facevano fare un’esperienza così dura (immerso in ambiente mondano, tra miscredenti, tra gente che aveva idee completamente diverse dalle sue). Il 29 novembre del 1983 disse definitivamente al suo don che voleva andare in Seminario, che non ce la faceva più a studiare cose che non gli interessavano. Fu così che cominciò a studiare di nascosto il greco. In lui c’era qualcosa di diverso da tutti gli altri giovani dell’oratorio, ma anche qualcosa di diverso dal tipo ideale di prete che avevano tutti quelli della diocesi di Milano. A maggio diede una lettera a suo padre.

Ci furono delle incomprensioni che durarono ben 22 giorni. Era solo. Se aveva fatto tanto, era segno c’era tanto dentro di lui. Fece gli ultimi 3 anni del Liceo Scientifico, studiando controvoglia, avendo sempre quel chiodo fisso che poi sarebbe stato quello della sua vita. Furono tre anni in cui si schiarirono diverse amicizie, maggiori interessi, numerose libertà.

Quell’anno partì in vacanza per la Sardegna. I suoi genitori erano contenti perché forse quello sarebbe stato un espediente per schiarirsi un po’ le idee sulla Università da scegliere. Ma lui, già aveva preso accordi con il Rettore del Seminario di Milano.

Il Rettore lo voleva mettere alla prova: “Il tuo ingresso in Seminario è vincolato al fatto che tu ti faccia vedere il 5 agosto qua in Seminario”. Dalla Sardegna, ritornò a Milano dopo una settimana, solo. Andò alle 8,15 del mattino.

“Sono qua per il colloquio” disse Giuseppe con aria rispettosa.

“Quale colloquio? - rispose il Rettore - siamo in pieni esercizi spirituali per i chierici che devono fare l’ammissione agli ordini!”

“Ma lei mi ha detto di venire, doveva parlarmi”.

“No, mi bastava vedere, se eri tanto disposto a rinunciare alle tue vacanze per entrare in Seminario... sei preso. Ci vediamo il 21 settembre”. Il 19 settembre lo disse ai suoi genitori.

Frequenta il primo anno, con profitto nello studio, con la stima dei superiori. Cominciato il secondo anno avvertì subito che qualcosa non andava, che qualcosa lo avrebbe segnato più ancora di tutto quello che c’era stato per entrare in Seminario.

Forse quell’anno sarebbe stato molto importante circa un possibile trasferimento a Roma.

“Qualcuno” stava minando il suo sacerdozio. Capì che a Milano non era aria. Con molta attenzione fece tutti gli esami, superati egregiamente (eccetto quello di ebraico... «non si poteva imparare l’ebraico in una notte»... aveva avuto poco tempo). Partì per Roma per chiedere la possibilità di entrare al Seminario Maggiore Romano.

Soltanto ad ottobre il Rettore di Roma decise di prenderlo... evidentemente la grazia lo voleva in Capitale. Il Rettore gli aveva detto: “All’80% sei preso, aspetta una mia telefonata”. Giuseppe era contento, sapeva che era una telefonata decisiva... “Domani ti aspetto per l’ingresso in Seminario!” Era il 1989.

Con i superiori di Roma, aveva fatto un patto: doveva passare i primi sei mesi del Seminario, in una parrocchia, l’Addolorata, dormendo e vivendo lì. Questo perché i superiori di Milano avevano detto che Giuseppe non aveva capacità operative e pastorali per stare in mezzo alla gente. Dopo 4 settimane di Seminario, il Vice Rettore gli disse per telefono: “Fai le valigie, questa sera ti trasferisci in parrocchia”. Lui fece le valigie, scese giù nell’atrio del Seminario un po’ triste e trovò i superiori che ridevano. Ridendo gli dissero: “Ma che hai capito? Da questa sera incominci il tuo servizio pastorale. In Seminario ci stai fin troppo bene e, continuerai a starci, perché in parrocchia hai bisogno soltanto come gli altri di andare un giorno alla settimana!”. In tutta quella storia c’era un disegno che si stava via via colorando, prendendo dei contorni definitivi.

A Roma Giuseppe risuscitò. Gli piaceva molto il Seminario Romano, i superiori, i nuovi amici, il clima internazionale, la possibilità di respirare ampiamente senza essere soffocati da un clima opprimente di provincialismo che vigeva a Milano. Ebbe la fortuna di andare a studiare all’Università Gregoriana, di conoscere i grandi nomi della teologia, di consultare i grandi libri della biblioteca, di andare per le vie del centro. Purtroppo era arrivato a Roma, digiuno di una solida base spirituale, aveva perso troppo tempo a concentrarsi sui suoi problemi, perdendo di vista il volto di Gesù. A Roma, riprese a crescere l’amore per la preghiera, quella davanti al Tabernacolo, quella silenziosa, quella più difficile, ove si impegna l’affetto del cuore e le facoltà intellettive vengono sospese. Si avvicinò parecchio alla figura di S. Teresa d’Ávila. Addentrandosi sempre di più nel Mistero dell’Amore di Dio, ormai sapeva che doveva essere portato fuori dalla Cappella del Seminario e portato verso le persone che di lui avevano bisogno. Un anno al Romano, passato nel più totale silenzio: guardava, taceva, ascoltava... guardava, taceva, ascoltava... una presenza ritenuta da molti insignificante. Il secondo anno i superiori decisero di farlo sacrestano, proprio perché lo avevano visto troppo chiuso, troppo riservato, troppo taciturno. Nessuno aveva capito che la sua era una mossa strategica. Così cominciò ad aprirsi, sicuro dell’ambiente in cui viveva. Cominciarono le prime amicizie profonde, cominciarono le vicinanze con i diversi chierici che avevano bisogno di conforto, di coraggio e di aiuto. La sua camerina era diventata un luogo di ritrovo: i più pensavano che era il luogo dove si parlava e basta, i pochi dove ci si confrontava nel parlare di Gesù.

Giuseppe arrivò a fare anche una proposta al suo Padre spirituale: di poter diventare monaco. Egli rispose: “No, tu monaco non ci diventerai mai, per le qualità di cui sei dotato e per la peculiarità anche del tuo cammino vocazionale, tu devi essere prete!”

La storia di diventare monaco per Giuseppe aveva una doppia sfaccettatura. La prima era senz’altro dettata dall’amore verso la preghiera e anche dal desiderio di essere quasi sepolto, dimenticato da tutti in qualche monastero. La seconda... tutte le persone quando pretendono una cosa, contemporaneamente vogliono scappare da qualcos’altro... Giuseppe da cosa fuggiva? Lui voleva fuggire dalla Diocesi di Roma... non voleva fare il prete nelle parrocchie romane!!! Lo terrorizzava. Quando camminava per Roma stava bene, ma quando tornava dalla pastorale in parrocchia, era sempre intristito.

Per due anni interi lottò per decidere se rimanere a Roma o piuttosto andarsene. Se ne sarebbe andato se Dio gli avesse posto dei segni precisi per cui non dovesse fare il prete a Roma. Capì lentamente che a Roma non doveva stare soltanto per studiare ma per scoprire un disegno tutto particolare del Signore.

I superiori notarono il grande cammino che Giuseppe aveva fatto: da grande aiuto che diede ai chierici alla grande crescita spirituale. Pensarono di farlo accolito a maggio e non ad ottobre come gli altri. Aveva perso un anno, ad ottobre sarebbe stato così ordinato diaconato. Lui era molto contento... vedeva come il Signore rispondeva alle sue prime decisioni di abbandono completo nelle sue mani. Il 12 maggio l’Accolitato; il 25 ottobre il Diaconato. Tra maggio e ottobre ci fu la destinazione della parrocchia con gli ultimi colpi di scena del Signore. Giuseppe era destinato a nn (adesso volete sapere davvero troppo).

Un giorno partì per un’Ordinazione Sacerdotale di un suo amico. Al suo ritorno il treno si fermò a lungo sul ponte che dava sulla Prenestina. C’era un ingorgo alla stazione probabilmente. Erano le sette del mattino, aveva viaggiato tutta la notte. Per un attimo si alzò dal posto, guardò il finestrino ed ebbe una grave agitazione, come qualcosa dentro che gli diceva: “Guarda all’orizzonte di Via Prenestina, è lì che santificherai per la prima volta il mio popolo!”.

Appena giunti in Seminario il Vice Rettore: “Hanno dato le destinazioni, ci sono dei cambiamenti. Il Cardinale ti ha destinato... sul Prenestino... a S. Ireneo... vacci a parlare...”.

Giuseppe non voleva andare in quelle zone. Era in crisi. A lui non spaventava S. Ireneo. Don Giuseppe non capiva dove voleva parlare Dio. Non aveva paura delle situazioni ma lo spaventava il perché di Dio lo voleva in un certo posto...

Il suo confessore: “Il mio soldatino che piange prima ancora di combattere la sua prima battaglia... vai a dare il tuo primo atto di obbedienza al Cardinale!”. Fu così che accettò di andare a S. Ireneo.

«Il Regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra. Dormi o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce come egli stesso non lo sa. La mia chiamata è radicata nel mistero della semplice gradualità e intensa costanza. Quel sì che ho detto al Signore in tutta disponibilità tanti anni fa, è cresciuto. Ha messo i primi germogli spaziandosi in ricchezze interiori davvero grandi conoscendo il volto e la volontà di Dio. Ringrazio immensamente il Signore di un dono così grande. Lo ringrazio anche per quanto è stato vicino là dove la profondità ha messo alla prova il reale cammino. Del resto il chicco di grano deve morire, unito alla Chiesa madre da sempre chiedo alla grazia perché tutto si compia a nome del Signore».

A Milano i chierici sentivano la mancanza di un urlo: “Chiaro!” che echeggiava alto nei corridoi. Un urlo che ricomparve anche nel Seminario Romano trasformato per il gusto della romanità in: “Clare!”.

Il clima con i chierici era bello, crescevano insieme in umiltà. Giuseppe era amato al Maggiore e, “non aveva rivali”. Conosceva tutti e sapeva di esser conosciuto. A Roma Giuseppe aveva cambiato il suo carattere: si era aperto, aveva preso il gusto di tante cose diverse, aveva acquistato la passione per lo studio, l’amore per il Papa, l’amore per la Madonna (Madonna della Fiducia protettrice del Seminario), la stima dei superiori.

Come tutti, il primo anno a Roma lo passò con gli occhi ben spalancati. Doveva scoprire tutto: le regole, le persone ecc.

Dal secondo anno in poi cominciò a “darsi un tono”. Non per questo dopo qualche tempo arrivò subito un soprannome affibbiato dai chierici; non se lo tolse mai di dosso, nemmeno nel momento in cui uscì dal Seminario: IENA. Un soprannome che riuniva in sé l’intelligenza e la decisione che don Giuseppe aveva sempre profuso nei suoi interventi rivolti a svegliare coscienze un po’ addormentate o semplicemente a qualche scherzo.

Un soprannome azzeccatissimo! Quando i suoi piani andavano in porto o le sue “ienate” riuscivano, rideva come un pazzo (come una iena ridens) mettendosi una mano davanti alla bocca, pendolando in su e in giù con il corpo.

Poi quand’era sacrestano cercava di rendere piacevole i lavori quotidiani come pulire la cappella. Metteva magari all’organo qualcuno e danzava vicino all’altare, vestendosi con qualche antico mantello, facendo la Madonna incoronata... grandi spettacoli a tal punto che tutti volevano venire a lavorare in sacrestia per godersi gli show della iena! E questo insospettì a tal punto i superiori che dopo solo un anno lo tolsero dall’incarico in cappella...

 

XXXIII

 

Giuseppe era molto pratico, tutt’altro che sciocco. Era intelligente, anzi, aveva un modo di pensare tutto speciale.

Gli piaceva gabbare la gente, cioè, più precisamente non gli piaceva gabbarla bensì si divertiva a canzonarla con le sue “burlonerie”... ma nonostante tutto era un tipo aggrappato al metodo antico.

Era sì un uomo intelligente, ma per agire intelligentemente, l’intelligenza non gli bastava, pretendeva sempre di più!

La prima volta che venne in parrocchia diede un’impressione da pensatore elegante, dall’inappuntabile contegno, dallo sguardo calmo e penetrante, dalle labbra severe e ben disegnate. La sua cultura era notevole, e molti non tardarono ad evidenziarla: alcuni in maniera molto fine, altri in modi eccessivamente compiti, altri ancora con una confidenza fuori misura.

All’inizio si vide subito che aveva delle enormi difficoltà di inserimento nella nostra parrocchia, ma dopo, con un gran grinta, spazzò via ogni incertezza ed ogni dubbio che affollavano i suoi pensieri. Ma non erano sempre i desideri a determinare il destino e la missione di una persona: c’era dietro il disegno di Dio.

Giuseppe possedeva un’indole di intuizione, intuizione verso la vocazione delle persone che gli ruotavano intorno; un’indole che lo costringeva a servire gli altri; e lui scopriva ogni giorno che passava che quella era la sua strada, servire gli altri, diventare sacerdote.

Aveva una voce dominata, fredda, positiva, avvincente. Pian piano si accorse che era giunto in mezzo a gente amabile, ed era pronto ad amarla e a fare di tutto per guadagnarsene l’amicizia. Tutte le sue forze e le sue doti in quel momento tendevano verso la meta che ambiva da tempo e che non sarebbe tardata tanto ad arrivare: santificare la porzione di popolo a lui affidatogli dalla Provvidenza.

Tutto ciò che vi era di vitale e di radioso parlavano chiaro in quel giovane: egli portava tutti i segni di un uomo forte, riccamente dotato nei sensi e nell’anima, in ogni caso un individuo straordinariamente capace ad amare, il cui destino e la sua felicità consistevano nell’essere infiammabile dell’Amore di Dio e nel sapersi donare al prossimo...

 

XXXIV

“Oh Flavio, vieni qui, questo è il nuovo diacono mandato dal Seminario Maggiore, si chiama Don Giuseppe...- disse Renzo entusiasta del nuovo arrivo, trascinandosi come un portachiavi il nuovo venuto per tutte le sale della parrocchia - ...questo è uno dei neo-giovanissimi, il suo è un gruppo forte sai...”.

“Buonasera...” disse Flavio alzando leggermente lo sguardo senza mai incrociare gli occhi con quelli di Giuseppe.

“Buonasera” salutò il diacono stringendogli forte la mano, cercando gli occhi di chi gli stava davanti e accennando un sorrisetto.

I due dopo qualche secondo si trovarono; Giuseppe sorrise da una parte, Flavio lo seguì apertamente dall’altra, senza alcun riserbo nei confronti della “inibente tonaca”...

Sorridendo, Don Giuseppe seguì lo sguardo di Flavio, che fuggiva confuso e cercava, strada facendo, di ravvivarsi con le dita i nerissimi capelli scompigliati.

Don Giuseppe possedeva un occhio più acuto e un intuito più penetrante, ma spesso se ne stava sulle sue a meditare. Aveva subito compreso la diversità di quel ragazzo.

Solitario com’era nella sua superiorità, Don Giuseppe aveva subito sentito in Flavio un’anima affine, benché sembrasse enormemente diverso. Se Flavio era cupo e magro, Don Giuseppe era radioso e florido. Se Flavio sembrava un sognatore con un’anima timida da fanciullo, Don Giuseppe un pensatore e un analizzatore. Ma c’erano al di sopra dei contrasti qualcosa che li accomunava: entrambi erano nature superiori nei loro ambienti, entrambi si distinguevano dagli altri per doti e caratteristiche palesi!

Dopo qualche tempo don Giuseppe cominciò a conoscere la parrocchia.

Nel Seminario “se la cominciava a comandare”, anche se non perdeva mai di vista di insegnare ai chierici più giovani quanto era importante pregare, stare in Cappella, partecipare alla S. Messa.

Il mercoledì, il sabato e la domenica veniva in parrocchia. e pian piano i giorni in parrocchia aumentavano! Scappava il giovedì, qualche volta il venerdì... c’era da fare qualche incontro con le Comunità Eucaristiche, qualche volta per le cresime, qualche volta per parlare ai catechisti, molto spesso riunioni di AC. La parrocchia entrava nei suoi pensieri, nelle sue preoccupazioni e si sfuocava sempre più il Seminario.

Si arrivò così al giorno della sua ordinazione dove capì benissimo che cos’era la parrocchia per lui.

Era più di una famiglia. Con quanta cura e con quanto amore avevano preparato tutto per fare di quel giorno, l’evento carico di dolci ricordi.

Nel suo paese i parrocchiani avevano preparato le cose in grande: processioni, fuochi d’artificio, recital, pranzo in oratorio, lancio di palloncini, corteo solenne con il Sindaco... eppure la prima Messa a S. Ireneo fu per lui molto più bella! Era una bellezza interiore, non si poteva comunicare. Non era solo il fatto che a S. Ireneo si era celebrata la sua prima Messa; era il fatto che a S. Ireneo si era quasi realizzato quel gioco misterioso di scambio della Provvidenza. Lui aveva sacrificato tutto e il Padre Buono dal cielo cercava di dargli immediatamente un assaggio di quel tutto che ebbe dispensato con la decisione di voler rimanere a Roma!

Il Papa, le prime confessioni, la prima Messa.

Guardava a ritroso a tutti gli ostacoli incontrati, strade completamente appianate grazie all’aiuto di Dio, per giungere sino all’altare di Pietro, la sua tomba e, ricevere il dono dell’Ordinazione Sacerdotale dalle mani del Santo Padre!!!

Lo Spirito del Signore Dio è su di me

perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;

mi ha mandato a portare un lieto annunzio ai miseri,

a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,

a proclamare la libertà degli schiavi, 

la scarcerazione dei prigionieri,

a promulgare l’anno di misericordia del Signore,

un giorno di vendetta per il nostro Dio,

per consolare tutti gli afflitti, 

per allietare gli afflitti di Sion,

per dare loro una corona invece della cenere,

olio di letizia invece dell’abito da lutto,

canto di lode invece di un cuore mesto. (Is 61)

 

XXXV

 

Strana amicizia fu quella che iniziò fra Flavio e Don Giuseppe... chissà se il don si ricorda ancora di quel Flavio...

Don Giuseppe ebbe in principio la parte più difficile. Fu lui il primo a lanciare una corda; per molto tempo, rimase senza avvicinarlo: sapeva che all’inizio non sarebbe riuscito a conoscere davvero quel ragazzo, se non dopo averlo condotto per alcune strade. Flavio da parte sua, fervido e ardente, si abbandonava a quel tipo di situazione venutasi a creare, senza rendersi conto di nulla.

Cosciente, responsabile e in continua preghiera, Giuseppe, accettava ed affidava tutto al Signore con molta pazienza, senza aver fretta di conoscer completamente Flavio.

Don Giuseppe aveva una singolare capacità di leggere nell’animo della gente, e in ogni caso, amando e pregando, riusciva a legger con maggior chiarezza.

Vedeva Flavio racchiuso dentro di sé, lentamente intuiva i segreti di quella giovane vita. Il suo compito era chiaro: svelare i segreti a colui che li portava in sé, restituirlo a se stesso, renderlo libero, sicuro, aperto.

Il tutto fu molto difficile. Il cammino per accostarsi alla meta fu di una lentezza estrema. Passarono mesi, prima che gli fu possibile attaccare seriamente discorso e giungere ad una discussione sostanziale.

La prima breccia fu aperta da don Giuseppe.

I suoi tentativi erano rimasti per molto tempo senza effetti. Per molto tempo egli si era sforzato apparentemente invano di destare quell’anima, d’insegnarle il linguaggio con cui si sarebbero potuti comunicare.

A poco a poco l’animata vita di Flavio s’era insinuata, nei pensieri del sacerdote; e questi dal canto suo aveva imparato a comprendere e a sentire, senza parole, molta parte della natura di Flavio.

Flavio, fu per don Giuseppe uno degli scherzi della Provvidenza... uno degli scherzetti più pericolosi. Pericolosi perché il labirinto entro cui doveva passare il don era intricatissimo. Doveva camminare lentamente senza mai perdersi d’animo.

E allora pensò di mettere tutto nelle mani del Padre: “Be’... se Tu hai voluto che entrassi in questo impiccio vedi di condurre tu le cose”...

E quando tutto sembrava fargli credere che era un inganno, là veniva smentito.

Tempi lunghi, molto lunghi... che assomigliavano a secoli.

Un giorno ad un incontro del gruppo di Rosa ci fu una controversia: alcuni ragazzi non potevano accettare la fede senza poterla capire e senza avere delle risposte precise a tutti i dubbi e le domande che avevano in testa e che dunque era ipocrita fare determinate cose al gruppo come la preghiera, se non c’era dietro la fede.

Don Giuseppe parlò quel giorno all’interno del gruppo e disse che tutto quello era un inganno stupido perché quando Gesù fece l’ultima cena era in mezzo a 12 persone che non stavano capendo quello che veramente si stava compiendo, il giorno dopo lo avrebbero abbandonato, avrebbero dormito nel Getsemani, poi sarebbero scappati... Gesù non aspettò che i discepoli fossero perfetti per dargli l’Eucarestia, anzi l’Eucarestia gliela diede proprio per perfezionarli dopo la sua morte.

Finito l’incontro don Giuseppe stava quasi per scendere le scalette quando un “ragazzottino” si avvicinò...

“Sai, mi è piaciuto quello che hai detto...”.

E allora il don Milen deviò subito la rotta verso destra, varcando il portoncino fatto di steli di legno arrotolato, inoltrandosi all’interno del giardino... con dietro Flavio.

“... e sì, è stato importante che hai parlato oggi al gruppo!” continuò Flavio guardando per aria.

“E poi?” ribadì don Giuseppe.

“No, niente... solo questo...”.

“E poi?” continuò imperterrito il milanese, impersonando in quel momento un ispettore alle prese con un terzo grado.

“... e poi... e poi ho pensato a una cosa mentre prima parlavi... mentre parlavi... emh... mentre parlavi ho pensato... ho pensato di farmi prete...”.

“Bene - rispose don Giuseppe - son bei pensieri...”.

L’Assistente fece una beve pausa e poi deviò subito il discorso con la scusa che era tardi e aveva una riunione.

Se ne andarono via insieme.

Don Giuseppe non toccò più quel tasto, come del resto non lo fece neanche Flavio.

Pensava: “Se succederà che ritornerà il discorso ben venga!”.

Quella fu la prima presa di coraggio da parte di Flavio nei confronti del don...

 

XXXVI

 

Quell’anno si fece viva, oltre alla figura di don Giuseppe, anche quella di nuovi personaggi.

Insieme a don Giuseppe dal Romano venne un altro seminarista: Giuseppe Lobascio alias Peppino!

Peppino era un giovane ragazzo, aveva un naso aquilino, capelli castani chiari, un fisico prestante, degli occhi azzurri ancora rimpianti dalle parrocchiane. Era una persona molto simpatica. Belloccio nell’aspetto, alto nella persona, smilzo fisicamente e... pugliese anche lui (tanto pe’ cambia’!).

Un ragazzo molto in gamba, sempre pronto nell’animazione, nei canti, nei giochi, nelle cose “pazze”, ma anche molto raccolto e serio nei momenti di riflessione e di spiritualità.

Sapeva donare tutto di sé mettendosi in prima fila e attirando l’attenzione, ma sapeva soprattutto oscurarsi lavorando molto bene dietro le quinte.

Questo si notò bene nei due anni che passò nell’AC di S. Ireneo.

Era una persona schietta, dinamica, allegra... davvero un seminarista attivo.

Giuseppe e Peppino negli anni si erano legati molto non tanto per la loro permanenza insieme a S. Ireneo, perché già si conoscevano in Seminario, ma perché nelle difficoltà ognuno aveva dato una mano all’altro, semplicemente...

Un altro personaggio giunto quell’anno fu Marco O.

Marco era un ragazzo alto, snello, occhi penetranti, vivacissimi dietro un paio d’occhialetti cerchiati. Era un tipo molto deciso, perspicace, pratico, senza troppe fantasticherie nella testa. Un uomo positivo, nemico di qualsiasi pregiudizio. La sua persona esprimeva un’aria tranquilla.

Marco, be’ diciamo pure che era un “pazzerellone e un giocherellone...”. Gli piaceva scherzare e giocare con la gente... purtroppo “rosicava” tutte le volte che veniva fregato da quest’ultima, tendente subito a far vendetta senza però mietere vittime.

Non sopportava i sotterfugi e a volte mancava di diplomazia. Un tipo molto sensibile, disponibile ed esigente.

Era un ragazzo un po’ temerario nella sua baldanza giovanile: affrontava le cose con audacia. Ma nonostante tutto era giovane!!! E... anche se la sua mente era già afflitta da numerosi pensieri (per esempio pensare al futuro e forse ad un matrimonio... se ne riparlerà nel ’96...) la sua gioventù non temeva nulla!

Arrivò in parrocchia anche una nuova suora: Sr Lidia!

Sr Lidia era una persona allegra, un’allegria mai superficiale. Una suora sempre con il sorriso sulle labbra ed era sempre una festa vedere i suoi occhi che sorridevano in ogni situazione!

Una suora profonda, intensa nella sua vita spirituale. Spontanea, dolce, orgogliosa della veste che portava, affettuosa e premurosa con i ragazzi. Schietta e capace di soffrire per la verità ma mai di disperarsi.

Si avvicinò molto presto all’Azione Cattolica e gli fu affidata subito una bella patata bollente: un gruppo 12/14. Nessun problema! Suor Lidia sapeva benissimo come educare quei ragazzi anche se era abituata solamente a dei bambini d’asilo: all’inizio con semplici sperimentazioni, poi sfoderando tutta l’esperienza messa da parte con il ruolo di religiosa!

 

XXXVII

 

Stessa storia, stesso posto, stesso bar: Bassano Romano!!!

Il tema di quel campo fu incentrato sulle Parabole: la parabola del Seminatore, quella del granello di senape, quella delle due case ecc. Si analizzarono e vennero abbinate poi ad alcune attività da svolgere nei gruppi. Gli educatori presenti erano: don Giuseppe, Renzo, Rocco, Sr Lidia, Fabrizio D., Marco O., Elisabetta, Antonio.

Fu il primo campo-scuola di don Giuseppe: non conosceva sufficientemente i ragazzi, tanto meno gli educatori. La sua presenza a quel campo fu abbastanza epidermica, tolti tutti i vari momenti di stretta competenza sacerdotale. Capì sin da quel campo tutto quello che non doveva esser più ripetuto e tutto quello che si doveva migliorare.

Il campo si svolse dal 4 all’11 luglio.

I ragazzi presenti a Bassano erano circa 60. Erano tanti e nelle camerate e nel refettorio c’era molta dispersione.

Al campo l’AC incontrò anche altri gruppi con esigenze diverse: il gruppo degli handicappati della Croce Rossa e le Coccinelle, gruppo scout riservato alle bambine. Con quest’ultime ci furono alcuni momenti in comune. Era bello vedere come nella liturgia comune alcune di loro con i flauti accompagnavano le chitarre nei canti e anche la loro compostezza nei momenti solenni della celebrazione Eucaristica.

Penosa dobbiamo dire l’esperienza dei giochi che a malincuore di don Giuseppe per ben due volte venne usato l’elemento così prezioso e indispensabile alla sopravvivenza: l’acqua (nei giochi non voleva che si utilizzassero ghiaccio, vapore e tutti i vari derivati).

Purtroppo il don Giupé ancora non lo ascoltava nessuno e allora l’acqua veniva ancora utilizzata per gli scherzi da parte dei grossi sui più piccoli con i fucili, le pistole e i gavettoni. Questo dovuto anche al comportamento di alcuni giovanissimi che si dilettavano a lanciare bacinelle strapiene d’acqua dalla finestra...

Una mattina di campo (circa le 5,00) 4 intrepidi personaggi (tra cui senza fare nomi c’era anche Marco O e Flavio), marciarono o meglio vagarono con aria disinvolta diretti chissà dove.

Sopra di loro si levavano ancora frusciando gli uccelli notturni e non solo... ancora qualche stella si mostrava umida e lucente bassa fra le nubi quiete. Marco un po’ addormentato chiacchierava o faceva dello spirito, gli altri di tanto in tanto si univano con le loro risate (un po’ forzate) dato che gli sbadigli erano contagiosi... ma l’alba aleggiava sopra di loro accelerando il ritmo dei loro cuori. Tutto pareva ancora addormentato, i bassi comignoli emergevano più chiari, non una luce brillava. Nella strada, che divideva l’intero complesso dal resto del paese, sfrecciavano indisturbati i camion con sopra appollaiati “rozzamente” i loro conducenti. I 4 arrancavano piano dato che avevano qualche problema motorio dovuto alle loro ciabatte. Strisciarono silenziosi attorno ad alcune case ma appena notarono le prime forme di vita uscire lentamente dalle loro “tane” decisero che sarebbe stato meglio rincasare come 4 vampiri spaventati dal primo bagliore mattutino. Ritornarono al campetto di calcio e lì passarono il tempo chiacchierando. Fecero un altro giro nella boscaglia ma poi il giorno arrivò all’improvviso. Al loro ritorno trovarono in prossimità della pineta una scena simile ad un avvenimento da campo di concentramento. Gran parte dei maschietti erano schierati in fila ritti come obelischi. Antonio li aveva posti in rassegna (chissà che avevano combinato). Ma all’appello ne mancavano tre! E lì ci fu l’apoteosi. I tre senza tante storie si costituirono camminando con passo sicuro verso l’artefice di quella pagliacciata.

Tutto è bene quel che finisce bene. Gli evasi furono costretti ai lavori forzati per la gran parte della mattinata. Il resto della combriccola fu rispedita nella loro barac... emh... nella loro camerata a rassettare i propri letti.

Ultima sera di campo, l’aria era afosa: nel cielo cupo s’addensavano dei nuvoloni minacciosi.

Dopo un tremendo tuono, la pioggia venne giù a catinelle, sferzando il terreno con furia. L’intero piazzale era illuminato a momenti dai lampi, che si susseguivano quasi senza tregua.

Dopo un po’ la pioggia era cessata, ma al suo posto infuriava il vento. Flavio fu preso dai brividi e per un momento si affacciò dal balconcino della terrazza guardandosi intorno con curiosità. Dopo un po’ ebbe una sensazione di terribile freddo e di comprensibile paura...

Tornò di corsa nella sua camerata dove gli altri avevano appena cominciato un pigiama-party. Mangiarono tutte le leccornie comprate e dopo un po’ finsero di avere un “abbiocco” mischiato da un senso di nausea per il festino e una stanchezza accumulata dopo sette giorni di campo. Il cattivo tempo quella sera aveva precluso ogni tentativo di preparare il falò o meglio, qualcuno ci aveva pure provato (due monaci in stato semi-comatico per bruciar le erbacce), ma aveva quasi rischiato di mandare in fiamme metà Lazio, perché soffiava un forte vento e poco distante c’era la pineta.

Ma la festa doveva ancora cominciare! I maschietti dopo aver ingannato il loro carissimo educatore Fabrizio D. (diciamo pure che fu loro complice), presi da quell’istinto di trasgressione comprensibile dovuta all’ultima notte, scesero al pian terreno portandosi dietro un gran numero di “dolci donzelle”. Ma quale era lo scopo? Non lo so. Forse lo abbiamo già detto: trasgredire, uscire fuori dalle regole, beffare gli educatori.

Alcuni, la meta, l’avevano ben impressa nella mente: la pineta! Ed infatti molti si portarono con sé le loro coperte.

Flavio fu uno degli ultimi a scendere. Nelle scale c’era una luce scialba, mentre fuori ululava il vento. Tutti gli alberi scossi mettevano negli animi una tetra impressione. Come gli davano noia a Flavio quei rumori, la notte, il temporale, il buio, le tenebre... che sensazione sgradevole! L’oscurità gravava nella pineta. Il freddo, l’umidità penetravano nei corpi di quei ragazzi. Molti furono presi dai brividi. Erano scesi con l’intento di stare un po’ insieme, con il bisogno di evadere, di parlare. Ma non fu loro possibile. Alla prima panchina un gruppo si fermò coprendosi il più possibile. Gli altri fecero la stessa cosa avvicinandone una al primo gruppo. Flavio insieme ad altri rimase fregato, ma non si scoraggiò. Stesero i loro copriletti per terra sdraiandosi sopra, accucciandosi il più possibile.

Ma quella sera non portò con sé nulla oltre al fatto che ognuno mormorava a denti stretti: “Che freddo, che freddo che fa!”. Dopo un po’ un segno del destino (come lo svegliarsi da un brutto incubo), da una finestra del palazzo un grido. Era Elisabetta, che accortasi della mancanza di molti ragazzi e impaurita dai loschi schiamazzi notturni riportava l’ordine dinanzi a quel trambusto. I ragazzi impauriti vagavano nel buio. Flavio inciampò più volte nel buio del piazzale ma ebbe la bella idea di rientrare in camerata il più tardi possibile. I primi che rincasarono le buscarono dalla “mamma del campo”... “alcuni” con fare astuto si salvarono grazie all’omertà e alla complicità di “altri”...

 

XXXVIII

 

Con l’apertura del nuovo anno associativo (1993-‘94) venne spedito dal Seminario, direttamente per l’AC S. Ireneo un nuovo chierico: Francesco!

Francesco era un tipo pacioccone, pacioso e allegro. Aveva due guanciotte sode sempre rosse che risaltavano subito. Era tranquillo e abbastanza assennato.

Era un giovane abbastanza spigliato con i ragazzi, soprattutto con i più piccini. Gli piaceva giocare con loro, far festa e anche animare le parti morte degli incontri. Ragazzo molto riflessivo, al gruppo e sapeva regalare cose grande ai ragazzi.

Per tutto il tempo che rimase con l’AC poté offrire un esempio di profondità e di impegno di comprensione della realtà del prossimo.

Era un seminarista impegnato: studiava ed era stimato molto dalle persone.

L’ACG nell’anno associativo analizzò le relazioni con gli altri.

Quell’anno si doveva procedere a evidenziare i tipi di rapporti che si potevano avere con il prossimo alla base dei valori cristiani.

Ci fu un incontro molto curioso del gruppo durante l’anno: si analizzarono insieme a Rosa i tipi di rapporti che bisognava avere con le persone dell’altro sesso, i rapporti tra ragazzi e ragazze. Dobbiamo dire che quel giorno tutti i ragazzi rimasero scioccati. Rosa, vedendo quelle facce sbigottite e allucinate, cercava con il suo fare diplomatico di mettere le toppe qua e là dicendo: “Queste cose che diciamo, magari adesso non le capite e non le vivete... magari un giorno...”.

Un simbolo aveva sempre la capacità di sintetizzare le cose più importanti, aiutava molto di più di tante parole a comprendere un significato e a richiamare alcune esperienze in modo immediato e creativo.

Il simbolo del gruppo giovanissimi di quell’anno fu la “Corda di montagna” che voleva esprimere il tema dell’anno sulla Relazionalità.

Le relazioni autentiche, cioè quelle avute prima di tutto con Dio, poi con tutte le persone che vivevano accanto e che si incontravano lungo il cammino, solo da una corda di montagna ben stretta potevano essere rappresentate.

 

XXXIX

 

Sembrava solo poco tempo fa quando, scendendo nella saletta ACR si poteva osservare un folto e rumoroso gruppo di bambini che festanti attorniava i pochi educatori presenti: quella non era ACR... nella stessa stanzina erano stipati ragazzi dagli 8 ai 15 anni che fra mille difficoltà e molta allegria svolgevano le stesse attività. Da quei tempi ne erano passati di anni e la realtà dell’Azione Cattolica era profondamente mutata. Gli educatori, per fortuna, da due si erano tramutati in un’équipe; i ragazzi erano notevolmente aumentati portando avanti sin dall’89 i cammini differenziati in base all’età.

l’AC S. Ireneo era cresciuta nel silenzio, presente in tutti i settori. Quei bambini di nove, dieci, undici anni come Flavio, erano cresciuti, camminando prima in ACR, ora in ACG.

Quei bambini, oramai ragazzi, nell’aprile del ’94 furono i promotori di una grande iniziativa: un giornalino!!! Il gruppo di Flavio da tempo andava alla ricerca di qualcosa che li facesse decollare, non tanto per realizzare le persone che lo formavano (già stracolme d’impegni) ma per cercare di attirare dentro più gente possibile, nuovi talenti mai notati prima: un’iniziativa che poteva dare delle nuove ventate di entusiasmo.

La parola che si potrebbe utilizzare per descrivere il tutto è IMPEGNO. Sì, proprio così, perché gli anni di Associazione dovevano portare proprio a quello.

Ecco il Giornalino: un gruppo di ragazzi che voleva dare, nel limite delle loro forze, il proprio contributo alla vita associativa e parrocchiale.

Nei primi tempi il Giornalino ebbe soltanto la funzione di “scambio di idee” e mezzo di comunicazione all’interno dell’AC. Successivamente volle entrare più nel vivo della parrocchia non come “giornalino di parte” ma come forma di comunicazione fra le varie realtà. Questo rappresentò un punto di svolta per il gruppo, di cambiamento: ecco il nome della testata... PuntACcapo che spiritosamente voleva riassumere quell’intento.

Si riflesse molto sul modo di portare avanti PuntACcapo. Esso voleva essere sì uno strumento che sviluppasse la collaborazione fra i vari settori di AC, ma la sua “visibilità” voleva essere anche un mezzo che operava in un campo molto più vasto: in tutta la parrocchia. Uno degli intenti principali del giornalino fu infatti impegnarsi in tutto e per tutto affinché si rafforzasse fra le varie realtà parrocchiali un clima di profonda e sempre maggiore COMUNIONE! Con semplicità, con un operato fatto di atteggiamenti e piccoli gesti quotidiani. Un tema che all’AC stava particolarmente a cuore: la COMUNIONE con tutte le realtà, la COLLABORAZIONE nella parrocchia, L’APERTURA della Chiesa!

PARROCCHIA = Azione corale caratterizzata da un clima di profonda comunione che parta dalla conoscenza di tutte le varie sfaccettature dell’unico organismo della Chiesa!

 

XL

 

A maggio del ’94, mese di Maria, il gruppo genitori portò avanti una bellissima iniziativa: la preghiera del S. Rosario riuniti nelle case. Genitori dei ragazzi, figli, educatori e don Giuseppe, s’incontravano una volta a settimana, al di fuori dell’ambito parrocchiale, nelle case di alcuni genitori messe a disposizione per l’occasione.

Un modo spontaneo e semplice di pregare, di stare insieme e per scambiare dopo, qualche chiacchiera. Tutto nacque dal bisogno del gruppo di soffermarsi, tralasciando le mille occupazioni per dare spazio alla preghiera. Una preghiera sempre viva che poteva rafforzare tutti nel contesto delle famiglie.

Il Santo Rosario è un’arma potente. Si deve impiegare con fiducia. Il Rosario è efficacissimo per quanti usano la superiorità ritrovandosi ad essere superbi dinanzi agli altri... poiché quell’apparente monotonia di bambini con la loro Madre, nell’implorare Maria, può distruggere ogni germe di orgoglio. Si recita il S. Rosario in una monotonia dirompente di avemarie... una monotonia che può rendere semplici gli uomini, rilassati, forti e... bambini!

Il Rosario non lo si recita a cantilena solo con le parole, muovendo le labbra, sparando a raffica una dietro l’altra le avemarie. Per dei cristiani quella preghiera vocale deve prima partire dal cuore in modo tale che la mente, durante la recita, possa addentrarsi nella contemplazione dei misteri.

Santo Rosario: glorie, dolori, gioie della vita... corona di ringraziamenti e di suppliche ininterrottamente ripetute... arma sicura per vincere le tentazioni, preghiera potente, pace interiore... dolce colloquio con Maria!

Il 15 maggio ci fu la Giornata degli Incontri che fu organizzata proprio vicino casa, a Villa Gordiani.

Tutto cominciò molto presto: alle 7,30 i membri dell’équipe diocesana erano già al lavoro e con loro anche numerosi giovanissimi (tra cui anche Flavio) venuti come Servizio d’ordine. Per evidenziarsi indossavano una pettorina arancione e una visiera rossa. Costruirono il palco, “innalzarono” la segreteria, attaccarono cartelloni ed indicazioni. Quel giorno vennero diffuse delle spillone gialle a forma di smile con la scritta: CI SIAMO, vennero dati i giornalini dell’Azione Cattolica ai ragazzi del Passaggio e i fogli dei canti della giornata. Nel corso della mattinata si svolsero gli stands. Quello di S. Ireneo consisteva nel preparare dei finti panini girando attorno a tavoli, muovendosi a tempo di musica. Durante la S. Messa venne celebrato quel grande momento tanto atteso: il Passaggio dei 14enni! Non mancarono nella giornata le canzoni ricreative dell’Azione Cattolica come Guendalina, ACR rock, ACR twist, Banana Banana ecc.

Una giornata ricca di movimenti e divertimento, basti citare solo come fu il saluto finale... Tutti i ragazzi imitavano il rumore delle automobili quando cambiano di marcia in accelerazione, mentre dal palco la voce di don Giampiero (Assistente diocesano) scandiva il cambio dei rapporti: Primaaa... Secondaaa... Terzaaa... Quartaaa... Quintaaaaa!!! E al culmine del rombo in quinta marcia un’esplosione: “CIAO!”... fu quello il saluto con cui terminò quella giornata diocesana!