Ciò che non può essere invece mai falsificato è l’essere stesso. La nostra comprensione dell’essere, ad esempio, non potrà mai essere modificata da una nuova scoperta empirica, perché la "scoperta" dell’essere è, nello stesso tempo, più vecchia e più "futura" che qualsiasi scoperta empirica, ed è lo spazio già aperto senza il quale nessun avvenimento empirico potrebbe verificarsi. Il senso dell’essere non può né arricchirsi né precisarsi - né tantomeno essere falsificato - per semplice accumulazione di ‘dati’: esso è già dato in modo definitivo, prima d’ogni dato particolare. E’ per questo che l’idea di una “storia dell’essere” solleva non poche perplessità. In fondo, se ci fosse una storia del modo in cui l’essere si dà o si manifesta, noi non ne sapremmo nulla. Come potremmo sapere ciò che l’essere era o ciò che,sarà se non partendo da ciò che esso è ? Se non, cioè, dando per scontato che rimanga immutabile ? Pensare che l’essere possa avere avuto, o potrà avere, un senso diverso da quello che di fatto ha, è per noi del tutto impossibile. Anche perché l’idea di ‘storia’, insieme a quelle di ‘verità’ e di ‘sapere’, sparirebbe totalmente dal nostro orizzonte di pensiero.

 

- Siamo ben lontani, come si vede, sia dalle tesi del pensiero ermeneutico (specialmente dalle sue varianti ‘deboli’) sia da quelle del cosiddetto decostruttivismo. Queste due tesi convergono nell’idea che l’essere non sia in alcun caso riducibile alla ‘categoria’ della presenza (origine delle deprecabili nozioni ‘forti’ di fondamento, arché, identità, centro, ecc.), essendo, nella sua dimensione più autentica, evento in différance, svelamento sempre di là da venire, ecc. L’essere non si presenterebbe mai in se stesso, e proprio questa sua celatezza essenziale costituirebbe la riserva cui attingerebbe la storia nella sua inesauribile capacità di produrre il nuovo e l’inedito. Sempre altro dall’ente presente e dalle parole che lo dicono, l’essere impedirebbe al discorso di chiudersi e di cogliere in qualche modo delle verità a lui esterne, costringendo le parole a rilanciarsi in sempre nuove interpretazioni il cui unico fondamento è la tradizione linguistica da cui provengono e da cui sono sollecitate. Non c’è niente di male ad essere hegeliani, tanto meglio se senza l’armamentario della teleologia della fine della storia. Ma tutto ciò ha ben poco a che fare con la logica interna del pensiero heideggeriano che, pur tra molte divagazioni poco convincenti sul destino e sulla storia dell’occidente, parte proprio dall’idea, continuamente rimedicata, di una manifestazione dell’essere in se stesso, che si dà in un husserliana “intuizione categoriale” paragonata alla fine nientemeno che all’esti gar einai di Parmenide.

"Anwest nämlich anwesen”, è presente infatti l’essere presente: così Heidegger traduce il frammento parmenideo. facendo di queste parole la sigla testamentaria del suo pensiero. E’ presente l’essere presente; ovvero: l’essere è dato, svelato, manifesto, qui e ora e già da sempre. Nel 1969, nella sua unica intervista televisiva, Heidegger affermava che "il segno più caratteristico del destino in cui noi ci troviamo ( la dimenticanza della questione dell'essere ) è - per quello che riesco a vedere - il fatto che la questione dell'essere, che io pongo, non è stata ancora compresa".

Non sembra che, nel frattempo, le cose sia cambiate di molto.

 

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