Un Vickers 6T

 

 

 

 

 

 

Carro medio 8T - prototipo

 

 

 

Cruiser Tank Mark VIII Cromwell

 

 

 

 

 

 

Disegno di un carro M/11-39

 

 

 

 

 

M11/39 “australiani”
A Squadron Dingo 6th Cavalry Regiment

 

 

Alla vigilia della II Guerra Mondiale l’Italia non disponeva di un carro medio; l’unico “simulacro” di mezzo corazzato, oltre all’ L3 era rappresentato dal vetusto FIAT 3000, rinnovato nell’armamento con una nuova variante dotato di cannone in torretta da 37 mm., ma sempre egualmente inefficace ed antiquato. Gli studi dell’Ansaldo in questi anni si orientarono principalmente verso i carri “Vickers” da 6 tonnellate. Questi carri che, nella variante 7TP in dotazione alle forze corazzate polacche, avrebbero conosciuto un triste battesimo nel fuoco durante l’invasione tedesca, vennero seguiti principalmente per il loro sistema di rotolamento (presente anche sui T26B e OT130 sovietici incontrati in Spagna dalle nostre truppe), definito da molti esperti del settore “progredito”. Gli otto rulli portanti gommati raggruppati in due complessi ammortizzati da quattro elementi ciascuno, quasi a formare una sorta di “doppio trapezio” tra la ruota dentata di trazione e quella di raccordo posteriore, divennero ben presto l’elemento caratteristico di tutti i nostri mezzi corazzati di classe M e P fino al 1945. Il lavoro svolto dall’Ansaldo fu quello di adattare il sistema di tipo Vickers ad un prototipo di carro medio da 8 tonnellate armato con un cannone da 37 mm nello scafo e mitragliatrice in torretta. Il modello M/11-39 venne così realizzato come prototipo nell’estate del 1939 mentre i primi (ed ultimi) 100 esemplari di serie furono consegnati al Regio esercito appena quaranta giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia.

Questo carro (che Badoglio definì, bontà sua “magnifico”) rappresentò senza dubbio un passo in avanti rispetto ai modelli a quel tempo in forza ai nostri reparti corazzati ma, alcune carenze progettuali ne segnarono il fulmineo declino.  Durante l’esordio operativo in Africa il carro mostrò ampiamente le proprie pecche. L’armamento, per cominciare era mal posizionato, scomodo da utilizzare, caricare, e dal limitato brandeggio. Il pezzo da 37 mm. In casamatta anche se in linea con le dotazioni di artiglieria su carro dell’epoca forniva un volume di fuoco discreto ma limitato alla sola zona frontale (lo stesso errore fu commesso dagli americani con l’M5 Lee) ed inoltre la mitragliatrice binata da 8 mm. in torretta era praticamente innocua ed incapace di fornire un’adeguata protezione sui 360°.  Se a ciò si aggiunge la cronica inferiorità qualitativa di materiale e tecnica di corazzatura (imbullonata anziché saldata e per giunta con lastre dalla consistenza estremamente disomogenea) si può capire come, in un discorso generale, comparativo con i mezzi a disposizione degli altri eserciti, il povero M/11 ne uscisse abbastanza malconcio malgrado le discrete premesse progettuali. Il vero tallone di Achille di questo mezzo, e di un po’ tutta la produzione italiana di questi anni fu però il motore, fiacco ed estremamente fragile.

La miopia del duo FIAT(SPA)/Ansaldo (forse per la mancanza di una reale concorrenza progettuale, come avvenne invece, e con successo, in Germania) qui toccò il fondo ed ancora oggi molte delle decisioni prese (e soprattutto non prese) potrebbero apparire abbastanza inspiegabili se non si chiamassero in causa i soliti conflitti d’interesse che segnarono negativamente tutta la produzione bellica della nostra industria durante il conflitto.

Per introdurre questo delicato argomento si deve premettere che le scelte motoristiche fatte dai vari produttori di mezzi, a livello mondiale, possono essere sostanzialmente raggruppati in due schieramenti. Nel primo si possono collocare coloro che intrapresero la progettazione ad hoc di propulsori potenti e robusti idonei a supportare questi particolari mezzi (Germania, Cecoslovacchia, la stessa Francia); nel secondo invece quelli decisero di rivolgersi all’industria aeronautica (almeno nei primi anni di guerra), riciclando vecchi propulsori ormai superati per gli aerei ma indubbiamente validi e collaudati se impiegati su dei carri armati (Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica). Di quest’ultimo “fronte” sono da ricordare ad esempio l’M5 General Lee (e la prima serie Sherman) con il suo radiale Wright Continental a 9 cilindri per una potenza di 400 CV,  il velocissimo M3 Stuart, dotato di motore radiale, gli inglesi A13 Mk III, Mk IV e il Crusader Mk VI, tutti equipaggiati con un propulsore di derivazione aeronautica “Liberty” del 1917 capace di erogare efficacemente ben oltre 300 CV, senza poi parlare del Cromwell Mk VIII con il suo Rolls Royce Meteor da 12 cilindri a V capace di  ben 570/600 CV e dello stesso T34 sovietico con il suo diesel V-2-34 da 500 CV. Senza dubbio questa strada, assai più economica di quella tedesca, poteva essere intrapresa comodamente dalla nostra industria con un semplice lavoro di adattamento (i vecchi CR20, CR30 e CR 32, gli IMAM Ro1/26-27 avevano motori del tutto analoghi a quelli appena citati e, sebbene superati in campo aeronautico, avrebbero potuto rappresentare un valido punto di partenza per i nostri corazzati) ma venne invece scartata in favore di propulsori di derivazione stradale (nel caso dell’M/11 uno SPA 8T diesel da 8 cilindri a V da appena 125 cavalli “dichiarati”), fragili ed inadeguati a sopportare lo stress provocato dalla struttura e dalle modalità d’impiego di un carro armato.

Questa digressione può far ben comprendere quale fosse il vero punto debole di tutto il nostro parco mezzi: la motorizzazione. Un carro medio scadente (come il nostro M/11-39) ma dotato comunque di un propulsore elastico, veloce e versatile avrebbe comunque potuto ben figurare in uno scenario, come quello iniziale del conflitto (specialmente sul fronte nordafricano), dove le strutture e i mezzi erano ancora i fase di definizione da entrambe le parti. In Africa ad esempio un carro nato male come il Valentine II riuscì ad avere la meglio sui nostri carri M grazie alla sua miglior manovrabilità, ed analogamente un leggero come l’M3 Stuart riuscì a reggere il confronto solo grazie alla velocità e manovrabilità consentitagli dal suo eccellente motore.

Per tornare alle vicende del carro M/11-39 (impiegato quasi esclusivamente in Africa settentrionale, ad eccezione di qualche esemplare riesumato dai depositi durante i giorni della Repubblica Sociale), si deve aggiungere che tutti degli esemplari consegnati ai reparti vennero distrutti o abbandonati durante i primi nove mesi di guerra. Noie meccaniche, fragilità dei materiali (abbinato alla mancanza di collaudi idonei), mancanza di ricambi e di apparecchiature radio, oltre alla sostanziale impreparazione del personale tecnico di supporto, segnarono irreparabilmente l’esistenza di un carro armato che, seppur discretamente valido dal punto vista progettuale se paragonato con i “cugini” britannici di quel periodo, pagò di persona fra le sabbie infuocate del Nord Africa le croniche deficienze della nostra macchina bellica. 

Per la cronaca, l’ultimo M11/39 della stirpe finì i suoi giorni in Piemonte durante la guerra di liberazione come unità dell’esercito repubblicano.