Circolo di Rifondazione Comunista di Palata (Cb)
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Kurdi
Una negazione sistematica
di Lord Eric Avebury
Non c’è dubbio che la radice del conflitto risiede nel reiterato rifiuto della Turchia di prestare ascolto alla rivendicazione kurda di eguale rappresentanza nella sfera politica, sociale e culturale, e di eliminazione della sperequazione economica fra la regione kurda e le più prospere regioni della Turchia occidentale. Questa amnesia da parte di Ankara poteva essere attribuita, nella prima metà del secolo, al travaglio della nascita del nuovo ordine repubblicano. Poi venne la guerra fredda, durante la quale la Turchia svolse un ruolo chiave di zona cuscinetto rispetto alla minaccia proveniente da oriente ed ai piani espansionistici sovietici. Terminata la guerra fredda, proprio quando era plausibile che la Turchia fosse fra i primi beneficiari del nuovo ordine, venne fuori per essa un nuovo ruolo. La sua natura essenzialmente secolare e il livello di democrazia, accettabile a paragone di altri stati dell’area, ne fecero di nuovo una zona cuscinetto per l’Occidente, questa volta contro la crescita del fondamentalismo islamico e contro le dittature regionali. In ogni caso questi diversi ruoli furono assunti volentieri dalle autorità turche perché servivano, lungo tutta la storia moderna della Turchia, a giustificare agli occhi delle potenze occidentali la necessità di tutelare la struttura monoetnica post-1923. Con variazioni di forma e di ragionamento, l’argomento è sempre stato che qualunque cambiamento nello status quo dell’assetto corrente della nazione avrebbe prodotto un’estesa instabilità o finanche una guerra civile, e questo a sua volta avrebbe leso interessi strategici dell’occidente nella regione sul terreno industriale, geopolitico e militare. Attraverso l’uso sistematico della minaccia di una possibile instabilità, la Turchia non solo ha guadagnato il tempo ritenuto sufficiente per la turchificazione forzosa dell’intera popolazione, ma si è procurata una preziosa tolleranza da parte dell’Occidente, di cui non gode nessun altro stato dell’area.
All’ombra di questa tolleranza, lo Stato ha cercato di far accettare tutto, dai colpi di stato alle deportazioni di massa ed a violazioni dei diritti umani così sistematiche che non reggono, significativamente, il paragone né i passati totalitarismi delle repubbliche sovietiche, né gli attuali regimi islamici. Uno sforzo speciale è stato esercitato per costringere l’Occidente a sostenere la politica di denegazione delle rivendicazioni kurde. La forma più recente di queste rivendicazioni è senza dubbio quella espressa dal PKK, visto ancora dalla Turchia e da molti suoi alleati come un’organizzazione terrorista, soprattutto per via delle azioni rivolte nel passato contro obbiettivi non militari. Nonostante i kurdi costituiscano circa il 20% di una popolazione della Turchia pari a sessanta milioni di persone, la politica turca sul “problema kurdo” ha continuato a fondarsi sulla sistematica negazione di questo problema, e quindi dell’insieme dell’identità e delle rivendicazioni etniche dei kurdi. E’ dunque vitale per Ankara tener fermo lo stigma di terrorismo riferito al PKK. In caso contrario dovrebbe ammettere la natura sociale e politica del confitto in corso, e dovrebbe affrontarne e motivazioni. Per quanto questa politica di primato della sovranità da parte dello Stato possa apparire premiata dal successo, ha prodotto però nell’ultimo decennio l’emersione del PKK come fulcro della resistenza nazionalista kurda al dominio turco, a dispetto della sua originaria matrice ideologica marxista-leninista. In questo contesto chi voglia trovare una definizione accettabile del PKK, al di là dei troppo deboli proclami turchi, deve indagare la sua propria strategia e le sue ragioni, così come si presentano a partire dal ’77. Questo è l’unico metodo razionale. Secondo il programma originario del partito, rimasto immutato per anni salvo modifiche non essenziali, il PKK assumeva fin dal principio della sua lotta che la regione geografica chiamata Kurdistan era stata suddivisa in quattro regioni da quattro distinti paesi coloniali; che la più ampia di queste zone è il Kurdistan turco; che la forma classica di sfruttamento si basa sulla produzione semifeudale, e che la rivoluzione deve essere fondamentalmente di carattere nazional-democratico. In tutti i primi documenti del PKK, nel corso degli anni ’80, si specifica che il fine principale del movimento è la liberazione del popolo kurdo, assunto come opolo oppresso, vittima del colonialismo e dotato del diritto all’autodeterminazione.
Per essere più precisi, il PKK afferma di agire per conto del popolo kurdo e in nome delle sue giuste rivendicazioni. La questione centrale alla quale occorre qui rispondere, prima ancora di discutere dei meriti e demeriti del PKK, è se il popolo kurdo sia realmente, in prima istanza, titolare di questo tipo di diritti.

In altri termini: le leggi e consuetudine internazionali attribuiscono alla parte maggioritaria del popolo kurdo (quella che risiede in Turchia) un “jus ad bellum”, ossia ne legittimano il conflitto? Una volta risolta questa questione, la successiva sarà, cn tutta evidenza, se un qualsiasi gruppo politico o militare, dotato di una linea confliggente con le principali tendenze del capitalismo, possa agire questi diritti in nome dell’insieme del popolo. Il retroterra storico Data la storia della Turchia e della colonizzazione della regione chiamata Kurdistan, è evidente che l’attuale esistenza di un’identità nazionale kurda –a dispetto dei brutali tentativi di azzerarla- e il conseguente ricorso dei kurdi a un’insorgenza armata, non possono che basarsi su solide ragioni.
Le stesse ragioni che, agli occhi di molti dei protagonisti nel recente conflitto, legittimano il ricorso della locale popolazione kurda alle armi in assenza di ogni altro strumento di espressione delle loro rivendicazioni. E’ questo diritto che è il punto nodale del conflitto in corso, e il suo punto di partenza risale a un’epoca ben precedente alla fondazione del PKK. Il sociologo turco Ismail Besikci dalla sua prigione fa notare che “lo sviluppo di un sistema coloniale internazionale nel Kurdistan è forse uno degli eventi più tragici della storia mediorientale e mondiale nel primo quarto del XX secolo”. Di fatto oggi il popolo kurdo “ha il poco invidiabile primato di essere probabilmente la sola comunità di oltre quindici milioni di persone che non abbia raggiunto una qualche forma di statualità, nonostante una lotta pluridecennale”. Lungo tutta la loro storia i kurdi sono stati vittime delle politiche del “divide et impera” e di interessi coloniali mossi dalla ricchezza di risorse e dall’importanza geostrategica della regione. Il “sistema coloniale nel Kurdistan” si può agevolmente definire come una tragedia umana. Nel suo sviluppo storico milioni di persone non solo si sono viste sottrarre le proprie aspirazioni storiche e in un certo senso tradizionali, ma hanno dovuto assistere alla suddivisione delle loro famiglie e dei lro territori fra le nuove n azioni nate dopo la prima guerra di spartizione. L’infelice punto di svolta dello smembramento del popolo kurdo, a prevalente religione musulmana, fu senza dubbio la caduta dell’Impero ottomano, che era uno Stato multiculturale il cui criterio unificante era la comunità dei credenti (“umma”) e non la nazionalità. Fino alla Prima guerra mondiale l’Impero ottomano era, a grandi linee, un’entità politica essenzialmente multinazionale che includeva turchi, arabi, kurdi, greci, bulgari, cechi, slovacchi, albanesi, armeni, circassi, laz e molti altri popoli.
A lungo, sul finire del XIX secolo, fu descritto come una "minaccia per l’Europa”. Invece il suo potere andò declinando a causa del mancato inserimento nella rivoluzione industriale, dell’aprirsi di contraddizioni interne (il mantenimento di un poderoso esercito, una proprietà terriera statalista che impedì la modernizzazione capitalista, l’assolutismo e la connessa sclerosi del pensiero scientifico e filosofico etc.), nonché della pressione aggressiva dell’Austia e dell’espansionismo zarista. Fino all’inizio di quel secolo avevano continuato ad esistere i principati kurdi. Tuttavia l’Impero temeva il loro indipendentismo e, vedendo via via ridursi la sua autorità centrale, tentò di sottometterli dando vita a una serie di rivolte. Prima della Grande guerra le popolazioni arabe si erano già separate dall’Impero. Durante la guerra, per reazione alle cruente insurrezioni interne, centinaia di migliaia di armeni furoo massacrati e deportati. In quanto ai kurdi, la cui maggioranza si considerava parte degli “ottomani”, la loro sorte fu decisa dall’andamento della guerra d’indipendenza turca, fra il ’19 e il ’23. Schierato al fianco della Germania e dell’Austria-Ungheria nella guerra, l’Impero ottomano era stato sconfitto, e la resistenza armata alle forze di occupazione in Anatolia non impedì, il 10 agosto 1920, la firma del Trattato di Sèvres. Esso prevedeva lo smantellamento dell’impero e la formazione di stati nazionali disegnati in base all’autodeterminazione etnica e culturale delle popolazioni, il che avrebbe dovuto consentire la nascita di distinti stati-nazione per i kurdi, gli armeni e gli arabi, oltre alla Repubblica turca. Delegazioni di questi popoli presero parte, riconosciute dagli alleati, agli incontri di Parigi. Gli articoli 62 e 64 del Trattato di Sèvres (Sezione terza, Kurdistan) prospettavano la formazione di uno Stato kurdo, in un primo tempo all’interno dei confini della Turcia (art. 62). Tuttavia l’articolo 64 dello stesso Trattato precisava che “se entro un anno dall’entrata in vigore del presente trattato la popolazione kurda compresa nelle aree di cui all’articolo 62 si rivolgerà al Consiglio della Lega delle nazioni in forme tali da dimostrare che una maggioranza della stessa popolazione desidera l’indipendenza dalla Turchia, e se il Consiglio considererà quindi quella popolazione meritevole dell’indipendenza e raccomanderà che le sia accordata, la Turchia dichiara fin d’ora il proprio assenso alla messa in atto di tale raccomandazione, e dichiara di rinunciare ad ogni prerogativa e titolo sull’area interessata”. Il testo letterale del Trattato di Sèvres, firmato dalle parti interessate, è importante perché, se non altro, smentisce l’usuale pretesa turca che i kurdi non sarebbero né una minoranza etnica né una comunità nazionale in senso lato. “Se e quando avrà luogo tale rinuncia –prosegue il testo-, le Potenze alleate non solleveranno obiezioni circa la volontaria adesione a tale Stato kurdo indipendente da parte dei kurdi residenti nella parte del Kurdistan attualmente inclusa nel vilayet di Mosul”. Ciò nonostante le aree kurde dell’Iraq settentrionale, invece di contribuire alla formazione di un’entità statale autonoma o indipendente, furono poste sotto il mandato britannico, mentre il Trattato franco-turco aveva già incorporato nel territorio siriano (sotto mandato francese) tre aree kurde, e la parte più grande del Kurdistan veniva inclusa nella Repubblica turca.
Le forze militari kurde fino allora erano state attivamente coinvolte nella repressione delle rivolte armene nell’est dell’Anatolia, ed avevano cominciato a fornire un importante contributo alla lotta di liberazione che si andava sviluppando nell’Anatolia. Una maggioranza dei kurdi fu deliberatamente ingannata. Alcuni di loro si considerarono “eguali” alla luce del Protocollo di Amasya del 1919, che aveva “riconosciuto i diritti nazionali e sociali dei kurdi”. Altri furono letteralmente trascinati a dar credito alla promessa del fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk, secondo cui “i turchi e i kurdi vivranno insieme in fraternità ed eguaglianza”. Ma con la definizione dei nuovi confini della Repubblica turca (“Misaki Milli”), quando la guerra di liberazione terminò con la cacciata dell’”esercito occupante”, Ankara sottoscrisse lo storico Trattato di Losanna del 1923, che implicitamente e in forma incidentale affidava le regioni kurde in questione alla Turchia kemalista. Con il Trattato di Losanna veniva alla luce un nuovo Stato-nazione artificiale, e a dispetto di tutte le promesse e il gran parlare di “deputati kurdi” nella prima riunione dell’Assemblea nazionale turca, da allora e per molti anni non si fece più parola di Kurdistan né di popolo kurdo in Turchia. Questo tuttavia non fu forse una diretta conseguenza del Trattato in sé, ma più o meno un portato della sua interpretazione corrente, come settant’anni più tardi a messo bene in rilievo Lord Kilbracken. Il Trattato infatti non faceva menzione dei kurdi e non garantiva loro alcun diritto nazionale, ma menzionava comunque la “tutela dei diritti delle minoranze”. Centrali sono gli articoli 38 e 39. Il primo recita: “Il governo turco si impegna ad garantire piena e integrale tutela della vita e della libertà per tutti gli abitanti della Turchia, senza distinzione di nascita, nazionalità, lingua, origine etnica e credo religioso…

Tutti gli abitanti della Turchia saranno titolari del diritto di praticare, in pubblico come in privato, ogni fede, religione e opinione, il cui esercizio non risulti incompatibile con l’ordine e la morale pubblica”. L’articolo 39 d’altro canto include questi punti: “Nessuna restrizione sarà esercitata circa il libero uso, da parte di ogni cittadino turco, di qualsiasi linguaggio nelle relazioni private, nelle pratiche commerciali e religiose, sulla stampa o in incontri pubblici… L’esistenza di una lingua ufficiale non impedisce che si forniscono adeguate garanzie circa l’uso, da parte dei cittadini turchi, di lingue non turche nell’uso orale dinanzi ai tribunali”. Tuttavia nell’interpretazione corrente del Trattato Ankara argomentò (specialmente nella Conferenza di Losanna, in assenza dei kurdi) che “turchi e kurdi sono partner eguali per quanto concerne il governo della Turchia…”, e tutte le parti conclusero che gli articoli 40-45 specificavano che le minoranze in questione erano in realtà le “minoranze non musulmane”. Ankara si vide dunque a maggior ragione attribuire il potere di assimilare liberamente tutti gli altri gruppi etnici di religione musulmana, e in capo a qualche anno i kurdi, insieme a tutta la loro identità culturale e sociale, erano scomparsi in Turchia.