| | | | | | Kurdi | | | | | | | | | Il paese che non c'è | | | | | | Il Kurdistan è la culla della civiltà. Un altro nome è più familiare alla nostra cultura: Mesopotamia. Infatti "Centro culturale della Mesopotamia" si è chiamato il sodalizio di giovani intellettuali e artisti che, a Istanbul, entrano ed escono dalla prigione e dalla tortura per un libro, un film, uno spettacolo teatrale, un'antologia poetica. Perché il nome "Kurdistan" è vietato e impronunciabile in Turchia. Ma anche perché del loro passato plurimillenario i kurdi vanno fieri. Nel territorio dei loro progenitori, i Medi, sull'alto e medio corso del Tigri e dell'Eufrate, la Bibbia collocava l'Eden, il paradiso terrestre. Ora quel paradiso è un inferno. Pascoli e campi, boschi e villaggi, case e animali sono un ricordo per centinaia di chilometri, nella lunga striscia che corre al confine fra Turchia, Iran, Iraq e Siria: i quattro stati che nel '23 si videro assegnare dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale altrettante frazioni dell'unità territoriale, linguistica e storico-culturale kurda. Quando Abdullah Ocalan è sbarcato in Italia, a Fiumicino, ed ha consegnato all'Italia e al mondo le chiavi della guerra e della pace per il suo popolo, sapeva di compiere un gesto storico. Le insurrezioni kurde hanno segnato la conversione forzata all'Islam e la repressione dell'antica e tollerante religione zoroastriana, e poi secoli di dominazione turca, persiana o araba. Rivolte sempre soffocate nel sangue, così come quelle del nostro secolo, perché sempre prive di una leadership unificante e mai divenute problema internazionale. In Ocalan invece per la prima volta la grande maggioranza del popolo kurdo si riconosce, ovunque si trovi nel mondo, e con Ocalan il mondo s'è dovuto confrontare con il problema kurdo. Questa è la sua grande vittoria morale e politica. Una vittoria dal prezzo altissimo, se non si fermerà la mano del boia di Imrali. Quando Ocalan e il suo partito affermano di non volere uno Stato kurdo separato, ma una convivenza democratica, compiono un gesto di grande generosità storica. Quello kurdo è infatti, in una dimensione ben superiore al caso palestinese e paragonabile solo al dramma dei popoli nativi delle Americhe, il più grande caso al mondo di negazione del diritto all'autodeterminazione. Ma la rinuncia al separatismo è anche il frutto della riflessione dei kurdi sul dramma dei micronazionalismi nell'ex Jugoslavia. I kurdi hanno capito che possono vivere liberi solo se la Turchia e tutto il Medio oriente si liberano dalla cappa di regimi militaristi e oppressivi. Per questo il movimento kurdo è considerato un pericolo non solo dall'Occidente, che guarda al petrolio mediorientale e caucasico, ma da tutti i regimi dell'area. E' il movimento nazionale più isolato che si ricordi, privo di alleanze che non siano le espressioni, dal basso, della solidarietà internazionale. E' bollato di terrorismo, perché è profondamente democratico e propone convivenza in un'area del mondo disegnata e devastata dall'odio. C'è un'altra ragione della grande rimozione del problema kurdo: si chiama Turchia. Questo regime, reduce da tre colpi di stato militari, è stato per decenni il bastione dell'Occidente contro l'Unione sovietica, ed ora è considerato il gendarme del Medio oriente. Possiede il secondo esercito della Nato, è un mercato di sessanta milioni di persone e un primario acquirente di armamenti, è un'economia iperliberista in cui si può fare ottimi affari e sfruttare l'immenso esercito di forza lavoro a basso costo creato dalla guerra e dall'esodo. Dunque è un partner militare ed economico di tutto rilievo. Infatti siede in tutti i consessi internazionali, dalla Nato all'Ueo, dall'Osce al Consiglio d'Europa, ed ora, grazie alla guerra del Kosovo, ha avuto anche l'onore di sedere al tavolo dei Grandi della terra, il G-8. Può permettersi di ricattare il mondo, come ha ricattato e boicottato l'Italia nel periodo della presenza di Ocalan nel nostro paese. E' stata anzitutto la Turchia ad impedire che la questione kurda fosse posta sul tavolo delle Nazioni unite. E' incredibile che un'organizzazione mondiale che ha dato rilievo a lotte di liberazione di grande importanza ma di piccole dimensioni, quali quella dei Saharawi o di Timor Est, non abbia mai affrontato il dramma di un popolo che conta quasi quaranta milioni di persone. Mai l'Unhcr, che si occupa di profughi, ha messo all'ordine del giorno la deportazione e la ghettizzazione in condizioni miserevoli di milioni di profughi interni, e l'esodo di una parte di loro verso l'Europa e l'Italia. Mai l'Unicef, che si occupa di educazione e infanzia, ha affrontato il dramma di una generazione di bambini nati e cresciuti sotto occupazione militare, privi di scuole che non siano (quando ci sono) luoghi di annientamento linguistico e culturale. Mai il Consiglio di sicurezza è intervenuto su una guerra interna ed esterna che ha fatto le decine di migliaia di vittime che oggi vengono imputate ad Abdullah Ocalan. O meglio: è intervenuto solo rispetto al Kurdistan irakeno, e solo dopo l'ennesimo massacro da parte di Saddam Hussein, già alleato e cliente e poi nemico dell'Occidente. E' altrettanto incredibile l'accusa di terrorismo rivolta alla sacrosanta lotta di liberazione di questo popolo, o meglio -e non a caso- alla sua parte più radicata in Turchia. Infatti i movimenti nazionali del Kurdistan irakeno o iraniano hanno legittimità all'estero, siedono addirittura nella Casa Bianca. Solo il Pkk (Partito dei lavoratori del Kuredistan), nato nel Kurdistan turco e siriano, e le organizzazioni collegate al Pkks ono fuorilegge non solo in Turchia, ma negli Usa, in Germania e in gran parte d'Europa. Forse perché l'insorgenza kurda in Turchia, di fronte alla negazione più radicale della lingua, cultura e identità kurda e alla più devastante repressione militare, ha dovuto "reinventarsi" come nazione, con una rivoluzione non solo militare o politica ma sociale e culturale. Dunque pericolosa per le grandi potenze, dunque "terrorista". Se i kurdi avessero davvero scelto di far ricorso al terrorismo, avrebbero la forza di bruciare non solo la Turchia ma il mondo. Invece non hanno mai messo in atto stragi d'innocenti o sequestri di massa, come hanno fatto altri movimenti di liberazione che pure oggi sono interlocutori di processi di pace. Si sono difesi con le armi, sulle loro montagne, da una guerra di annientamento: questo, che la Turchia chiama terrorismo, da noi si chiama Resistenza. Bisogna conoscere i ragazzi e le ragazze kurde che filtrano in Europa provenienti da quelle montagne, spesso con arti amputati dalle mine o il corpo devastato dai proiettili e dalle bombe. Le loro storie hanno un sapore antico, richiamano quelle dell'occupazione nazista dell'Italia: storie di villaggi distrutti, di sanguinose rappresaglie, di umilianti torture, di sparizioni e assassinii in ogni famiglia, fino alla decisione di farla finita e andare in montagna. Quella montagna kurda che è il luogo dell'epica e della poetica kurda, la montagna-madre ancestrale che nasconde dai nemici, ripara ai torti e fa fiorire le sue rocce. La parola "Ciyayen", i monti, per i kurdi è come dire terra, patria, liberazione, speranza. La pronunciano sempre con occhi sognanti, quando sono costretti all'esilio in Europa. La guerra contro i kurdi è una guerra "sporca", nel senso del disprezzo di ogni regola. L'Iraq e la Turchia si contendono il primato nella distruzione dei loro villaggi, quattro o cinquemila da ognuna delle due parti del confine artificiale tracciato dal colonialismo. Ambedue hanno usato napalm e gas, terrore, tortura e carcerazione di massa. Ma dopo la guerra del Golfo, che ha consentito ai kurdi d'Iraq di ottenere una precaria "autonomia vigilata" sotto tutela occidentale, è la Turchia ad esercitare la più pesante pressione militare sulla popolazione civile. A due-trecentomila militari si aggiungono le forze speciali, la Gendarmeria, e soprattutto le milizie paramilitari (vere e proprie bande mafiose dedite alla repressione e ad ogni sorta di traffici), in una occupazione capillare del territorio che non ha eguali al mondo. In ogni sperduto borgo c'è una caserma, in ogni strada un posto di blocco, in ogni cielo un elicottero o un bombardiere. E in ogni città c'è una prigione speciale e un tribunale speciale, strumenti di annientamento istituiti sull'onda dell'ultimo colpo di stato, nell'80. Sono sigle tristemente famose: il "Deghemé" che ha giudicato anche Ocalan, il "Kapali Jesaevi" che lo detiene come detiene oltre dodicimila prigionieri politici. Questo apparato di terrore è stato costruito dopo il fallimento della politica negazionista. All'indomani della sanguinosa repressione dell'ultima grande rivolta, nel '35 a Dersim (città distrutta quasi completamente e ribattezzata Tunceli, Pugno di ferro), il regime turco kemalista aveva deciso di sradicare l'eresia kurda. Due generazioni hanno vissuto sotto leggi che vietavano i copricapi, i vestiti, le danze kurde, che bandivano l'uso della loro antichissima lingua persino fra le mura di casa. Due generazioni di bambini sono stati sequestrati in scuole nelle quali imparavano a vergognarsi della lingua e dei costumi dei loro genitori, insultati come "Turchi della montagna". Molti degli attuali militanti kurdi hanno dovuto infatti reimparare la loro lingua e riscoprire la loro storia dagli anziani, un tempo disprezzati. Ma questa colossale opera di rimozione è stata accompagnata da un'oppressione coloniale così pesante, che è bastato un segnale, all'inizio degli anni '80: come nel Chiapas, in pochi anni un gruppetto di studenti e intellettuali, rifugiatisi in montagna per sfuggire alla prigione e alla morte, ha fatto riscoprire le proprie radici a un intero popolo. Oggi sono milioni: la Resistenza kurda -resistenza culturale, sociale e politica, non solo militare- è ormai invincibile. Salvo un immenso bagno di sangue, che è esattamente ciò che i militari turchi sembrano cercare con la forca già pronta per l'uomo che incarna la nuova fierezza kurda: Abdullah Ocalan, detto Bashkan o Apo, "presidente" o "zio" di tutti i kurdi. Sapremo fermarli, prima che un rinnovato genocidio annunci il nuovo millennio? Sapremo tessere una rete di relazioni con le associazioni per i diritti umani, con le municipalità conquistate dall'opposizione kurda, con i sindacati e i partiti repressi, con i militanti e gli intellettuali imprigionati: una rete di relazioni solidali, gemellaggi, interventi e progetti che rompa il muro di silenzio rapidamente ricostruito, dopo l'atto di pirateria internazionale che ha condotto Ocalan nelle mani dei suoi carnefici? Sapremo fermare il flusso imponente di armamenti italiani verso la Turchia, e sostituire al turismo cieco e sordo e all'affarismo speculativo una presenza costante di delegazioni e un'attiva cooperazione con il popolo negato? Sapremo rompere la catena della complicità, nell'anello debole che sembra oggi essere l'Italia? Ormai tutto il mondo è contemporaneo e presente. Se non sapremo prevenirla, l'esplosione della guerra civile in Turchia non si fermerà certo alla Turchia. Come cantava De André, "anche se noi ci crediamo assolti, siamo per sempre coinvolti". (Articolo a cura di Azad, pubblicato dalla rivista umbra LAltrapagina") | | | | | |
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