Circolo di Rifondazione Comunista di Palata (Cb)
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Che cosa vogliono i curdi?
di Galata
L’improvvisa irruzione del leader curdo-turco Abdullah Ocalan nel cuore dell'Europa, seguita dal suo rocambolesco arresto in Kenya il 15 febbraio 1999 e dal suo «rimpatrio» in Turchia con conseguente condanna a morte, sono stati avvenimenti largamente pubblicizzati dai media nel mondo intero, così come era avvenuto, un anno prima, per l'afflusso di curdi (turchi, iracheni, iraniani) giunti su sovraccariche imbarcazioni di fortuna alle coste dell'Italia meridionale.

Questi eventi hanno avuto indubbiamente l'effetto di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica europea sulle sorti e sulle aspirazioni dei curdi, rivelando, al tempo stesso, l'estrema carenza di informazioni su questo doloroso problema, nonostante la presenza in Europa di oltre un milione di curdi. La «questione curda» viene ridotta e semplificata in modo eccessivo, oppure è affrontata da un punto di vista poliziesco (la «minaccia terrorista»), sensazionalista, umanitario, o patetico, mentre meriterebbe invece un'analisi più serena e sfumata, che tenesse effettivamente conto della storia complessa delle comunità curde e delle dinamiche e contraddizioni attuali che le contraddistinguono.
Dobbiamo tentare qui - rifiutando di cedere alle visioni faziose e alle caricature frutto di ignoranza, di paura o di malafede, che avvelenano e falsano il discorso sui curdi - di presentare un quadro delle aspirazioni curde e delle difficoltà che nascono quando se ne tiene conto. I

n altri termini, che cosa vogliono e che cosa possono sperare i curdi, popolo numericamente importante dei Vicino e Medio Oriente, originario di un territorio facilmente identificabile, ma posto in una situazione geopolitica delicatissima?
Chi sono i curdi? Bisogna precisare prima di tutto di che cosa si parla, in modo da evitare gli ostacoli che ogni discorso irragionevole o approssimativo sui curdi incontra. Poiché non esiste una nazionalità curda attestata da un passaporto internazionalmente riconosciuto, può essere considerato curdo soltanto chi si rivendica de facto come tale e ordina la sua vita individuale e collettiva in funzione di questa appartenenza affermata. Essere curdo, dunque, non è una evidenza, né un dato oggettivabile; è un atto di volontà, con il quale, in contesti variabilissimi, una persona o un gruppo si pongono come distinti, mobilitando e valorizzando diversi «attributi distintivi». Da questo punto di vista, le lingue curde - che appartengono all'insieme delle lingue iraniane sud-occidentali, contrariamente al turco e all'arabo - sono soltanto uno degli attributi proposti nei comportamenti e nelle strategie di distinzione. Molti curdi «acculturati» o «assimilati» - per citare un termine frequentemente usato nel discorso curdo che denuncia l'alienazione culturale di cui i curdi sono stati e sono ancora oggetto - infatti, parlano meglio la lingua dominante nel loro ambiente che non una delle lingue curde. Per di più, la lingua usuale, che si ascolta normalmente, di per sé non fa differenza, in quanto i casi di bi- o trilinguismo sono frequenti e il contesto di elocuzione è determinante. Da ciò risulta che a tutt'oggi è impossibile stabilire in modo fondato l'entità numerica del «popolo curdo». In queste condizioni si può fornire soltanto una stima insoddisfacente:. riunendo da 20 a 35 milioni di persone, i curdi costituirebbero, numericamente parlando, uno dei «popoli» più importanti del Vicino e Medio Oriente. Ma fare dei curdi un popolo distinto rivela già un approccio politico e restrittivo; significa, in un certo modo, «forzare la distinzione» e non tener conto dell'ampiezza del rimescolamento di popolazioni di cui il Vicino e il Medio Oriente sono stati teatro.
E allora come ammettere la differenza curda, oggi ampiamente rielaborata, rifiutando al tempo stesso di entrare nel vivo di una storia complessa che non isola i curdi come corpo politico ed etnico differenziato?
D'altra parte, se si insiste troppo nel voler reinserire i curdi nel loro contesto ponendo l'accento sulla loro multiappartenenza, si rischia di essere accusati di negare ai curdi, intesi come popolo, il diritto (legittimo) di disporre di se stessi, di accedere al rango di Stato nazionale. Vogliamo tuttavia sottolineare l'inconsistenza delle concezioni che pongono a priori l'esistenza di un popolo curdo. Detto questo, ammettere la «diversità curda» non significa negare ogni fattore di unità; ma l'unità è anzitutto politica (deve dunque essere costruita e negoziata): consiste nell'affermazione della volontà di vivere insieme, trascendendo le molteplici differenze di fatto, che sarebbe vano occultare. Riguardo alla questione preliminare «chi sono i curdi ?» s'impone anche una seconda precisazione, per evitare di cadere nell'essenzialismo antievoluzionista cui sono improntate numerose idee sui curdi. 1 curdi sono diversi e sono situati all'interno di complesse dinamiche socio-spaziali. Ogni tentativo di ridurli a un'identità oggettivabile - a un tipo - è dunque abusivo. L'immagine del curdo, rude montanaro, tribale e bellicoso, che i viaggiatori europei fissarono nel loro immaginario per tutto il XX secolo [nota 1], deve essere superata per integrare le dinamiche e i cambiamenti (sconvolgimenti) sociali e spaziali che i curdi hanno conosciuto e tuttora conoscono. Essi, infatti, si sono urbanizzati, sono emigrati (volontariamente o loro malgrado) e hanno abbandonato in massa il Kurdistan. Così, dei curdi vivono a Damasco o al Cairo dall'XI secolo, e dal XIX lavorano, stabilmente o saltuariamente ' a Tabriz o a Baghdad (soprattutto come facchini). La «diaspora» curda è dunque un'antica tendenza, che ha conosciuto un'accelerazione dopo il 1980, pur diversificandosi nelle sue finalità, nelle sue forme e nelle sue traiettorie. Il Kurdistan: fra idea e realtà Il secondo punto indispensabile per la comprensione della questione curda riguarda il Kurdistan. Il «paese dei curdi», infatti, è definito in modo assai vario almeno a partire dalla fine del XVI secolo, data della pubblicazione (in persiano) della prima «storia della nazione curda» [nota 2] che attribuisce al Kurdistan un vasto territorio tra l'ansa dell'Eufrate superiore a ovest, il Caucaso a nord, lo Zagros meridionale a sud-est. Negli anni Venti del XVI secolo, inoltre, in seguito alle conquiste territoriali ad oriente dell'Anatolia a danno dei safavidi persiani i sultani ottomani e in particolare Solimano il Grande si attribuivano, tra gli altri titoli, quello di «re del Kurdistan». Ciò dimostra che il Kurdistan esiste dai tempi antichi, almeno come designazione territoriale degli altipiani che vanno dal Tauro orientale all'alta Mesopotamia. Il tabù sulla parola «Kurdistan», geograficamente e storicamente parlando, è dunque un'aberrazione. Riferendosi ai viaggiatori del XIX secolo, si potrebbe definire il Kurdistan mediante criteri fisici (rilievo, idrografia, clima), storici o etno-demografici. Ma ogni delimitazione è in parte arbitraria e rinvia a punti di vista più o meno fondati ed esplicitati. Così, se si definisce il Kurdistan come «paese dei curdi», senza domandarsi preliminarmente che cosa definisce i curdi e senza ammettere che nessuna definizione è incontestabile, ci si condanna all'approssimazione, se non alla malafede. Ora, nessuna cartografia, nessuna rappresentazione del Kurdistan esplicita i criteri sui quali è fondata e bisogna guardarsi dalle false evidenze, che sono più atti di fede che non delimitazioni affidabili.
Bisogna pertanto evitare di credere che esista del Kurdistan una definizione «naturale», unanimemente accettata. Dal ristretto «Kurdistan autonomo», progettato nel 1920 dal Trattato di Sèvres - una sorta di nicchia stretta tra l'emergente Turchia nazionalista, l'Iraq sotto il dominio inglese, la Persia e l'Armenia - al «Grande Kurdistan», esteso dal Mediterraneo al golfo di Bassora, rivendicato dai nazionalisti curdi all'indomani della seconda guerra mondiale, le differenze di estensione della superficie del territorio sono considerevoli. Il Kurdistan è dunque, sotto certi aspetti, una geo-ideologia: considerato un territorio di riferimento, un territorio originario mitizzato dai curdi (all'estero), ha degli incerti confini concreti, tanto più incerti in quanto il «paese curdo» è «spezzettato» da frontiere internazionali via via stabilite e istituzionalizzate, a partire dalla prima spartizione (nel XVI secolo) che individuò un «Kurdistan dell'Est», da un lato, e un «Kurdistan dell'Ovest», dall'altro.
Lo spezzettamento si è accentuato con la conquista russa del Caucaso e della Transcaucasia (agli inizi del XX secolo) e soprattutto dopo la prima guerra mondiale, con i tracciati delle frontiere turco-siriana (1920/'21) e turco-irachena (1921/22), che hanno determinato la comparsa di un «Kurdistan del Sud» e di un «Kurdistan del Nord». Il Trattato di Losanna (firmato nel luglio 1923), accogliendo le principali rivendicazioni territoriali dei nazionalisti turchi, ha dato il colpo di grazia alle aspirazioni curde ad un territorio proprio. Di conseguenza, sono di fatto apparse distinzioni tra i curdi della Turchia, quelli dell'Iraq, quelli dell'Iran e quelli della Siria.
Quasi ottant'anni dopo, la differenziazione è innegabile ed effettiva: le culture politiche e le lingue di assimilazione sono diverse e ogni soluzione deve tener conto di questo dato di fatto.

E’ importante ricordare, inoltre - e questo rilievo non costituisce affatto una negazione a priori delle pretese curde ad una futura unità politica - che il Kurdistan «geografico» (quello dello storico Bitlisi, del sultano Solimano e dei viaggiatori del XIX secolo) non è mai stato, in nessun modo, politicamente unificato o integrato. Il Kurdistan è stato realizzato, se così si può dire, solo parzialmente, in modo frammentato, «in miniatura». Una delle sue parziali e più celebri espressioni è la Repubblica di Mahabad, creata nel 1946 ai confini nord-occidentali dell Iran. Il «Kurdistan autonomo», istituito in seno all'Iraq con gli accordi del marzo 1970, non ricopriva neppure l'intera superficie del Kurdistan iracheno... La parte, tuttavia, simbolicamente e metonimicamente, può valere per il tutto. Democrazia e autonomia: le rivendicazioni odierne Stabiliti questi fatti preliminari, è possibile esaminare le rivendicazioni curde, precisando che esse rimangono diverse e che si sono molto evolute negli ultimi tempi. «Democrazia per l'Iran, autonomia per il Kurdistan» è la parola d'ordine del Pdk iraniano, dall'epoca di Abduirahman Ghassemlu, il suo intelligentissimo leader, assassinato a Vienna nel luglio 1989. Si può dire che questo slogan viene via via condiviso dalla grande maggioranza dei curdi, di ogni Stato e di qualsiasi partito, che comprendono l'importanza della battaglia politica da condurre nei paesi in cui vivono (o, nel caso degli emigrati, hanno vissuto) e mettono così in secondo piano l'obiettivo dell'indipendenza, che presuppone una soluzione/secessione territoriale. In altri termini, l'aspirazione dominante dei curdi - contrariamente alle rivendicazioni che vengono loro attribuite, demonizzandoli e attestandosi su prese di posizione datate - tiene realisticamente conto delle frontiere internazionali esistenti. Questa linea, risultato di una pragmatica flessibilità di fronte all'ostinazione degli Stati costituiti nella regione e dei loro sostenitori (i paesi occidentali), rispecchia una notevole maturazione del pensiero politico dei curdi, che ha portato a una doppia relativizzazione dell'etnia e del territorio. L'orizzonte politico dei curdi non comporta più la necessaria coincidenza del territorio e dell'etnia. Sono state percepite l'arbitrarietà di ogni delimitazione di un territorio di sovranità e l'assurdità di ogni politica etnica (che può condurre agli orrori che ben si conoscono). Questo è il segno di un'evoluzione del movimento curdo e non di una qualche «rinuncia» o di un qualche «abbandono», per riprendere i termini usati dagli irriducibili sostenitori del territorio etnico, le cui concezioni si ispirano all'accecante repertorio dell'onore e della vendetta, che possono portare a conseguenze estreme. Lo stesso Pkk (il Partito dei lavoratori curdi, fondato nel Kurdistan turco nel 1978 e passato all'azione armata nell'agosto 1984) sembra essersi allineato su questa parola d'ordine dal 1993, perché afferma che una soluzione può essere trovata in seno alla Turchia [nota 3]. Su questa posizione politica, il Pkk può essere affiancato dal Partito socialista del Kurdistan - diretto dall'esilio da K. Burkay - o dal partito Kawa. Tutta ancora da verificare, invece, la svolta pacifista proclamata in agosto dal Pkk in risposta a un proclama dal carcere di Ocalan. La tregua e soprattutto il ritiro dei guerriglieri dalla Turchia rappresenterebbero, se effettivi e duraturi, un cambio di paradigma di portata storica.
Questo «realismo», non significa che i curdi siano rassegnati a subire la frammentazione che è stata loro imposta. Perciò si sta facendo strada l'idea di una federazione curda - struttura transfrontaliera il cui statuto deve essere precisato - che raggrupperebbe l'insieme dei Kurdistan autonomi. Questa formula permetterebbe di conciliare il rispetto delle frontiere internazionali e il riconoscimento dei particolarismi curdi. E’ in questa prospettiva che bisogna interpretare la costituzione e la proclamazione, nell'ottobre 1992, di uno «Stato curdo federato dell'Iraq settentrionale», sotto l'egida degli Stati vincitori della guerra contro l'Iraq. La definizione di questo «Stato», privo di riconoscimento internazionale ed esteso solo su una parte del territorio abitualmente considerato «Kurdistan iracheno», è rivelatrice, perché riunisce in sé l'idea di autonomia, l'idea di un elemento di federazione futura e anche l'intenzione di mantenere questa entità all'interno dell'Iraq. Nel 1992, i dibattiti relativi ad un decentramento politico della Turchia hanno analogamente indotto i vertici dello Stato a prendere in considerazione la possibilità di una «regione curda», dotata di una relativa autonomia, in seno alla Turchia considerata nelle sue attuali frontiere. Da allora, il problema essenziale per i curdi è quello di una democratizzazione dei regimi e dei sistemi politici del Vicino e Medio Oriente, preliminare indispensabile per il riconoscimento culturale (insegnamento primario e secondario, radio e televisione in lingua curda eccetera) e politico dei curdi. L'accesso dei curdi in quanto tali a spazi politici pluralistici, che riconoscano la loro esistenza e ammettano l'espressione delle loro differenze, continua ad essere fondamentale. Ma a questo riguardo molto resta da fare e la volontà delle potenze occidentali di «spingere in questa direzione» rimane incredibilmente debole. Verso un "volere curdo" unificato ? Uno degli stereotipi del discorso sui curdi riguarda la loro presunta «incapacità di capirsi tra loro». Si tratterebbe di una sorta di fatalità incombente sul destino dei curdi, che impedirebbe loro di accedere all'essere politico collettivo. Questo stereotipo richiede un esame più approfondito. L'idea convenzionale della «divisione dei curdi», infatti, spesso non tiene conto delle cause di questo fenomeno e delle manifestazioni di unità che lo contraddicono. Per quanto concerne le cause, bisogna sottolineare il ruolo degli Stati costituiti che, a partire dal XVI secolo, si sono impegnati a mettere l'una contro l'altra le varie parti dell'etnia curda e a conservarne la frammentazione in principati, vassalli talora dei persiani, talora degli ottomani. in seguito allo smantellamento dell'impero ottomano, all'indomani della prima guerra mondiale gli Stati di nuova formazione (Turchia, Iraq e Siria) hanno proseguito a vari livelli questa politica di divisione. I loro governi hanno fatto tutto il possibile per mantenere all'interno di questi paesi le spaccature tribali e, soprattutto, religiose e tutto il sistema di distribuzione delle risorse e del lavoro è stato organizzato in base a queste spaccature. Per il tramite dei loro soldati curdi, essi hanno anche seminato la divisione, utilizzando dei curdi (appartenenti a un certo clan, a una certa tribù o confederazione di tribù) per mantenere l'ordine nella parte di Kurdistan finita entro le loro frontiere. Quanto alle manifestazioni dell'unità curda, esse sono incontestabili e antiche.
La questione del pancurdismo è, da questo punto di vista, centrale. La coscienza dell'unità dei curdi («che fanno popolo», o nazione potenziale) si è manifestata molto presto e a varie riprese. Dalla fine dei XIX secolo in poi, alcune rivolte hanno avuto una dimensione decisamente non locale e i loro leader hanno fatto appello, scientemente, all'insieme dei curdi, al di là delle frontiere in cui erano inseriti. Cosi fece, ad esempio, negli anni Ottanta dei XIX secolo, lo sceicco Ubeydullah. L'instaurazione della Repubblica curda di Mahabad, nel 1946, ha rappresentato un momento importante e un segnale rivelatore di questa coscienza curda che supera i confini. Quell'effimera repubblica, stabilita in Iran, ha esercitato infatti una luminosa influenza sull'insieme del Kurdistan e, d'altronde, sono state le truppe di Mustafa Barzani, venute dal Kurdistan iracheno, che per un certo tempo ne hanno assicurato la difesa, ripiegando in seguito in Urss. E’ vero che certe solidarietà transfrontaliere (familiari ed economiche) indicano de facto una certa relativizzazione delle frontiere internazionalmente riconosciute. In seno al Kurdistan, in effetti, i legami di un paese con un altro non sono mai stati completamente interrotti, perché la topografia montagnosa facilita movimenti e scambi oltre confine, clandestini e non, tra Iran e Iraq, Iraq e Turchia, Turchia e Iran. In modo analogo, alcune famiglie curde, divise dall'assurda frontiera turco-siriana del 1920, sono riuscite a mantenere i rapporti. Ultimamente, in occasione di una festa religiosa, i governi turco e siriano hanno permesso ai membri di queste famiglie divise di rivedersi, in qualche caso dopo quarant'anni di separazione; un giorno di tempo per riconoscersi... A ciò si aggiunge il fatto che eserciti, polizie e milizie dei paesi del Vicino e Medio Oriente sembrano anch'essi considerare arbitrarie le frontiere, visto che le violano incessantemente. Anche le manifestazioni che nel febbraio 1999 hanno fatto seguito all'arresto di Abdullah Ocalan possono essere considerate un segno rivelatore del rafforzarsi di una coscienza pancurda, il cui sviluppo è stato facilitato dall'emittente televisiva Med-Tv, creata nel maggio 1995 e dal maggio 1999 più largamente diffusa tramite la Ctv. La sorte di Apo, benché egli sia il leader di un partito curdo della Turchia, sembra ormai riguardare tutti i curdi sia all'interno del Kurdistan - da Mahabad (Iran) ad Aleppo (Siria) - sia all'estero. Le dimostrazioni e l'ampia mobilitazione seguite al suo forzato «rimpatrio» e alla sua condanna a morte, che superano l'ambito del Pkk e dei curdi di Turchia, offrono motivo di riflessione. Le manifestazioni di solidarietà, sollecitate dai simpatizzanti e dai membri del Pkk, hanno infatti raccolto una sorprendente adesione dall'Australia alla Germania, passando per tutti i paesi del Vicino e Medio Oriente [nota 4]. Da allora, Apo, indipendentemente da ciò che dice (o da ciò che lo Stato turco gli attribuisce) e al di là dei fatti di cui sembra responsabile, appare davanti all'opinione pubblica mondiale, quasi suo malgrado, il principale «rappresentante» dei curdi. E’ stato stupefacente vedere come i curdi iracheni emigrati in Europa - e fino a quel momento estranei, o addirittura assai diffidenti nei confronti del Pkk - hanno largamente partecipato dal febbraio 1999 a tutte le dimostrazioni a sostegno di Apo. Una delle conseguenze inattese (e in ogni caso non previste dallo Stato turco) del processo contro il capo del Pkk, iniziatosi il 30 maggio 1999, è stata dunque quella di consolidare il sentimento pancurdo, facendo di Ocalan, al di là della sua persona e della sua storia ancora oscura, un simbolo di tutti i curdi oppressi. Intanto - è una coincidenza ? - intensi sforzi sono oggi fatti per dotare l'insieme del popolo curdo di una rappresentanza politica unificata fuori del Kurdistan. Alla fine del maggio 1999, così, è stato costituito il Congresso nazionale curdo - le cui connotazioni storiche sono chiare - al fine di rafforzare un'organizzazione politica finora caratterizzata, anche in esilio, da un'eccessiva frammentazione. Questo Congresso è certamente troppo «turco», in quanto è molto legato al parlamento curdo in esilio (Pkdw), che è stato formato in Europa nell'aprile 1995 e raggruppa gli eletti dai curdi emigrati dalla Turchia. Ma, in ogni caso, ciò che molti curdi hanno capito è la necessità di un'azione politica meno separata in compartimenti stagni (innumerevoli partiti e gruppuscoli), che possa giungere a collegare tutti i curdi prima che abbiano successo alcune iniziative americane dirette in questo senso. In ultima analisi, ogni riflessione sui curdi deve sforzarsi di superare i luoghi comuni (etnici o culturali) e deve tener conto dei numerosi cambiamenti verificatisi nel popolo curdo dall'inizio del secolo. L'ostacolo principale alla realizzazione di una soluzione politica, in realtà, è rappresentato dagli apparati militari e polizieschi e dagli Stati di cui essi sono espressione nel Medio e nel Vicino Oriente. Essi, per conservarsi, hanno tutto l'interesse a perpetuare una situazione caratterizzata da conflitti e disordini. Tale situazione di non-diritto, che legittima la «minaccia curda», permette infatti a questi regimi di prosperare con le loro rendite e i loro privilegi eccessivi. Di conseguenza, l'Europa deve ad ogni costo impegnarsi in una riflessione sulla «questione curda», che si è incancrenita anche per sue responsabilità, interessandosi ai tanti curdi che hanno trovato asilo entro le sue frontiere e alle vere cause di questo delicato problema.
(da Limes settembre 1999-traduzione di Liliana Piersanti)