Ma
il fatto di ritirarsi nel non appariscente e dì rendersi quasi invisibile al
pensiero è solo un aspetto della Verborgenheit dell’essere. Rimane sempre da
spiegare perché, una volta individuatane l’importanza ‘fondatrice’, sia
così difficile afferrare e chiarire il senso dell’essere. Per quale motivo,
ogni volta che tentiamo di rappresentarci l’essere, non riusciamo ad afferrare
nulla?
Questa impasse, per Heidegger, non dipende
da un’insufficienza del nostro pensiero ma è da ascriversi interamente alla
struttura dell’essere. L’essere “inclina di per sé all’autonascondimento”,
ama ritirarsi in una dimensione di oscurità e di mistero in cui il pensiero non
lo può seguire. In questo caso ciò che si nasconde non è più la forza
svelante dell’essere ma la sua stessa verità.
A nascondersi, cioè, non è più il fatto
che l’essere è manifesto; a nascondersi è proprio l’essenza dell’essere:
”Questo illuminante mantenersi in se con la verità della propria essenza
possiamo chiamarlo l’epochè dell’essere”.
Heidegger evidentemente
suppone che l’essere abbia una verità propria che non coincide solo col suo
esser differente dall’ente. L’idea che l’essere sia concepibile solamente
come Differenza, sulla quale hanno insistito tanti interpreti, non esaurisce
certamente il problema della Seinsfrage. Bisogna che l’essere abbia un essenza
propria affinché questa possa nascondersi. Sono famose le pagine dell’
Introduzione alla metafisica in cui Heidegger, partendo dall’ ambiguità del
verbo scheinen (presente anche nell’italiano ‘apparire’ ), sostiene che
l’essere appare - nel senso che si mostra e ‘risplende’- solo in quanto è
costantemente esposto al rischio di trasformarsi in semplice ‘parvenza’.
L’essere propende a nascondersi “sia nel grande occultamento e silenzio, sia
nella più superficiale funzione e dissimulazione”.
La
tesi che la “verità dell’essere” si nasconda, o che si dia in modo velato
o parziale, implica che essa venga sostanzialmente fraintesa dal pensiero. Dire,
infatti, che l’essere si nasconda, significa dire che il pensiero non può
coglierlo se non in modo inadeguato. L‘essenza dell’essere rimarrebbe sempre
al di là del modo in cui è intesa. S’introduce qui una frattura tra il modo
in cui l’essere appare, e cioè viene compreso, e il modo in cui esso è. Che
altro significa parlare di un ‘enigma’ dell’essere se non suggerire
l’ipotesi che, dietro a ciò che si mostra e che noi comprendiamo. si celi
dell’altro? L’essere, perciò, non sarebbe solo dimenticato ma anche
essenzialmente frainteso. O perlomeno colto in maniera parziale, dato che parte
della sua verità sarebbe sepolta in “tesori non ancora scoperti” che
attendono solo di essere ritrovati. La velatezza dell’essere può avere vari
significati: può voler dire che l’essere si manifesti solo in parte, oppure
addirittura che si mostri per quello che non è. In ogni caso, abbiamo visto,
essa presuppone una differenza tra il modo in cui l’essere è, e il modo in
cui esso appare. Questa idea è del tutto inaccettabile, proprio perché ha
differenza tra essere e apparire si fonda sul senso dell’essere così come
appare, e quindi non è applicabile all’essere stesso.