Baghdad

Da l'Espresso del 24/7/2003
Baghdad, guerriglia infinita

 

Ci sono i feddayn di Saddam. Gli Alì Babà del furto continuo. E gli Imam che incitano alla violenza. Ecco come la capitale d’Iraq è ancora un inferno

       Tre figure femminili ingentiliscono a Baghdad la piattaforma di granito dove il 9 aprile fu abbattuta la statua di bronzo di Saddam. È una scultura stilizzata, quasi minimalista, che nel nome ("hurria", libertà) vorrebbe testimoniare lo strappo della storia. Ma nella circostante piazza del Paradiso, simbolo per gli iracheni dei nuovi orizzonti dopo la caduta della dittatura, oggi si aggirano solo i cani randagi. Niente più foto ricordo. Via anche lo sciuscià che aveva continuato a lucidare le scarpe pure sotto le bombe. Baghdad che aveva repentinamente voltato le spalle al tiranno prende le distanze anche nei graffiti dalla pax americana: "Tornatevene subito a casa". A quattro mesi dallo scoppio della guerra manca sempre la luce in molte ore della giornata. Interi quartieri sono privi di acqua potabile. E la falcidie dei salari, erogati con grande ritardo dall'amministrazione civile statunitense, spande sulla metropoli di sei milioni di abitanti una pesante coltre di miseria e di violenza, appena attutite dall'inesauribile arte di arrangiarsi. «Che ce ne facciamo della democrazia e della libertà», è il refrain che senti ripetere ad ogni angolo di strada, «quando siamo ridotti alla fame, e non siamo neanche più padroni in casa nostra?»

 
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Baghdad sembra più accasciata che liberata. Ancora un po' stordita per il rapido disfacimento di un regime che sembrava onnipotente. Perlopiù irritata per la scarsa sensibilità delle truppe Usa, ragazzini che ignorano e non sanno rispettare la cultura islamica, percepiti come forza di occupazione. Non troppo sorpresa per la recrudescenza di una guerriglia esplosa in luglio, il mese della rivoluzione baathista (1968), e che rischia di diventare endemica. Per quel consiglio governativo di 25 membri che non ha ancora un leader. E che sotto la tutela americana dovrebbe avviare il processo democratico preparando entro due anni libere elezioni.
C'è troppa gente estranea alla realtà del paese: personaggi che hanno vissuto tanti anni all'estero, come Ahmad Chalabi (il capo dell'Iraqi National Congress, appoggiato dal Pentagono). E troppo eterogenea è la leadership: 13 sciiti, 5 sunniti, 5 curdi, un cristiano e un turcomanno: un manuale Cencelli delle fedi e delle etnie. Come troppo scoperte sono le divergenze di interessi che minacciano di sfociare in una guerra civile: con la maggioranza degli sciiti (il 65 per cento della popolazione) ispirati dall'ayatollah Muhammad Bakr al Akim che dopo aver vissuto in esilio a Teheran è influenzato dalla teocrazia iraniana; i sunniti (il 30 per cento) che non intendono abdicare ai privilegi elargiti dal feroce correligionario Saddam; i curdi, i più attivi e più moderni, concentrati soprattutto sull'autonomia delle loro regioni al Nord, ma divisi a loro volta dalla rivalità latente fra Massoud Barzani e Jalal Talabani; perfino un agguerrito partito comunista. Un mosaico che Saddam riusciva a tenere brutalmente incollato con il terrore. E che Paul Bremer, l'amministratore civile inviato dalla Casa Bianca, fa fatica a gestire e perfino a capire. Il proconsole di Bush, già in difficoltà per il fallimento nella ricerca delle armi di distruzione di massa, è consapevole di aver perso la battaglia «per la conquista dei cuori e delle menti». Per non compromettere definitivamente la reputazione sta cercando di dare un'accelerata alla ricostruzione. Promette di non interferire troppo nelle attività del consiglio di governo. Lavora in stretto contatto con il generale Ricardo Sanchez, responsabile delle operazioni militari, per l'addestramento di un corpo di fanteria leggera irachena che possa rintuzzare i colpi di coda degli oppositori.
Il Pentagono dava per scontato che, una volta scomparso Saddam, la resistenza si sarebbe eclissata. Dopo una prima fase di sbandamento, la guerriglia ha invece preso fiato. Oggi è in grado di sferrare una ventina di attacchi al giorno, concentrati soprattutto nel triangolo sunnita a nord della capitale. Per i 146 mila soldati Usa trattenuti in Iraq è come se il conflitto non fosse mai cessato. Continuano a difendere con i carri armati i palazzi presidenziali saccheggiati dopo il 9 aprile e i siti strategici. Organizzano posti di blocco per mettere un po' d'ordine nella metropoli ostaggio delle bande criminali. Hanno sempre il dito sul grilletto. Sono bersagli a loro volta di assalti improvvisi in cui hanno perso la vita una trentina di commilitoni. Per stanare i capi della guerriglia gli americani hanno istituito una task force che sta intensificando anche la caccia a Saddam, l'asso di picche nel famoso mazzo di 55 carte (i principali gerarchi ) su cui grava una taglia di 25 milioni di dollari. Ma la resistenza rimane una nebulosa in cui, a detta degli investigatori, confluiscono cinque fazioni, senza alcun collegamento fra loro. I feddayn di Saddam, nostalgici degli antichi privilegi; i combattenti islamici affluiti dalla Siria e dall'Iran per scacciare gli infedeli; il gruppo terroristico Ansar Al Isiam, legato a Al Qaeda e attivo soprattutto in Kurdistan; gli estremisti sunniti (e forse anche sciiti, che pure erano perseguitati dal regime); i 10 mila criminali liberati dal Raìs lo scorso ottobre in vista della guerra. I più temibili e organizzati sono i primi, gli irriducibili del partito Baath, che si muovono in piccoli commandos sui pick up bianchi che un tempo appartenevano allo spietato Mukabbarat (i servizi segreti). Guidati, pare, da un ex generale sfuggito alla cattura dopo la battaglia intorno all'aeroporto. La fantasia popolare li ha ribattezzati "partito del ritorno" o "del serpente". Secondo un piano forse architettato dallo stesso Saddam prima della fuga, compiono attentati con granate e bazooka contro centrali elettriche, tralicci, oleodotti, pozzi d'acqua, caserme e colonne mobili dei soldati nemici. E starebbero reclutando nuovi adepti con ingaggi da 5 mila dollari assicurati dalle ricchezze pur sempre senza limiti del Raìs. Il generale Sanchez cerca di scongiurare come può un Vietnam nel deserto: con il settimo cavalleggeri, con i ranger e con gli elicotteri A-H 64 che tengono sotto controllo dal cielo le aree calde. Negli ultimi giorni ha anche incoraggiato la delazione: promettendo 2.500 dollari a chiunque si presenti con informazioni utili. Ma per i collaborazionisti la vita in Iraq è oggi molto difficile. Ne sanno qualcosa i poliziotti che, dopo essere stati inquadrati dagli americani, vengono quotidianamente assaltati. E sabato 12 luglio hanno dovuto difendere coi denti il carcere di Al Ghaibr dalla furia dei guerriglieri.
Dalle moschee le autorità religiose alimentano l'antiamericanismo. Liberarsi dell'invasore, ammoniscono, è un precetto del Corano. A prescindere dall'odio generalizzato verso Saddam, che è ormai considerato un rifiuto della storia, capace al massimo di pungere nel fianco la superpotenza ma certo non di recuperare il potere. « Se ne è andato un tiranno ma è stato rimpiazzato dagli infedeli», sintetizza l'opinione dominante Mohammed Sojoud, che frequenta il centro spirituale sunnita di Al Aazam. Infedeli che si sono fatti anche la fama di arroganti. Ha fatto scalpore la denuncia di Raad Hamoudi, portiere della nazionale di calcio, arrestato per sbaglio nel suo quartiere durante una retata di baathisti. Tornato nel suo stadio, trasformatosi nel frattempo in prigione, sostiene di essere stato derubato di due orologi. E il soldato cui aveva chiesto il permesso di andare in bagno gli avrebbe urlato: «Fattela addosso».


Le donne, poi, accusano i marines di toccarle durante i controlli, calpestando i costumi islamici. E irritando ancor più le autorità religiose che approfittano del vuoto di potere per accreditarsi come l'unico punto di riferimento della società. Gli sciiti hanno intrapreso una crociata morale contro la pornografia, strappando i manifesti cinematografici in cui compaiono le ginocchia femminili. E contro l'alcol, istigando i fanatici a distruggere le fabbriche di birra, vietata anche da Saddam nei ristoranti ma in libera vendita negli spacci gestiti dai cristiani. Un venerdì dopo la preghiera sono stati assaltati il più grosso impianto del paese e tre distillerie di gin. Nel trambusto, lamenta scandalizzato un chimico, sono state incendiate anche le forniture di alcol destinate all'industria farmaceutica. Ma l'incubo maggiore per gli abitanti di Baghdad è la violenza. Quindici omicidi e 100 feriti al giorno. A Baghdad rimangono in circolazione 40 milioni di proiettili. Un kalashnikov si compra con 40 dollari, una pistola con 20. La polizia non riesce a tener testa alle bande scatenate degli Ali Babà. Si moltiplicano i furti per strada e negli appartamenti. I più rapaci fra i ragazzi di strada, che per far evitare le code ai distributori vendono a prezzi quintuplicati le taniche di benzina agli incroci, fanno gli straordinari al mercato sfilando coi coltelli la borsa della spesa alle signore. I ladri hanno ripulito perfino la casa di un imam. Nei quartieri un tempo ricchi di Mansur e Karradia si registrano i primi rapimenti. Negli ingorghi di un traffico senza semafori, le macchine vengono asportate sbrigativamente: intimando con la pistola agli automobilisti di cedere il posto al volante. Non si salvano neanche le ambulanze. Sono sortì alla luce del sole due mercati di auto rubate. L'anarchia stimola sui muri qualche rimpianto per l'ordine di Saddam. Non c'è angolo di Baghdad che non sia sprofondato nell'angoscia. Vivono tempi grami gli uomini d'affari, scollegati dal mondo in una metropoli dove è ancora inutilizzato l'aeroporto e si può telefonare quasi esclusivamente coi satellitari. Sono terrorizzati dal pericolo di saccheggi i commercianti. A cinquanta gradi all'ombra, sono tormentati dai black out elettrici i rivenditori di generi alimentari che si premuniscono stivando pezzi di ghiaccio comprati per strada. Sono preoccupati per il precario futuro gli universitari e gli intellettuali che fanno la guardia a ciò che è sopravvissuto nei musei e nelle biblioteche ridotti a depositi di escrementi. Alle dieci di sera la città ha un rigurgito di frenesia. Spengono le insegne anche i ristorantini sul Tigri chiuso alla navigazione. E la gente scappa a casa. Alle undici scatta il coprifuoco. Ma la tensione non si allenta. Giustizieri e Ali Babà continuano a vagare tra le macerie dei palazzi bombardati. Gli spari agitano fino all’alba il sonno di Baghdad.

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