Dopo il Mille Venezia è il più importante
centro adriatico del
commercio del grano, che viene importato dalla pianura padana, dalla Puglia,
dalla Germania e perfino dall'Oriente.
Fin dal X secolo, nelle isole della laguna lavorano vari mulini che sfruttano
la forza eolica o quella del mare, ma che divengono via via insufficienti per
dare farina ad una delle maggiori città d'Europa come Venezia. Dopo la
conquista della Terraferma, perciò, si utilizzano i numerosi fiumi dell'immediato
entroterra e si costruiscono nuovi mulini sulla gronda
lagunare, in prossimità delle foci, per rendere agevoli i trasporti.
Presto le autorità veneziane devono constatare che le gore
danneggiano la laguna e sono costrette ad abbattere i mulini o ad allontanarli
il più possibile dalla gronda lagunare.
E' così che nel 1458 il Consiglio dei Dieci ordina la costruzione di
una posta presso il ponte di S. Martino in Treviso, precisando che i mulini
ivi fabbricati non possono né essere affittati né venduti senza
licenza governativa..
Tuttavia, già nel 1515 termina la gestione diretta da parte dello Stato
degli impianti di S. Martino, che vengono venduti ai patrizi Corner e Nani;
esentati da tasse ed imposte, i titolari sono tenuti a macinare solo il "formento"
della Serenissima, escludendo il trattamento di quello privato.
La dislocazione dei mulini pubblici del Sile
Il "consorzio delle 80 rode in Trevisana"
è in grado di lavorare 30000 sacchi di grano al mese, circa la metà
del fabbisogno di Venezia.
Tutto il Sile è riservato alla macinazione dei cereali e oltre alle 80
ruote più quattro che si trovano nella parte inferiore del fiume, ve
ne sono altre 55 che operano solo "qualche volta" e altre 57 di riserva
da utilizzare solo nei casi di estrema necessità.
I mulini di S. Martino segnano il limite del tratto navigabile del fiume, perciò
sono disposti a cavaliere.
Gli altri, invece, sono costruiti di
fianco per non intralciare il percorso delle imbarcazioni che giungono
al porto di fiera, dove, tra l'altro, ha il suo punto d'imbarco anche la condotta
dei roveri provenienti dal Montello e destinati all'Arsenale.
Prossimo alla città, lavora il mulino di S. Maria, di proprietà
dell'ospedale di Treviso, l'ultimo a sfruttare la corrente di un ramo del Sile;
gli altri sono dislocati nel tratto terminale degli affluenti, prima della confluenza
nel corso principale: il Limbraga muove le due ruote del mulino Pisani; lo Storga
muove le ruote del patrizio Renier, di quello dell'ospedale di Treviso e le
sei ruote di quello dei patrizi Diedo e Magno, Il Melma, che attraversa il villaggio
omonimo (oggi Silea), spinge le pale di altre quattro poste pubbliche, per un
totale di 18 ruote, di proprietà dei nobili Valier e Priuli. Dopo un'ansa,
un ramo, chiamato la Molinella, aziona le tre ruote del mulino del patrizio
Memo e una piccola roggia, presso Casier, le quattro ruote dei Corner.
Infine, sull'ultimo affluente, il Mignagola, girano altre 15 ruote, all'altezza
di Cendon.
I mulini del consorzio sono disposti, dunque, dal ponte di S.Martino al punto
di confluenza col Mignagola-Nerbon, ad una distanza di sicurezza dalla laguna.
Del resto già nel 1670, era stato risolto il problema degli interramenti
con la messa in opera del "taglio novissimo" che immetteva le acque
del Sile nel vecchio alveo del Piave.
Nel 1790, però, questi quattro affluenti del Sile sono afflitti da scarsità
d'acqua, tanto da compromettere il buon andamento delle macine: ben 27 ruote
sono inattive per mancanza d'energia idrica.
Per porre rimedio a questo problema, le autorità veneziane ordinano di
ripulire i letti dei fiumi dalle erbe e di scavare nuove "fontane"
per l'irrigazione in modo da lasciare disponibili le acque per i mulini. Tuttavia
i risultati non sono soddisfacenti e verso la fine del 1700 l'attività
molitoria vede una drastica riduzione dei mulini attivi.
L'organizzazione del lavoro
Il "consorzio delle 80 rode in Trevisana"
macina un'enorme quantità di grano e per far fronte alla distribuzione
della farina occorre una complessa organizzazione.
Scaricato dalle navi, il grano viene condotto nel fondaco di S. Marco, dove
viene concentrato il frumento da destinare ai mulini trevigiani; dieci "crivelladori"
hanno il compito di setacciarlo con un crivello per togliere la zizzania presente:
per questa operazione si usano utensili di ottima qualità che vengono
consegnati "sigillati" direttamente al capo dei crivellatori.
Una volta ripulito, il grano viene insaccato e passato ai "bolladori"
che appongono i sigilli; il sacco viene chiuso con uno spago molto resistente,
detto "sforzin"; lo spago viene piombato,
cioè viene fermato con del piombo su cui viene impresso il sigillo dei
Provveditori. Tutto ciò per salvaguardarsi dai furti.
Più tardi i sacchi passano il controllo dei "pesadori"
che ne accertano il peso sotto l'occhio vigile del "commesso
de monari" incaricato dai mugnai di prevenire i furti fatti dai
barchieri.
I "bastazzi" e i "voltadori"
attendono alle operazioni di carico sui "burci",
imbarcazioni adatte a navigare su fondali bassi, che dalla laguna risalgono
il Sile fino alla
prima "restera" (a Tre Palade),
dove la corrente è molto forte e non può essere vinta con i soli
remi. Il burchio viene perciò trainato con grosse funi dai buoi fino
alla "restera" successiva, dove viene sostituita la coppia di animali.
In prossimità del mulino, il carico viene trasportato sui "libi",
delle barche più leggere. Prima di stivarvi i sacchi, il mugnaio controlla
che il loro spago abbia il sigillo ducale.
Macinato il grano, la farina viene insaccata e sigillata con un piombo che reca
le iniziali del mugnaio; i sacchi poi ripercorrono l'itinerario fino a Venezia.
Qui passano il vaglio del "publico sazador"
che controlla la quantità di crusca contenuta nella farina. Dopo aver
superato questo controllo, i sacchi vengono smistati alle varie fabbriche di
biscotti e ai "pistori" (fornai) di Venezia
e delle isole.
Due scrivani devono segnare i movimenti in entrata ed in uscita di grani e farine;
su tutte queste operazioni vigilano i Provveditori
alle Biave.
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