Montanelli

Montanelli: le destre sono io


Di Maurizio Cabona

Tra Prezzolini e Longanesi, il grande Indro non fu mai realmente di destra. Come Mussolini, misurava il carisma sulla gioventù montanelliana e una vena radical-chic gli fece vantare la collaborazione al Mondo di Pannunzio

Cominciamo dalla fine. Giugno 2000, Caffè della Versiliana. Nel novantunesimo dei suoi novantadue anni, Indro Montanelli ascolta infastidito la domanda di Romano Battaglia: «Perché i grandi giornali e telegiornali sono diretti dai reduci di Lotta continua? Paolo Liguori a Studio aperto , Gad Lerner al Tg1 ...». Liguori però è – anche – un reduce de il Giornale , dove proprio Montanelli l’aveva assunto. Ma la gaffe di Battaglia è dimenticare che anche Montanelli è un reduce: un reduce di quell’archetipo del ’68 – quanto a mobilitazione giovanile – che è stato il fascismo. La risposta di Montanelli è dunque secca: «Dopo il ’68, quelli che valevano qualcosa venivano tutti da lì...». E con una frase liquida l’esperienza de il Giornale , nato proprio come anti ’68. I “suoi ragazzi” – quelli che nel 1994 lui non poteva lasciare a il Giornale in balia di Vittorio Feltri e poi nel 1995, dopo la chiusura de la Voce , in balia della disoccupazione – vengono ridotti a meno di “qualcosa”.
Nello stesso contesto versiliano, Montanelli si rivela anche in vena di riscrittura del passato: «Quando collaboravo al Mondo di Pannunzio...». Evoca una collaborazione ignota perfino ai suoi tanti biografi, mentre tace su il Borghese di Leo Longanesi. Un lapsus ? Un lifting : della memoria. Al quindicinale, poi settimanale longanesiano, Montanelli ha infatti voltato le spalle quando Longanesi viveva ancora. Si capisce che non voglia spiegare al pubblico osannante, ma non dotto, del 2000, il dislivello fra il Borghese di Longanesi e quello di Feltri, che lo dirige dopo il Giornale e Qn . Montanelli preferisce iscriversi retroattivamente agli ex del Mondo , in linea con la battigia radical-chic sulla quale s’è arenato in extremis . Rimuove così l’unico Montanelli veramente di destra; quello de il Giornale sarà invece solo a destra.
È così sancita la chiusura del discorso fra Montanelli e le destre. Poiché loro non sono state all’altezza dell’idea che lui ne aveva, le radia dal curriculum . Restano però memorabili, sincere e commoventi le sue pagine in materia, appunto quelle de il Borghese . Qui Montanelli ritrova il Longanesi di Omnibus e incontra il Prezzolini de La Voce (quella vera); e poi il Montanelli dei primi anni Cinquanta è all’apice delle capacità e ha una formidabile voglia di rivalsa. Alle spalle ha infatti la delusione del suo unico grande amore ideologico, il fascismo, che da lui non è colto, giustamente, come una destra, ma che, alleatosi con le “peggiori destre”, ha però condotto Montanelli all’umiliazione della condanna a morte sotto il neofascismo della Rsi, alla frustrazione dell’esilio fra le diffidenze dell’antifascismo col pedigree , all’epurazione – scansata solo in parte – nel Corriere della Sera del dopoguerra.
Quarantenne, Montanelli ha già dovuto rifarsi una carriera e, se al Corriere è di nuovo una firma, è ancora una firma sotto sorveglianza: Mario Missiroli non vuole guai e Montanelli morde il freno: divenuto direttore de il Giornale in età, somiglierà però tanto al Missiroli così stimolato da certe notizie che finiva per cestinarle, mormorando: «Ci vorrebbe un giornale per pubblicarle». Missiroli agisce in omaggio alla famiglia Crespi, ad Alcide De Gasperi e ai suoi successori; Montanelli agirà allo stesso modo in omaggio ad amici e a Giulio Andreotti. Non si resta a lungo direttori comportandosi come un redattore di prima nomina, ma dev’essergli costato avere firmato l’ affidavit per le autorità americane che dichiarava Michele Sindona perseguitato politico per anticomunismo e poi vederselo condannato per l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, integerrimo e monarchico avvocato de il Giornale . Ma questa è un’altra storia.

La collaborazione all’Universale
Passato per un secolo di grandi ideologie, non per questo Montanelli è un ideologo: è un giornalista colto – un ossimoro? – che cita spesso Machiavelli e Guicciardini, raramente Vilfredo Pareto, ma che prima della guerra ha sfogliato il Trattato e, dopo, Il capitale, quel tanto che basta per scrivere Mio marito Carlo Marx. Diverrà liberale di destra, ma nasce – l’abbiamo detto – fascista di sinistra: a venticinque anni la pensa come il quasi coetaneo Elio Vittorini, però ama molto Rudyard Kipling e ha una propensione per gli imperi da conquistare. Vive le sue idee nella guerra d’Abissinia, dove scopre che delle idee – non solo delle sue – la realtà s’infischia. Entra nella storia e scopre che la storia, nel suo farsi, è bieca cronaca. Da giornalista tenta di raccontarla, ma i regimi sono volgari sempre, tranne quando a essere volgare è la verità. E poi al giornalismo-giornalismo arriva dagli antipodi: dal giornalismo-ideologia de l’ Universale .
E su il Borghese – in una “lettera” a Longanesi del febbraio 1953 – scrive: «Eravamo convinti, pubblicando quel giornaletto che non ci rendeva nulla e cui restammo fedeli fino alla sua soppressione, anche a costo di passare per eretici, di esserci inseriti in una rivoluzione, cui la maggior parte di noi non aveva avuto il tempo di partecipare. E attraverso di esso ci mettemmo in contatto con altri gruppi di giovani, in tutta la penisola, che cercavano come noi, e sia pure in differenti e contraddittorie direzioni, di fornire un substrato di pensiero e di dottrina a quel regime che ancora lo aveva così scarso e informe».
Dopo il Montanelli di ieri, affiora nella “lettera” a Longanesi la premonizione del Montanelli di domani, che inconsapevolmente, forse, ammira ancora Mussolini perfino nei difetti e li farà propri quando ne avrà l’età e, in sedicesimo, il potere: «Ha avuto mai sospetto, Mussolini, di questa gioventù che gli era venuta crescendo fra le mani? Lo ignoro. Il giolittiano scettico che sonnecchiava in lui, anche se non gli impedì di vederla, certo gl’impedì di crederle. E di tutti gli errori ch’egli ha commesso, credo che questo sia stato il più definitivo e nefasto».

La “punta avanzata” del fascismo
Invecchiando, Montanelli esaurisce la residua oggettività ideologica e incrementa la soggettività carismatica: del suo carisma. Così il Giornale giovani è ammesso ad esistere – accanto a il Giornale – in quanto espressione di una gioventù di Montanelli, proprio come l’Universale è stato espressione della gioventù di Mussolini. Non di una gioventù fascista. «Un giorno – continua la “lettera” a Longanesi – egli ci aveva chiamato, noi de l’Universale . Aveva detto che seguiva da tempo il nostro giornale che rappresentava “la punta avanzata eccetera”, e ci aveva invitato a collaborare al Popolo d’Italia . Noi non avevamo capito. Accettammo la collaborazione, ma seguitando a pubblicare il nostro piccolo periodico che, pur rappresentando la “punta avanzata”, subì vari sequestri, e alla fine fu soppresso, quando il suo direttore era partito volontario per l’Etiopia. Ricci (il fondatore e direttore de l’Universale – Ndr) non volle mai ammetterlo: ma io non ho il minimo dubbio che Mussolini aveva inteso applicare a noi la stessa tattica di corruzione che applicò sempre con tutti gli italiani che potevano dargli fastidio: quella del “posto” e della “bustarella”».
Quanto “alla punta avanzata eccetera”, Montanelli sarà semplicemente il clone di Mussolini nei confronti dei suoi redattori più giovani. Ho passato con lui dei quarti d’ora nei quali si dava per me alla pura mimesi mussoliniana. Mi raccontava di Magda Lupescu e del suo amante, re Carol di Romania, della loro vittima, Corneliu Codreanu, e del suo successore Horia Sima, che entrambi avevamo intervistato a quasi quarant’anni di distanza; o di Berto Ricci e Diano Brocchi, un altro reduce approdato però al Msi (che Montanelli disdegnava) il quale aveva raccolto in volume le pagine frementi d’esaltazione de l’Universale . Montanelli roteava perfino gli occhi come il Duce e l’immedesimazione non era per affascinare me, ma ri-emozionare sé. Come quando si racconta agli altri il primo amore. E poi io il “posto” l’avevo e di “bustarelle”, nella micragna imposta dall’alto prestigio e dalle basse vendite, a il Giornale nemmeno si parlava. Pochi giornalisti sono stati poco attratti dal denaro come Montanelli e specialmente questo fa la differenza nel paragone con Eugenio Scalfari, il redattore di Roma fascista che nel 1976 fonda – venendo lui sì dal “giro” del Mondo – l’altro grande quotidiano-partito.

Invidie e coccodrilli ferocissimi
No, la “corruzione” non era di Montanelli. Non poteva. Non voleva. Merito dell’influenza di Longanesi, elitario quanto Mussolini era demagogo. Il Borghese di Longanesi sarà dunque un circolo chiuso – fra 1950 e 1957 stesse firme, stessi temi, stessa grafica – estraneo alla logica del “posto”, per non dire a quella della “bustarella”. È invece la seduzione intellettuale a essere riscoperta dal Montanelli de il Giornale e de La Voce : alla fine sarà una sorta di pifferaio di Hamelin, che conduce i suoi “ragazzi” a gettarsi nel mare della disoccupazione. Nel 1974 in cui fonda il Giornale , Montanelli ha sessantacinque anni; nel 1994 in cui fonda – e affonda – La Voce ne ha ottantacinque. E poi ormai in lui, oltre al pifferaio affiora il faraone. Infatti non cerca eredi, ma una piramide in cui mummificarsi, meglio se coi suoi redattori intorno. In fondo ha ideato due quotidiani solo come cornici dei propri articoli, come si deduce a prima vista dalla grafica sciatta. Poi c’è l’invidia: sembra incredibile che, dopo Curzio Malaparte, Montanelli potesse invidiare qualche giornalista, ma è così: se qualcuno riceve più lettere di lui, s’adombra; s’adombra meno se quel qualcuno muore. Già negli anni Cinquanta al Corriere della Sera si diceva che la cosa peggiore – dopo il morire – fosse il “coccodrillo” di Montanelli: elogi ditirambici nelle prime righe che sfociano regolarmente nella demolizione del defunto.
Tocca anche a Longanesi, che se ne va troppo presto (1957) per diventare a sua volta un collaboratore de il Giornale . Prezzolini invece campa fino a cent’anni senza diventarlo. Dopo averlo avvicinato nel 1950 a New York per conto di Longanesi, Montanelli esita ad arruolarlo al momento della fondazione de il Giornale . Non vuole urtarsi con Enzo Bettiza e Guido Piovene, che recano evidente quell’impronta radical-chic che al lettore comune Montanelli paleserà – più lieve, meno odiosa – solo più tardi. Perché poi è stato Piovene a fondare il Giornale , se chi fonda è chi porta i soldi...
Esule volontario a Ginevra, poi a Parigi e a New York fin dagli anni Venti, mezzo secolo dopo Prezzolini in Italia è più dimenticato che detestato: a certi lettori di Montanelli piacerebbe averlo su il Giornale , ma Montanelli è un “apota” così convinto che non ama condividere lettori con nessuno. Quanto a Prezzolini, scrive da decenni su il Resto del Carlino e su La Nazione , che lo pagano bene e tutti i mesi, mentre nel 1974 pochi pensano che il Giornale vivrà fino al 1982 della morte di Prezzolini, per non dire al 1989 della morte del comunismo, l’anno in cui Montanelli coglie – con nervosismo evidente per chi lavora con lui – che i giorni con Silvio Berlusconi, suo editore dal 1978, sono contati.
Per ritrosia, per riguardo e per risparmio, una replica dell’abbraccio borghesiano a il Giornale , avverrà – all’inizio quasi clandestinamente, sotto pseudonimo – con Piero Buscaroli. Non con Prezzolini. È forse anche per questo che – come l’ultimo Mussolini era tornato repubblicano – così l’ultimo Montanelli torna prezzoliniano. Nella testata.
 
 

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